Un dialogo intorno a Control di Remedy Entertainment, da leggere, se volete, ascoltando questa canzone qui.
MM: Per iniziare vorrei chiederti che tipo di esperienza è stata, per te, giocare a Control. Se puramente ludica o narrativa, o se ti ha coinvolto in un certo modo a livello psichico e mentale come immagino fosse nelle intenzioni degli sviluppatori. Per me—posto che ogni videogioco più o meno riuscito è sempre un’avventura in un’altra dimensione—è stata un’esperienza molto notturna e perturbante, quasi di sonnambulismo consapevole: ogni volta che facevo partire il gioco ero perfettamente conscio che sarei stato da un’altra parte, in una zona molto simile al sogno, per poi riemergerne un paio d’ore dopo come se nulla fosse.
GN: Control, e premetto che non è una provocazione anche se potrebbe sembrare tale, mi ha coinvolto al punto da arrivare a trovare noioso e insoddisfacente il fatto di dovermi limitare a giocarlo. Non è una critica agli sviluppatori: non sto dicendo cioè che avrei gradito modalità di interazione diverse—un dosaggio differente forse sì, ma magari su questo ci torno dopo—e ho trovato anzi molto divertenti le meccaniche di combattimento, con questo gameplay basato sul raccogliere e lanciare qualsiasi cosa capiti a tiro. Intendo piuttosto dire che il mondo di gioco—e qui mi riferisco alla strana architettura della sede del Federal Bureau of Control, e di certo all’idea stessa degli Oggetti Alterati o del Potere—mi ha catturato fino a farmi desiderare qualcosa di impossibile, vale a dire di poterne fare un’esperienza diretta e non mediata. È un po’ come quando ti innamori di una persona: vorresti sapere subito tutto, cosa pensa, cosa ha mai pensato nella vita, quali gusti ha in qualsiasi campo dello scibile umano, il piatto, il colore, il libro, il numero, il disco preferito, e come ha passato la sua infanzia, e così via. Naturalmente è uno slancio destinato a rimanere frustrato, non esiste alcun accesso immediato a un’altra persona: puoi farti mostrare delle vecchie foto magari, fare qualche domanda, imparare a capire alcune cose da solo. Allo stesso modo in Control ho dovuto in un certo senso fare i conti col fatto di poter entrare in quel mondo solo attraverso una mediazione, che è appunto la forma del videogioco. L’ho trovata però anche una costrizione, che appare forse più evidente se provi a dare una definizione all’opera di Remedy. Control lo potrei definire un gioco d’azione, così come il dizionario del cinema mi dice che Mulholland Drive è un film drammatico, ma in entrambi i casi è come non aver detto niente. Tu come definiresti Control?
MM: Le definizioni sono sempre un po’ problematiche. Spero davvero che il videogioco definitivo sarà in grado di sciogliere e trascendere ogni genere, per la felicità di pubblico e recensori. Di certo c’è che da xenofilo quale sono, Control mi ha incuriosito da subito, prima ancora di provarlo, come oggetto strano, potenzialmente alieno, a prescindere dalla sua natura prettamente videoludica. Provo allora a prendere in prestito una categoria letteraria, quella del New Weird citata in un’intervista dallo stesso Sam Lake. In Control trovi Mark Fisher, Jeff VanDerMeer e tanti di quei riferimenti che ci sono piombati addosso negli ultimi anni che non sarei neppure in grado di elencarli tutti (ci aggiungerei pure un po’ di Julio Cortázar e ovviamente X-Files, David Lynch, Lovecraft e Jung, quest’ultimo citato esplicitamente in più documenti e nel laboratorio di sincronicità). Se ti interessa il New Weird, con Control—in quanto esperienza letteraria, al di là dei suoi legami con Alan Wake che è a tutti gli effetti la storia di uno scrittore—hai la possibilità di passare dalle parole ai fatti, di metterci le mani, di immergerti in uno di quei mondi alieni e strani di cui hai letto tanto. E starci dentro, per quanto sia comunque un’esperienza mediata come dicevi, è ben differente che limitarti a leggerne, perché puoi provare sulla tua pelle un sacco di quelle stranezze che tra le altre cose fanno a pezzi l’antropocentrismo e l’idea di realtà fissa e immutabile. Piuttosto ti chiedo, visto che su questo punto mi sto ancora interrogando: dando per buona la mia definizione di Control come affondo nel perturbante, non sarà che a furia di “perturbarci” con le opere di finzione (New Weird incluso), alla fine il perturbante è diventato puro godimento estetico, e dunque ha smesso di perturbarci davvero? Qui e lì Control mi ha preso in quel senso—la claustrofobia, i sussurri, le voci, i video creepy dei Threshold Kids—ma su tutto credo abbia prevalso il piacere puramente visivo di esplorare la Oldest House e le sue Fondamenta.
GN: Posso risponderti solamente con la mia esperienza personale di lettore, e suggerisco che possa trattarsi di due momenti diversi. Questi scrittori sono straordinari nello spingersi con l’immaginazione fino a creare scenari e interi mondi profondamente alieni non solo rispetto al vissuto, ma—verrebbe da dire—pure rispetto al pensabile, se non fosse proprio per l’apparizione di opere simili. Mi vengono in mente ad esempio Antoine Volodine e tutti gli autori immaginari, suoi pseudonimi, del post-esotismo, con i loro libri in cui i personaggi si trovano in un mondo ancora sovietico ma già post-apocalittico a vivere esperienze dopo la morte e dopo la stessa disgregazione del tempo. Come fai a spingerti fin là e a scrivere qualcosa di così significativo? Il godimento estetico scatta lì, e allora è già troppo tardi, per il perturbante la strada è già spianata. In un certo senso, insomma, il perturbante secondo me è sempre stato puro godimento estetico. Rimane da chiedersi quanto siano stati bravi Sam Lake e il resto del team di Remedy a rappresentare il mondo che hanno voluto creare. L’idea è molto suggestiva: un piano astrale esistente come luogo fisico ma esperibile solo a livello mentale, che pian piano sconfina nella realtà (è effettivamente impossibile non pensare all’Area X di Jeff VanDerMeer qui) alimentando l’immaginario umano—case infestate, rapimenti alieni—o alimentandosi di esso—il rapporto di causa/effetto appare impossibile da stabilire. Sono d’accordo con te nel ritenere Control quel tipo di esperienza che ti porta a cercare riferimenti al di fuori dell’ambito videoludico; ma sulla scrittura trovo che ci sia da fare qualche precisazione, e forse da affrontare un problema. La precisazione è che la trama principale, tutta la storia riguardante insomma Dylan, il fratello della protagonista, mi è parsa a dir poco trascurabile e se parliamo di narrazione non è cosa da poco. Resta comunque un piacere parlare con Il Direttivo, così come ascoltare le registrazioni di Darling, grazie anche a scelte originali ed efficaci sotto un profilo prettamente stilistico e letterario, ad esempio relative a spostamenti e ad accostamenti semantici. Arrivo però al problema: Control quanto sfrutta le possibilità che offre in più il medium videoludico? A livello visivo (e sonoro) il Labirinto del Posacenere è memorabile, e come ambientazione il luogo di vacanza del custode Ahti lo è forse ancora di più (credo sia la sequenza in cui si vede meglio quanto Sam Lake ami e sia influenzato da Twin Peaks), ma quanti altri spazi sono capaci di accompagnare e arricchire allo stesso modo la narrazione? I nemici mi sono sembrati poco ispirati, gli Hiss lasciano decisamente a desiderare se confrontati con i Typhoon di Prey o con l’enorme e variegato campionario di mostri di The Witcher 3, tanto per parlare di due giochi che su queste pagine sono stati oggetto di conversazione. Sono nemici, peraltro, che si incontrano fin troppo spesso, e il combattimento, per quanto divertente, all’ennesimo respawn diventa sfiancante: nemmeno nel reboot di Doom—un gioco felice di proporsi come un’interminabile carneficina senza alcuna pretesa da immersive-sim—i nemici ripopolano gli spazi in quel modo. Sotto questo aspetto, in ogni caso, Control mi sembra proporre un’evoluzione significativa dello sparatutto classico, in mezzo a tanti pur ottimi retro-shooter; adatta a una visuale in terza persona un gameplay, quindi, senza coperture, basato su un’estrema e costante mobilità tanto del giocatore quanto dei nemici, e vi aggiunge meccaniche tutte sue. È un pregio non da poco, ma non si coniuga benissimo con l’esperienza complessiva, perché appunto arrivi—almeno a me è successo—a voler davvero passare più tempo a capire cosa è accaduto, quali decisioni sono state prese e quali risultati sono stati conseguiti nel Federal Bureau of Control, in questo stranissimo luogo dove la ricerca scientifica abbraccia l’irrazionalità—al punto in cui è previsto che il Direttore sia scelto sostanzialmente a caso—e invece niente da fare, devi perdere tempo ad abbattere nemici. È questo il dosaggio a cui mi riferivo prima. I pochi puzzle che ho incontrato—come quello delle schede perforate, o quello dello Specchio—li ho apprezzati forse anche più di quanto meritassero proprio perché offrivano quel lato dell’esperienza, consentivano cioè di conoscere meglio e in un certo senso di partecipare alle attività di quell’organizzazione. Avrei voluto ce ne fossero di più e di migliori. La mia impressione, in sintesi, è che gran parte del fascino dell’opera di Remedy operi soprattutto a livello di suggestione—una magnifica suggestione, certo. Tu cosa avresti voluto di diverso in Control?
MM: Qui la risposta è difficile: da un po’ cerco di prendere un’opera per quel che è, non per quel che avrei voluto che fosse. E in effetti Control mi ha preso proprio su un piano di pura suggestione, grazie alla sua personalità estetica e al suo far collassare razionalità e irrazionalità, scienza e paranormale in un unico gorgo. Suggestione che ha posto sullo sfondo alcuni dei limiti che evidenzi e che condivido (soprattutto a proposito del respawn dei soliti nemici). Lo dicevo prima: sono uno xenofilo, per cui qualsiasi cosa metta in discussione la realtà per come la conosciamo ha tutta la mia attenzione, anche quando quelle stranezze non rappresentano nulla di particolarmente innovativo a livello concettuale. Ad esempio la questione degli Oggetti di Potere/Alterati è puro Mark Fisher: vecchi avanzi di modernariato popolare come il telefono rosso in bachelite, il floppy disk, il jukebox e tutta quella roba che pareva eterna nel suo utilizzo quotidiano e che invece, perduta ogni funzione pratica, comincia ad assumere forme misteriose ai nostri occhi, suscitando quel tipico sentimento hauntologico che si può provare ascoltando vecchi jingle pubblicitari in un mall abbandonato. Sul personaggio di Dylan tocchi sicuramente un altro tasto dolente: il suo rapporto con Jesse, ancor più nei due DLC, passa del tutto in secondo piano, nonostante il suo sia uno dei tanti importanti rimandi al tema del doppio che troviamo nel gioco (Piano Astrale/Realtà fisica, Polaris/Hiss, Consiglio/Ex, Jesse/Essej e Luce/Oscurità di derivazione wakeiana, tra gli altri). Ci sarebbe pure quell’ipotesi buttata lì dal Consiglio, che fra un sibilo e un ronzio fa riferimento alla possibile natura videoludica del mondo di gioco: un’altra cosa che non è approfondita, mentre l’eventualità che tutto ciò che troviamo in Control accada appunto all’interno di un videogioco—o che addirittura nasca dalla macchina da scrivere di Alan Wake, come si ipotizza in AWE—mi sembrava molto promettente. Magari nel prossimo titolo di Remedy Entertainment scopriremo che tanto Jesse Faden quanto Alan Wake vivono in un videogioco scritto da Sam Lake per sfuggire a una presenza oscura che infesta proprio gli studi degli sviluppatori finlandesi—il custode Ahti, dio degli oceani e dei motel abbandonati? Vai a sapere.
GN: A me è piaciuta molto la scelta di Remedy di spargere qua e là indizi in grado di suggerire interpretazioni contraddittorie degli eventi del gioco, e la mia preferita è un’altra ancora: mi piace credere, cioè, non a Control come meta-videogioco, e nemmeno come creazione letteraria di Alan Wake, ma al contrario ad Alan Wake come a una vicenda legata ai fenomeni studiati dal Federal Bureau of Control. In questo, credo di subire la fascinazione di tutte le opere in grado di riconfigurarne altre—o persino di riconfigurare se stesse—aggiungendo un nuovo contesto senza nulla togliere a quello originale. Penso alla terza stagione di Twin Peaks: Kyle MacLachlan interpreta quattro ruoli diversi e quello dell’agente Cooper diventa uno dei due più marginali, in favore di un doppelgänger malvagio e di Dougie, un personaggio comico e assurdo, quest’ultimo, che in realtà diventa profondamente tragico agli occhi dello spettatore in virtù delle sue conoscenze pregresse. Poi c’è il male che si annida nelle foreste di Twin Peaks legato all’esplosione della prima bomba atomica in New Mexico nel 1966, e addirittura l’evento scatenante di tutta la serie, l’omicidio di Laura Palmer, cancellato per sempre dalla storia. Mediante questo radicale cambio di prospettiva la terza stagione si arricchisce di significato grazie alle due originali, e viceversa. Se torno ancora alla serie di Mark Frost e David Lynch è perché Sam Lake, intervistato per la cover story di PC Gamer del novembre 2018, parlò così proprio della terza stagione: «È stata perfetta. È stata sicuramente una grande ispirazione, e una conferma per certe cose che stavamo facendo. Penso che continuerà a ispirarmi negli anni a venire». Forse Sam Lake, riferendosi a “certe cose che stavamo facendo”, intende proprio questo. Lungi dal diventare un semplice contenitore, una matrioska, Control guadagna qualcosa dal suo collegamento con Alan Wake, e in retrospettiva accade anche il contrario. Trovo riuscito e meravigliosamente controintuitivo, infine, che aggiungendo riferimenti si arrivi, di fatto, alla perdita di ogni punto di riferimento. Il giocatore—almeno per me è stato così—si ritrova un po’ come Jesse nel motel abbandonato, che è forse l’invenzione più potente di Control: non ha nulla di eccezionale sul piano visivo, ma su quello concettuale, beh, è un piccolo edificio visitato decine di volte, nel corso di anni, di cui nessuno ha mai visto l’esterno, o saprebbe dire dove si trova, perché si viene sempre portati direttamente al suo interno. Allo stesso modo, possiamo trovarci dentro Control, oppure dentro Alan Wake, ma qual è il quadro più grande, lo stato complessivo delle cose? Interi altri mondi si celano dietro ciascuna delle porte impossibili da aprire del motel? Spero e temo allo stesso tempo che Remedy non ce lo spiegherà mai.