La questione della scrittura nei videogiochi è un argomento che periodicamente torna d’attualità: ogni protagonista in cui riesce difficile identificarsi, ogni mondo che sembra non avere una storia propria, ogni personaggio secondario provvisto del minimo indispensabile per fornire una quest, ci riportano sempre lì, alla necessità di avere giochi scritti meglio. Si tratta di un passaggio obbligato per qualsiasi medium; i videogiochi delle origini erano puro gameplay, così come il cinema delle origini ha proposto pure immagini in movimento, ma la maturazione di ogni forma d’arte passa per il coinvolgimento di una platea sempre più ampia, e fin dall’antichità, si sa, alla gente piace e interessa soprattutto questo: sentirsi raccontare delle storie.
Quando non è chiaro quale sia il carattere del protagonista, quali motivazioni lo spingano ad agire, quale tipo di vita abbia vissuto fino al momento in cui siamo chiamati a impersonarlo, quali esperienze lo abbiano in definitiva reso ciò che è, difficilmente ci troveremo di fronte a un gioco memorabile. Un personaggio scritto in maniera approssimativa—dove “approssimativa” può voler dire “lacunosa”, o anche “stereotipata”, o magari entrambe le cose—appare sempre un’occasione persa, non solo per il videogioco in questione, ma per l’intero medium videoludico. Naturalmente vale anche il contrario, e il recente riconoscimento ricevuto da un gioco ben scritto come Hades ai premi Hugo—i più importanti nell’ambito della fantascienza e del fantasy, insieme ai premi Nebula—si può senz’altro considerare, in un certo senso, una vittoria collettiva. A volte, però, una scrittura volontariamente lacunosa può essere invece un’opportunità.
Il mio protagonista preferito di quest’anno—almeno tra i videogiochi che ho avuto modo di provare—è in effetti privo di una storia e non ha nemmeno un nome, anche perché appare in Bonfire Peaks di Corey Martin (già autore di Piper Push Paradise e altri titoli), vale a dire un puzzle game, cioè quanto di più distante esista, solitamente, dall’idea di gioco narrativo. Il suo unico obiettivo, che diventa fin da subito il mio, è portare le proprie cose sul fuoco, e vederle bruciare. Come in tutti i puzzle game i primi livelli sono piuttosto semplici, poi i rompicapo cominciano a complicarsi, infine arrivano a farsi davvero difficili. Possiamo incontrare cascate e rapide, rocce che si sgretolano, trappole mortali, ma l’obiettivo del protagonista rimane lo stesso: portare le proprie cose sul fuoco e restare lì, a vederle bruciare. Inizio presto a chiedermi quale sia il motivo di tanta ostinazione.
Perché vuole disfarsi delle sue cose? Perché questa voglia di vederle bruciare, soprattutto: non potrebbe venderle, oppure regalarle? Bonfire Peaks, è evidente, racconta qualcosa; ma se racconti una delusione, un lutto, la fine di un amore, un ritiro nella natura, un semplice trasloco, questo è impossibile da stabilire. In realtà nell’overworld da cui si accede ai vari livelli—che è una foresta sulla montagna evocata dal titolo—appaiono qua e là oggetti messi lì proprio per suggerire una storia. Forse, tra le ipotesi che ho formulato, alcune sono più probabili di altre, ma le indicazioni restano vaghe, e del resto non ne avrei volute di inequivocabili. Bonfire Peaks, se spiegasse meglio cosa sta raccontando, non susciterebbe le stesse suggestioni; così ha invece la forza della sottrazione, sommata al pericoloso fascino dell’assurdo.
I videogiochi sono spesso il regno del bizzarro, del caos, del nonsense, ma raramente affrontano davvero l’assurdo. In letteratura accade più spesso, e lì posso allora trovare riferimenti: il muto protagonista di Bonfire Peaks mi appare come un Bartleby che anziché dire «preferirei di no» sceglie di preferire sempre di sì, di andarla a bruciare tutta questa roba, non importa quanto sia dannatamente difficile raggiungere il fuoco. C’è di più: in ogni singolo livello la condizione più comune per perdere—per fortuna non è obbligatorio ripartire dall’inizio, si può cancellare ogni singola mossa—è far cadere le proprie cose nell’acqua che delimita il perimetro di gioco. Non sarebbe forse un’ottima alternativa, lasciar affondare tutto? No, non c’è dubbio che lui preferisca raggiungere il fuoco, la sua roba deve bruciare assolutamente, e la cosa mi manda fuori di testa.
A un certo punto arrivano i livelli con le trappole alla Indiana Jones; trovati nella posizione sbagliata quando premi un pulsante, e verrai trafitto da una freccia. Potere dissuasivo di questa novità su quella stupida testa di coccio del protagonista: nessuno. Non è solo un Bartleby, è un Luke Rhinehart che stabilisce di prendere ogni futura decisione nella sua vita tirando i dadi—e nulla importa quanto sarà pericolosa o dannosa la condotta associata al numero uscito fuori dal lancio. Tutta quella roba deve bruciare, a qualsiasi costo. Mi rendo conto che il non avere idea del perché è forse l’unico modo per trovare ragionevole l’intento del protagonista. Qualsiasi motivazione sarebbe assurda ma, per assurdo, l’assenza di una motivazione rende inattaccabile una simile dimostrazione di ferrea volontà.
Così si procede di livello in livello. Per arrivare al fuoco bisogna principalmente spostare casse, e quando ci sono casse da spostare ci si confronta inevitabilmente con Sokoban, ma qui c’è un numero di brillanti scelte di game design sufficiente a reggere anche un simile paragone. Innanzitutto i livelli sono in 3D, e la cubettosa grafica in voxel art esalta e chiarifica la struttura di ogni puzzle. Inoltre i movimenti concessi al protagonista sono solamente tre: andare avanti, andare indietro, e ruotare sul proprio asse. Se la rotazione avviene mentre si tiene una cassa in mano si può contare anche su un effetto leva. Figuratevi di essere una via di mezzo tra un essere umano e una gru da costruzione.
I voxel e i movimenti rendono l’intera faccenda stranamente ed estremamente meccanica: la ricerca della soluzione diventa un esercizio ovviamente di logica, ma direi pure di orientamento nello spazio, di propriocezione differita in un avatar. Gli elementi ambientali arricchiscono sempre il gameplay; le già citate rapide funzionano come nastri trasportatori, e le trappole menzionate prima non si limitano a imporre una condizione di sconfitta: schivata la freccia, questa si può andare a conficcare su una cassa opportunamente sistemata, e diventare una specie di vite utilizzabile per unire altre casse—se avete mai montato un tavolino Ikea avete capito perfettamente cosa intendo.
Tra una sessione di gioco e l’altra mi capita di vedere quel capolavoro del cinema che è Point Blank di John Boorman (titolo italiano: Senza un attimo di tregua). La trama anche qui è particolare, perché il protagonista per tutto il tempo pensa solo a recuperare 93.000 dollari che gli sono stati sottratti. Sono andati a finire a un’organizzazione che viene chiamata sempre e solo “organizzazione”. A un certo punto uno degli uomini a cui dà la caccia glielo fa notare: si sta lasciando dietro una scia di sangue senza fine e sta decimando un colosso finanziario per una somma nemmeno così alta. Nessuno riesce comunque a dargli quei soldi, perché la sua sete di vendetta lo ha portato a raggiungere livelli in cui i contanti non esistono più. Suona tutto assurdo? Poco prima del finale, la donna che è con lui, chiamata sempre Chris, gli chiede: «qual è il mio cognome»? Lui, che per tutto il film viene chiamato sempre Walker, le risponde con un’altra domanda: «qual è il mio nome?».
Questo misterioso scambio di battute pone in una luce diversa tanti altri dettagli del film, come la mancanza di un nome per l’organizzazione contro cui il protagonista combatte, o la sua ossessione per il recupero di quella precisa somma. Si potrebbe pensare che Walker è intrappolato in un film d’azione; privato di tutto il superfluo, come un nome o un pensiero diverso da quella fissazione per i suoi soldi, fa ciò che fa per rispettare una sceneggiatura, per eseguire le indicazioni di un regista, per intrattenere un pubblico. Inizio a chiedermi se il protagonista di Bonfire Peaks non gli somigli, se non stia bruciando le sue cose non affinché le fiamme purifichino gli oggetti privandoli della loro capacità di ricordare le persone—come nello struggente La sicurezza degli oggetti di Rose Troche—o il passato—come nel recente rompicapo zen Unpacking di Witch Beam—ma perché semplicemente non ha altra scelta, è obbligato a sacrificare le sue cose sull’altare del mio divertimento. Bella spiegazione, questa, per il suo assurdo intento: è solo per divertire chi gioca, solo ed esclusivamente per divertire me. Adesso mi sento colpevole ogni volta che non riesco a risolvere un livello—e Bonfire Peaks non è un puzzle game facile.
Ora, la difficoltà è, un po’ come il divertimento, una categoria molto soggettiva, di cui spesso non ha nemmeno senso parlare. In un rompicapo la difficoltà può derivare, banalmente, da quanto sono complicati i passaggi logici richiesti dalla sua soluzione; ma un puzzle game può anche rivelarsi difficile perché non ha saputo utilizzare bene i livelli più semplici, quelli che in genere rivestono il ruolo di tutorial, per spiegare tutte le possibilità offerte da una meccanica di gioco appena introdotta. Ho avuto il sospetto che questo possa essere un difetto—l’unico—di Bonfire Peaks, ma la difficoltà è appunto un argomento troppo spinoso per potersi esprimere con certezza. Non c’è comunque il rischio di restare bloccati: i livelli si presentano raggruppati, e una volta risolti ricompensano chi gioca con una cassa da usare per continuare a esplorare l’overworld; le casse necessarie per proseguire sono sempre in numero inferiore rispetto ai livelli, perciò non sarà mai obbligatorio superarli tutti per proseguire.
Si tratta di uno dei tanti piccoli accorgimenti che rendono Bonfire Peaks di Corey Martin il miglior puzzle game dell’anno, insieme a A Monster’s Expedition di Alan Hazelden, che viene qui accreditato come level designer e inoltre pubblica il gioco con la sua Draknek & Friends—una sigla a cui in futuro, ne sono convinto, gli appassionati di rompicapo penseranno con lo stesso affetto oggi riservato a Bullfrog o Id Software da parte degli amanti di gestionali e sparatutto. I meriti del gioco vanno al di là delle considerazioni fatte sul suo protagonista, che mi sembra comunque aggiungere qualcosa di prezioso al discorso sulla scrittura nei videogiochi. La tendenza negli ultimi anni è stata quella di prendere spunto dalle grandi narrazioni cinematografiche, ma non bisogna mai dimenticare che ogni protagonista videoludico è innanzitutto un personaggio giocabile, e dunque leggibile solo nell’atto di fargli eseguire certe azioni. Allora, forse, la scrittura videoludica è una scrittura di azioni piuttosto che di personaggi; e un personaggio può non essere scritto praticamente per nulla, come il protagonista di Bonfire Peaks, e restare memorabile per via delle azioni che compie.