Ao e Bo devono lasciare il loro appartamento a Londra perché stanno per concludere i loro studi: è essenzialmente questo il plot di No Longer Home, l’avventura grafica e narrativa semi-autobiografica di Humble Grove pubblicata da Fellow Traveller. La storia è raccontata tramite text-driven dialogue con un ritmo lento, dove l’interazione si riduce alla scelta tra due o tre proposte che “ispirano” le risposte date dai due protagonisti.
Ao e Bo sono “outsiders” che si trovano a fronteggiare la fine di un’era nella loro vita: devono trovarsi degli impieghi “seri” e si raccolgono insieme agli amici per salutarsi, ragionare e tirare le fila di quel che hanno fatto fino a questo momento. Per loro “tutto ciò che hanno costruito sembra incompleto” e pesano sulle spalle le aspettative dei genitori, e quanto dei loro valori—e di quelli della società—hanno ereditato volenti o nolenti; si interrogano sulla direzione da prendere, e soprattutto sulla loro difficoltà nel conformarsi alla norma. Questo perché Ao non vuole figli e non incarna i valori della sua famiglia cristiano-cattolica, mentre Bo si rispecchia in un’identità non-binaria. Entrambi rappresentano i giovani adulti che si sentono “condannati al fallimento”, come esprime spesso in modo eccentrico Bo: “Passo le mie giornate a controllare gli orari dei treni mentre tutti gli altri partono“.
No Longer Home racconta l’angoscia di chi è ancora bambino nel corpo di un adulto—con le conseguenti responsabilità verso se stesso e gli altri—in modo minimalista, con una linea narrativa scheletrica ed essenziale. Dal primo all’ultimo momento viviamo la stessa sensazione di spaesamento dei protagonisti, probabilmente grazie anche all’omissione di tanti dettagli e l’immissione in uno scenario dove non sappiamo esattamente cosa sia fuori posto e cosa manchi.
È affascinante come gli stati d’animo dei protagonisti vengano comunicati visivamente tramite una sorta di “scenografia” o di set teatrale, anche perché in mancanza di una rappresentazione dettagliata dei visi, il gioco rinuncia alla mimica facciale e ripiega sul “mood” e sull’atmosfera, tramite la colonna sonora e il sound design curati in maniera eccellente da Eli Rainsberry, che adatta la musica alle diverse fasce del giorno, ai momenti in cui i protagonisti sono soli o in compagnia, alle diverse aree della casa.
L’insicurezza e l’umore di Bo e Ao coprono ogni interazione, qualsiasi dialogo sembra in secondo piano rispetto all’amarezza di dover lasciare un porto sicuro. Anche la presenza di Gi, un demone interiore—che in realtà ha pochissimo spazio—non riesce a distogliere l’attenzione dalla pesantezza del momento, e non definisce qualcos’altro della personalità di Ao e Bo. Il demone di Bo occupa uno spazio fisico, in camera da letto e in uno stanzino dotato di televisione, e per quanto i dialoghi cerchino di rappresentare un tormento interiore fatto di rimorsi, insoddisfazione e paura per il futuro con una forte carica metaforica, il risultato finale appare superficiale. Degli altri personaggi che popolano la vita dei due protagonisti non resta veramente nulla, solo alcuni nomi in scene che ogni tanto Bo e Ao ricordano tra una conversazione malinconica e l’altra.
La grafica low-poly pulita e le musiche rendono l’esperienza di gioco piacevole, ma la scarsa fluidità nei movimenti dei personaggi e molti tempi morti allontanano No Longer Home dal modello a cui probabilmente si ispira, Kentucky Route Zero, uscito nel 2013. Il riferimento diventa palese in una scena con Bo (“Sullo schermo c’è un uomo ad una pompa di benzina con il suo cane”, incipit indimenticabile del titolo di Cardboard Computer), ma No Longer Home riesce solo a trasmettere malinconia e straniamento, mentre manca una concatenazione memorabile di eventi; e manca, in queste due ore di avventura, anche la critica sociale sui grandi temi che caratterizza Kentucky Route Zero (che si occupa della Grande Depressione, di cosa c’è dopo la morte, degli esclusi sociali).
L’unica eccezione è il non-binarism di Bo, che emerge di frequente: sull’argomento non c’è quasi mai un focus totale, ma è un tema che aleggia nel gioco, essendo parte della sua quotidianità. All’inizio può essere confusionario per un lettore che non sia abituato o informato sull’uso del pronome neutro “they” in lingua inglese, ma No Longer Home presenta la questione genderqueer senza uno scopo didattico o un intento che non sia quello di rappresentare il personaggio di Bo in un frammento della sua vita.
«La precarietà e l’identità sono temi dominanti nella storia. Gli eventi del videogioco si basano sulle nostre esperienze, in un momento in cui ci sentivamo disillusi dalla vita dopo l’università e stavamo cercando di capire cosa fare dopo» racconta Cel Davison, lead writer del gioco. «No Longer Home riguarda l’esplorare il nostro posto nel mondo e il restare meravigliati dalla vita di tutti i giorni».
Al di là delle scelte linguistiche e stilistiche, No Longer Home ci racconta una storia che abbiamo vissuto o che vivremo tutti. Come dice Ao: “A volte vorrei scomparire; dissolvermi in un milione di particelle… Semplicemente chiudere gli occhi e spegnere la mia esistenza. Nessun ricordo di me; solo parte dell’aria”. L’opera di Humble Grove ci racconta la difficoltà nel diventare adulti e l’angoscia che comporta, ci racconta lo sgretolamento del senso di appartenenza e di quella “togetherness” che da adolescenti e giovani adulti cerchiamo ancora di rincorrere, mentre le nostre vite ci portano altrove. Ma forse ce ne parla anche per ricordarci che non siamo gli unici a sperimentarlo.