Nella mia infinita battaglia contro la dipendenza da videogiochi, che risale a ben prima del primo annuncio del re del vaporware Duke Nukem Forever, ho incontrato un avversario formidabile nel genere degli idle games, non solo per il suo enorme potere di assuefazione, ma anche per la sua ambigua, beffarda portata liberatoria.
“Idle” significa “fermo, a riposo, inattivo” (ma anche “pigro, indolente, inutile”), e come etichetta videoludica raggruppa un insieme di titoli che prevedono interattività molto limitata da parte dell’utente; normalmente non più di una zona attiva su cui cliccare a ripetizione per accumulare risorse (a seconda del gioco: un mostro da uccidere, una miniera da cui estrarre metalli preziosi, un biscotto, ecc), e una serie di possibili upgrade (spade migliori, trivelle più potenti, nonne pasticcere più esperte, ecc), il cui effetto è aumentare la velocità di accumulazione.
Di solito, entro la prima mezz’ora di gioco, si sbloccano upgrade acquistabili che abilitano il clic automatico. Da quel momento il giocatore può prendersela comoda, fare esercizi per lenire il tunnel carpale, e magari farsi un giro, per tornare a curarsi del gioco solo di tanto in tanto, per comprare ulteriori upgrade o accelerare un po’ la partita cliccando manualmente (il click manuale è giustamente premiato rispetto a quello automatico, fruttando tipicamente un 15-20% in più).
Lo scopo di un idle è accumulare. Punti, XP, soldi, energia, caramelle, insetti mutanti, non importa cosa: quel che conta è che il gioco parte da zero e prosegue con una progressione potenzialmente infinita (infatti un altro nome con cui il genere è noto è incremental. Un altro ancora è clicker, per ovvi motivi, ma io preferisco idle a entrambi perché ne sottolinea meglio la natura paradossale). Negli idle non si muore. Il peggio che può succedere è che il livello aumenti troppo lentamente. Neppure, che io sappia, si vince: si può solo progredire. A volte qualche upgrade sblocca una schermata diversa, magari con un sotto-gioco o una digressione narrativa, ma quando non sono che dei brevi intermezzi, tutte le espansioni rispettano lo stesso principio di accumulazione. Gli idle più vasti e complessi hanno dozzine di diverse “stanze” con contatori e risorse di tipo diverso: per esempio in Realm Revolutions, dopo alcuni giorni (di tempo reale!) passati ad accumulare oro e cibo per costruire nuovi edifici, si sbloccano dei castelli che producono armigeri, con i quali finalmente puoi accedere a una nuova schermata da cui soldati si avventurano nella foresta per uccidere torme di mostri uno dopo l’altro… Sempre con lo stesso esatto meccanismo.
Il capostipite degli idle è il venerabile Progress Quest (2002), che è anche l’unico idle puro, nel senso che in Progress Quest non è possibile fare niente, se non osservare una barra di caricamento riempirsi mentre il proprio personaggio esplora vari dungeon uccidendo mostri (come informano semplici avvisi testuali tipo “Executing 4 underage Chromatic dragons…”). Quando la barra arriva al 100%, il personaggio guadagna un livello e la barra si azzera. Ad libitum. Volendo, non molto diverso da uno screen saver, ma in realtà una satira arguta della meccanicità di certi meccanismi di attesa e gratificazione che entra di diritto nella storia dei videogiochi. In maniera simile, Cow Clicker (2010) si pose come una efficace decostruzione dei giochi social “addittivi” alla FarmVille, che all’epoca imperversavano su Facebook (un’epoca che coincide, non a caso, con la politica di “porte aperte” di Facebook che ha portato allo scandalo di Cambridge Analytica).
I discendenti di Progress Quest invece sono dei giochi veri e propri, come li ho tratteggiati, perché sono interattivi. Gli idle si giocano su browser o su mobile e sono quasi sempre gratuiti (eventualmente con booster packs o loot boxes pagabili in soldi reali per velocizzare la partita), e costituiscono un genere tipicamente “povero”, nel senso che non si tratta di titoli da console in vendita a 40€ o più, e di solito nemmeno di titoli indie a basso costo su Steam. Io li ho scoperti circa nel 2010 su Kongregate, una delle piattaforme web che hanno segnato l’epoca d’oro del free-to-play, ma sono diffusi in molte nicchie e comunità. Presentano una grafica spartana, scarabocchiata o al più 8bit, e praticamente nessun audio eccetto, talvolta, un bling che accompagna l’acquisto di un upgrade. Quando c’è una musica di sfondo, viene immediatamente silenziata, perché va bene guardare uno schermo immobile per tre ore di seguito, ma se c’è lo stesso jingle in loop sotto, la follia è dietro l’angolo.
Tra nonno Progress Quest e la sua diabolica progenie è intervenuta un’innovazione fondamentale: il fatto che la crescita non è più lineare, bensì esponenziale (difficile individuare il momento preciso, ma era già un’evoluzione assodata intorno al 2012-2013, quando uscirono classici come Candy Box! e Idle Mine). La differenza pare da poco ma è fondamentale. Infatti, rende possibile dare un senso di scoperta sempre nuovo alla monotona progressione dei livelli. Prendiamo l’esempio di Cosmos Quest. Quando accumulo abbastanza risorse per passare a uno stadio più elevato, che so, costruire la mia prima Sfera di Dyson, la mia produzione grazie alla nuova tecnologia subirà un’impennata enorme, moltiplicandosi per 10 o per 100, e tutti gli upgrade che fino a poco prima avevano costi proibitivi saranno adesso a portata di mano, basterà attendere qualche secondo. In questo frangente, l’euforia sarà alle stelle. Ma il fatto è che anche gli upgrade successivi moltiplicheranno il loro costo per 10 o per 100, e il risultato netto, dopo la rapida scorpacciata, sarà di farmi trovare nell’identica situazione iniziale con uno o due zeri in più sia nei prezzi che nei profitti. Dovrò attendere altre 8 ore prima di accumulare energia sufficiente per comprare il primo upgrade alle mie Sfere (che ormai saranno migliaia, milioni, miliardi), ecc. Una continua accelerazione, dunque, che ha l’aspetto di una paralisi perenne. Questa condizione paradossale, in cui ci si sente ricchissimi e poverissimi allo stesso tempo è ben descritta in questo articolo del 2013 su IGN.
L’ethos dell’idle, tirando le somme, non è quello del risparmio, della lenta e costante addizione che porta un lavoratore nell’arco di una vita ad accumulare un patrimonio sufficiente per comprare una casa ai figli. Piuttosto, il movimento è quello della speculazione finanziaria, della spirale impazzita, della singolarità tecnologica. Un accumulo bulimico di ordini di grandezza che ricordano, volendo, anche l’infinita progressione dei livelli di potere in Dragon Ball, sulla cui funzione metafisica ebbe a scrivere, un po’ scherzando un po’ no, Francesco D’Isa in Le sentinelle siamo noi.
Gli idle sono tantissimi, e sono tutti uguali e tutti diversi allo stesso tempo. Ciò che distingue un idle dall’altro è l’ambientazione (fantasy, fantascienza, business, ecc), che non si esaurisce in una diversa veste grafica, ma più sottilmente, nel genere videoludico di cui questo idle è la parodia. Infatti, fedelmente all’antenato Progress Quest, ogni idle che si rispetti fa il verso a una determinata manifestazione dell’eterno fenomeno del grinding, cioè del momento in cui non si gioca più per divertimento, o per vincere, ma per massimizzare il punteggio o il livello adeguandosi nella maniera più efficiente possibile alle meccaniche di gioco. Certamente, il grinding del gioco di ruolo è il più riconoscibile: ammazzo mostri, vendo oggetti, accumulo punti esperienza, ecc. Ma tutti i generi vi sono soggetti, perché tutti sono automatizzabili.
Infatti, se il computer può far girare un gioco, può anche giocarci da solo. (Ai tempi dei coin-op, rimanevo spesso i quarti d’ora ipnotizzato dalle demo che apparivano quando nessuno inseriva la moneta, in cui il cassone giocava da solo sempre le solite due tre partite precalcolate, morendo sempre nello stesso stupido modo.) E così abbiamo idle che automatizzano i picchiaduro o gli sparatutto a scorrimento laterale, con bulli e astronavi che tritano milioni di nemici senza bisogno di premere un tasto; abbiamo idle come Holiday City che fanno il verso ai manageriali, con imperi finanziari che si autoaccrescono fruttando valanghe di dollari così immense da seppellire Zio Paperone nella vergogna; abbiamo le simulazioni, spesso di specie biologiche—l’esponenzialità catastrofica delle leggi malthusiane ben si sposa con l’incrementalità dell’idle—vedi Trimps o Swarm Simulator; naturalmente non poteva mancare chi ha fatto il verso alla visual novel giapponese, gettando il giocatore in un accumulo infinito di fidanzatine sexy (Crush Crush). Rompicapo? Coperti. Tower defense? C’è posto per tutti. Poteva mancare il contributo idle al delirante meme videoludico delle capre? Certo che no: ecco Idleplex. Non mancano neppure parodie dei giochi più famosi, come GrindCraft per Minecraft.
Non c’è alcuna pietà. Gli idle, come i meme, si appropriano di tutto quello che toccano e lo corrompono. Qualsiasi genere con cui effettua un crossover viene eviscerato, perché l’idle non ammette vie di mezzo: o sei idle, o non sei. Per esempio, il pur eccellente Factory Idle tradisce il suo nome e diventa un manageriale a tutti gli effetti, dal momento in cui disporre fabbrichette, centrali elettriche e nastri trasportatori su una griglia in modo da ottimizzare la produttività implica uno sforzo di pianificazione che non ha poi troppo da invidiare al famoso Factorio. La cartina tornasole dell’idle genuino è immaginare di rimuovere la skin grafica e lasciare intatti solo i punti d’interazione: bene, se il gioco rimane identico, e continua imperterrito ad accumulare bombastiliardi, è un idle. Ovviamente questo esercizio è stato più volte messo in pratica, fino alla meta-parodia dell’idle che parodizza il genere idle: in Revolution Idle 2 si accumulano rotazioni di colore su dei cerchi concentrici; mentre in Pixel Filling Squares 3.0… beh, l’avrete capito. (Nota per accennare a un ampliamento di orizzonte: emerge anche qui la “singolarità autoreferenziale”, quel nichilismo combinatorio tipico dell’informatizzazione matura di cui parlavo a proposito della scrittura automatica di romanzi.)
La lista potrebbe continuare all’infinito. Appropriato, no? Per chi volesse approfondire, nel subreddit /incremental_games c’è una lista che conta centinaia di titoli. (Mi sento un po’ in colpa a condividere questo link, quasi fossi uno spacciatore di eroina, ma anche peggio, perché l’eroina almeno quando sei sotto effetto è piacevole. Caro lettore, se non ti senti forte non cliccare! Non basterebbe la durata di vita degli Immortali di Borges per venire a capo di tutti quei giochi…)
La fenomenologia del giocatore di idle è perciò sconfortante: alterna lunghissimi periodi di inattività totale con brevi accessi di cliccaggio furioso. Per “lunghissimi”, intendo anche mezz’ora, un’ora senz’altro da fare che guardare un numero che aumenta, da un miliardo a due miliardi, a mille miliardi, mille triliardi, a centomila googols, a millemila megistoni e sette numeri di Graham. Simili attese, sottolineo, sono richieste a videogiocatori che spesso saltano con insofferenza intermezzi narrativi della durata di 5 secondi. A seconda del gioco, è addirittura necessario tenere la tab del browser aperta e in primo piano, altrimenti la raccolta di monete d’oro, mana o limonata s’interrompe. Mi è capitato di disporre diverse partite a mosaico sullo schermo, saltando dall’una all’altra in multitasking (l’esperienza è continuamente interrotta, non entri mai nel flow). Il cliccaggio furioso, che invece dura di solito non più di un paio di minuti, è il momento in cui le persone che hai intorno, per esempio i tuoi familiari, notano la stranezza del tuo comportamento e ti chiedono “perché clicchi come un matto?”.
A quel punto puoi provare a spiegare l’idle, generando allarme anche in gente ben disposta verso la videoludica, oppure, per non farti più beccare, ti toccherà imparare mummificare il corpo mentre muovi solo l’indice, come l’incidentato che si risveglia dal coma, cliccando velocissimo ma il più impercettibilmente possibile, alla pari di un colibrì quando sbatte le ali. In ogni caso, rivivrai quell’imbarazzo che da adolescente provavi quando in qualsiasi modo veniva fuori la connessione tra te e un videogioco, il che potrebbe disturbarti, ma potrebbe anche farti sogghignare giù nel profondo, perché in fondo per te, nonostante tutti gli sdoganamenti, l’inaccettabilità sociale è ancora il discrimine che separa il gaming serio dai semplici passatempi.
Si potrebbe dire che l’idle è uno specchio digitale impietoso dell’insensatezza dell’accumulazione di merci e ricchezza nel mondo materiale. Ma fermarsi a questo livello, sarebbe mantenersi in superficie, e forse mancare il bersaglio, ignorando l’origine del genere, che nasce, per così dire, come efflorescenza del gioco online. Riassumerei invece il senso dell’idle come sovversione del divertimento. Quello che, per esempio, in un gioco di ruolo è il culmine della partita, cioè il completamento della missione e la relativa soddisfazione, qui è un mero clic sul pulsante “Compra 100k arcieri elfici”. Il momento morto è il gioco, e la vittoria non è che un salto istantaneo, nemmeno evidenziato dall’interfaccia, che segna il passaggio a un ordine di grandezza superiore nel processo di accumulazione. Resta da capire come sia possibile che una cosa programmaticamente non-divertente possa in qualche modo divertire, o quantomeno risultare così avvincente da superare, contro ogni ragionevolezza, l’ostacolo di presentarsi nella maniera più noiosa concepibile. È un grattacapo. Per fortuna l’idle ti dà tanto tempo per pensare. Spesso tra un upgrade e l’altro hai abbastanza tempo per fumare una sigaretta, farti un panino, andare in bagno, leggere un paio di articoli su Kotaku. Così, ho elaborato una teoria.
L’idle è la sovversione del divertimento in un mondo in cui anche il tempo libero è stato messo al lavoro dai fasti della sharing economy. Da bravo prosumer, dopo l’ufficio (se ce l’ho), produco ricchezza sulle mille piattaforme di estrazione di valore sociale, comunicando, creando contenuti, e così via. Anche l’atto di giocare è sempre più al servizio della produttività, con la videoludica episodica e stagionale, con la diffusione del pay-to-play, con la sempre maggiore rilevanza delle piattaforme di social gaming come Twitch. Quando gioco a un idle, non sto facendo altro che performare la mia condizione, mi sto guardando giocare come un idiota che regala il suo tempo—questo sì, risorsa limitata e preziosa—agli architetti del capitalismo cognitivo. Solo che sto realmente giocando, cioè con il mio gioco non regalo niente a nessuno (a meno che non mi prenda il pazzo di fare una donazione allo sviluppatore) e dichiaro, con una parte di sfida, due di ironia e quattro di masochismo, che se non ho più tempo per me nemmeno nel tempo libero, nemmeno quando sono solo con me stesso e non ho nulla da fare se non godermi la vita, che almeno il mio tempo di ludo-lavoro sia perfettamente insensato.
La realizzazione di questo articolo ha richiesto un mese, di cui due giorni alla scrittura. I precedenti ventotto sono stati dedicati alla ricerca sul campo, che dopo varie esplorazioni si è assestata sulla produzione di biscotti con Cookie Clicker, il capolavoro del genere. In totale ne ho accumulati 1024 e mi accingo ad acquistare il mio primo Prisma, che secondo la descrizione “converte la luce stessa in biscotti”. Qui appare un barlume di un tema ulteriore, frequente nell’idle, che è quello della trascendenza suprema, dell’upgrade finale che con un lampo accecante concluderà tutti gli upgrade e ci libererà da questa infinita e insensata corsa al progresso. Ma è solo un attimo, acquistato il Prisma la mia produzione aumenta di un misero 15%, l’unica cosa che posso fare adesso è aspettare un altro po’, aspirare ad acquistarne un altro, e un altro ancora, finché tra un paio di giorni, forse, non avrò finalmente raggiunto quota 1025 biscotti. Ma ho fatto un fioretto: quando uscirà questo articolo, cancellerò la mia partita a Cookie Clicker, e dichiarerò un’ennesima, effimera vittoria contro la mia dipendenza da videogiochi.