I limiti di Ghost of Tsushima sono piuttosto evidenti. Il suo combat system, sublime quando si affrontano piccoli gruppi di nemici, si fa confusionario quando invece le truppe si affollano sullo schermo. Il level design delle fasi esplorative, specie quelle in verticale, potrebbe risultare banale per i palati più raffinati, e non mancano momenti imbarazzanti col povero Jin Sakai incastrato tra le rocce di un precipizio mentre cerca di arrampicarsi verso la sommità di un santuario shinto. Ancora, può capitare che ci siano problemi nel concatenamento logico e temporale delle missioni secondarie, e anche la scrittura di alcune tra queste, interessanti nella loro asciutta essenzialità da racconto zen, non sempre è al massimo.
In generale, potremmo definire Ghost of Tsushima un open world per niente innovativo, ma certamente onesto. In fondo i suoi limiti, a partire da quelli sopraelencati, sono tutti sul tavolo, riscontrabili sin dall’inizio del gioco. Alcuni, legati proprio a una concezione da open world vecchia maniera, potrebbero addirittura rivelarsi dei pregi (non passeremo troppe ore in attività inutili sparse per una mappa sterminata). Mentre su altri, dopo diverse ore di gioco, sono riuscito a chiudere un occhio senza troppi problemi.
Anzi, al termine dell’avventura di Jin Sakai non riuscivo a staccarmi dal gioco. Non riuscivo a smettere di cavalcare per Iki e Tsushima, sfidare le ultime truppe mongole rimaste sulle isole, riprendere a girovagare tra i colori squillanti del paesaggio nipponico guidato di tanto in tanto dagli animali o dal vento sullo schermo, finalmente liberato da qualsiasi interfaccia (questa sì, una discreta e interessante innovazione).
Il fatto è che il gameplay loop di Ghost of Tsushima, nella sua semplicità disarmante, è decisamente efficace. Dal mio punto di vista il fatto che non ci sia tantissimo da fare in una mappa non troppo estesa è sempre un vantaggio, soprattutto se quel che devi fare è gestito in maniera funzionale e stilizzata quel tanto che basta da non annoiarti. Ad esempio è sufficiente la pressione di R2 per raccogliere provviste, fiori, armi o testimonianze, senza strane combinazioni di tasti con cui rendere inutilmente realistica la raccolta di un arnese da terra. Un tasto e via, il collezionabile è preso, senza neppure scendere da cavallo.
Poi ci sono i combattimenti. Lo accennavo all’inizio: fatta eccezione per gli scontri di massa, comunque pochi e legati solo ad alcuni snodi narrativi, il combat system di Ghost of Tsushima è semplicemente sublime. Giocato a livello Letale (o Letale+), il titolo Sucker Punch è una sfida continua. Non tanto per la difficoltà, ma perché negli scontri permane sempre la sensazione che si possa morire da un momento all’altro (non è importante che accada davvero), insieme con una certa profondità e una resa estetica del combattimento irresistibile nella sua brutale e sanguinosa eleganza.
Quando incontri gli avversari in gruppi di cinque o sei, è necessario decidere come affrontarli (al di là delle fasi stealth, anche queste non sempre riuscitissime), se a viso scoperto o dopo averne tolto di mezzo qualcuno con arco e frecce, e poi parare o schivare i colpi al momento giusto e contrattaccare con la katana, combinando il tutto con i vari gadget da spettro e i colpi celestiali… Ancora, a combattimento finito è possibile, con un leggero sfioramento del touchpad, ripulire la katana dal sangue facendola scivolare dolcemente sulla manica dell’armatura lordata di sangue per poi riporla con altrettanta delicatezza nel fodero, mentre sullo sfondo il sole si scioglie nel tramonto tra gli alberi della Foresta Dorata.
Ho parlato di profondità e resa estetica, ma devo aggiungere che nei combattimenti più riusciti di Ghost of Tsushima risiede forse il senso più profondo dell’avventura di Jin Sakai. Una volta padroneggiato a dovere, il combat system restituisce perfettamente la sensazione di trovarsi nei panni di un guerriero disperato e allo stesso tempo determinato a difendere la sua terra dagli invasori a ogni costo, con ogni mezzo possibile.
Jin Sakai non è uno che si fa troppe domande: cresciuto dallo zio Shimura nel segno del codice samurai dopo la morte dei genitori, ritiene di doversi attenere alle rigide regole del bushido per il resto dei suoi giorni: gli avversari si affrontano a viso aperto, con onore e coraggio. Ed è quello che Jin avrebbe fatto se non fossero arrivati i mongoli di Khotun Khan armati di polvere da sparo, con centinaia di uomini pronti a sbarcare sulla piccola isola giapponese.
In questo senso, Ghost of Tsushima ha qualcosa del romanzo di formazione. Grazie in particolare all’aiuto della ladra Yuna, Jin scopre che di fronte a una guerra asimmetrica bisogna saper cambiare pelle. Tradire la tradizione, come si suol dire, emanciparsi dal retaggio della proprio famiglia e del proprio clan, anche se questo significa umiliare lo zio che ti ha cresciuto o addirittura allearsi con chi ha ucciso tuo padre.
Prendendo a prestito categorie moderne, potremmo dire che nel momento in cui decide di accompagnare alle tecniche samurai quelle dello shinobi, dell’assassinio nell’ombra, dell’avvelenamento e del sabotaggio, Jin Sakai si muove nell’ambiguità del solco che divide il partigiano dal terrorista, scoprendo quindi che le due cose sono destinate a coincidere, nella guerriglia contro i mongoli.
Il che, nei suoi effetti pratici, è irresistibile—lo è per Jin, che col suo stile di combattimento spietato e feroce finisce con l’instillare il terrore persino negli isolani che intende difendere, e lo è per il giocatore. È esaltante, dopo aver eliminato due o tre nemici del gruppo di mongoli incontrato per strada, restare immobili con la katana ancora sguainata e l’armatura macchiata da schizzi di sangue a osservare i superstiti fuggire in preda al panico. È esaltante perché comprendiamo cosa significa trasformarsi progressivamente in una macchina da guerra e in un simbolo di pure terrore, lo Spettro, ma anche cosa significa sentire di avere il controllo totale sulla vita altrui e scegliere di esercitarlo fino in fondo.
Per tutte queste ragioni, la storia di Ghost of Tsushima è ovviamente molto problematica. Perché se da un lato può suonare come un classico racconto di eroica resistenza da parte di un popolo aggredito, allo stesso tempo possiede qualcosa dell’ammiccamento un po’ fascista e guerrafondaio al mito intramontabile della difesa della patria. Non aiuta il fatto che il nemico sia dipinto come cattivo e basta, nonostante una certa caratterizzazione di Khotun Khan e l’approfondimento della cultura nomade dei mongoli. Tuttavia, proprio dopo aver sconfitto il Khan ci toccherà scegliere se uccidere o risparmiare lo zio Shimura venuto a reclamare la testa di Jin per conto dello shogun. A quel punto le contraddizioni rispetto all’idea di patria e all’emancipazione dalla tradizione esploderanno definitivamente nel cuore di Jin e nelle mani del giocatore.
Alla fine del duello nel ring naturale di foglie rosse sotto l’acero ricurvo, Shimura chiede in lacrime a Jin di togliergli la vita affinché sia consegnato alla storia come un guerriero onorevole, che fino all’ultimo ha seguito gli ordini dello shogun. Ma per quanto lo trovi intollerabile, lord Shimura sa che senza l’apporto della guerriglia terrorista dello Spettro l’invasione mongola non sarebbe stata fermata. A un livello più profondo, inoltre, Shimura pensa ancora a Jin Sakai come a un figlio. Vorrebbe ancora fare da padre al nipote, ma allo stesso tempo intende impartirgli un’ultima lezione da samurai.
Personalmente, ho preferito risparmiare la vita di Shimura. Ci ho pensato a lungo, ma ho concluso che se davvero Jin voleva segnare una rottura radicale con la tradizione e testimoniare la sua diversità rispetto allo zio, non poteva acconsentire alla richiesta del vecchio samurai. Non c’è nulla di onorevole nel morire da eroi, se non hai più nulla da difendere o se difendi qualcosa che è già morto. Risparmiare Shimura era anche un atto simbolico, un messaggio da inviare al resto dell’esercito dello shogun.
Sia come sia, anche scegliendo di uccidere lo zio la sostanza non cambia: una volta affondato il tantō nel ventre di Shimura, Jin urlerà tutto il suo dolore stringendo il cadavere dello zio, ma da quel momento in poi agirà comunque come Spettro, in solitudine, per eliminare gli ultimi soldati mongoli rimasti a Tsushima—salvo scoprire che l’invasione prosegue sulle coste della vicina isola di Iki.
Qui la vicenda di Ghost of Tsushima si fa ancora più problematica: i mongoli hanno aggiunto alla superiorità tecnologica e numerica anche una certa raffinatezza a livello di predazione e indottrinamento culturale. Se su Tsushima il Khan aveva imparato il giapponese e il codice bushido per assicurarsi un minimo livello di consenso tra la popolazione aggredita, su quest’altra isola l’Aquila utilizza una droga naturale, gli stati di trance e la spiritualità tribale per portare dalla sua parte una popolazione che da tempo ha smesso di fidarsi dei connazionali di Tsushima. Quindici anni prima, infatti, il clan Sakai ha tentato l’invasione di Iki bruciandone i villaggi e massacrando i suoi abitanti.
Dopo aver affrontato lo zio, su Iki lo Spettro deve andare ancora più a fondo nel suo jihad per affrontare il ricordo del padre che guidò quell’invasione, perdendo la vita in un agguato dei predoni isolani sotto gli occhi del giovane Jin. Da allora, Kazumasa Sakai è ancora ricordato sull’isola come il Macellaio di Iki.
Mentre è dolce il ricordo della madre, rievocato nei santuari dedicati ai gatti e ai cervi, nei confronti del padre guerriero Jin avverte forte l’incapacità di rimarginare la ferita dovuta anche al senso di colpa per non essere stato in grado di salvarlo dai predoni. Al senso di colpa si sommerà la presa di coscienza rispetto alle terribili atrocità commesse da Kazumasa sull’isola, ossia la consapevolezza che su Iki il clan Sakai non si è comportato diversamente dagli invasori guidati dal Khan e dall’Aquila.
Soltanto passando dalla parte dell’aggredito a quella dell’invasore Jin può portare definitivamente a compimento il suo distacco rispetto alla tradizione e alla famiglia. L’unico imperativo morale diventa quindi l’impegno nel difendere i deboli e combattere per la patria, anche quando è orfana del padre, di tutti i padri e delle loro colpe: tra queste anche l’incapacità di tenere unita Tsushima, dilaniata dalle guerre clandestine tra clan. Prima dell’invasione mongola, gli Shimura e i Sakai non avevano esitato a soffocare nel sangue le rivolte degli Yarikawa, passati per le armi come traditori e non a caso tollerati su Iki a differenza degli stessi Sakai.
Inevitabilmente, in Ghost of Tsushima le colpe dei padri si sostanziano innanzitutto in errori piuttosto palesi sul piano strategico e militare. Kazumasa, certo che l’esercito di samurai non potesse fallire contro i predoni di Iki, si era lasciato trascinare in trappola tra le gole di Senjo, dove avrebbe subìto l’agguato mortale dei predoni di Tenzo; così Shimura si era illuso che l’etica del bushido sarebbe bastata a sopraffare la tecnologia bellica dei mongoli: non riconoscendo l’asimmetricità della guerra contro gli avversari dotati del fuoco degli hwacha, il vecchio samurai aveva finito col consegnare la sua fanteria all’inferno di fiamme piovute dall’alto sulla spiaggia di Komoda.
È così che peccati di pura strategia e tecnologia militare diventano anche sintomi di un ritardo e di un’inadeguatezza culturale. Incapaci di riconoscere il mondo nel suo cambiamento, i padri lo consegnano al nemico—diventando potenzialmente il nemico. Per questo l’emancipazione completa di Jin Sakai arriva quando è in grado di fare pace col suo passato, dunque perdonando le colpe dei padri e riconoscendo le ragioni di chi, come Tenzo e i predoni di Iki, ha determinato la morte di Kazumasa. Non è un caso, allora, che per sconfiggere l’Aquila la strategia adottata dallo Spettro sia la stessa con cui i predoni sconfissero Kazumasa. È tra le gole di Iki che Jin Sakai attira e sconfigge l’Aquila e perdona Tenzo, perdonando così anche suo padre e sé stesso per non essere riuscito a salvarlo.
Se il viaggio interiore di Jin è compiuto alla fine di Ghost of Tsushima, non sono tuttavia sciolti i dilemmi morali che il gioco ha messo in campo. La scia di sangue alle spalle dello Spettro è lunghissima, e non è detto che le cose possano migliorare in futuro—o meglio, nell’eterno presente dell’endgame di un open world, o nel New Game+ all’inizio del quale persino Jin ha la strana sensazione di aver già vissuto quell’avventura. In fondo il titolo di Sucker Punch parla di guerra, guerriglia e conflitti in cui è difficile trovare categorie affidabili e verità che non si sciolgano presto nel fango o nell’acqua di un fiume macchiata dal rosso di litri di sangue di amici e nemici.
Jin diventa lo Spettro perché è unto da quel sangue, perché si contamina con il punto di vista di compagni di strada e avversari ed è disposto a innestare nel suo bagaglio di samurai tecniche e armi non convenzionali. Ma una macchina da guerra difficilmente può trasformarsi in un veicolo di pace, anche se la sua battaglia l’ha vinta. Se la guerra è per certi versi un fatto biologico, connaturato all’essere umano tanto da trovare uno sfogo altrettanto naturale nel sublime combat system di un videogioco come Ghost of Tsushima come di molti altri, la pace invece è una costruzione culturale, richiede un altro tipo di sforzo sovrumano e ben altri strumenti che non siano katana, tantō e kunai.
Rinfoderata per l’ultima volta la katana, scopro che è sempre la penultima. È difficile smettere di aggirarsi come un demone per l’isola di Tsushima. Potrei non smettere mai.