Esprimere un giudizio su Inscryption equivale sostanzialmente a rispondere a questa domanda: la “firma” di un autore, la sua riconoscibilità, può essere affidata ai suoi contenuti, piuttosto che alla forma o allo stile? Appare evidente come molti media vadano in questa direzione: se Orson Welles si distingueva per l’utilizzo di determinati movimenti di macchina o di certe inquadrature, Christopher Nolan si fa principalmente riconoscere per la sua predilezione verso strutture narrative ingegnose e cervellotiche, in cui si sovrappongono molteplici piani di realtà.
Piaccia o no, tutto va nella direzione di una maggiore rilevanza del racconto, dello story-telling: le pubblicità mirano da tempo a raccontare una storia più che a illustrare le caratteristiche di un prodotto, i libri di non-fiction sempre più spesso sono personal essay o collezioni di aneddoti, la battaglia tra le piattaforme audio riguarda ormai più i podcast che la musica, e così via. Il cinema, la pubblicità, i libri di saggistica e i podcast però si consumano passivamente; i videogiochi sono interattivi, e allora la scelta di proporre a tutti i costi un certo tipo di contenuto può diventare controversa.
Daniel Mullins prima con Pony Island, poi con The Hex (a proposito del quale lo avevo intervistato), e ora con Inscryption, mostra chiaramente di voler avere come marchio di fabbrica un’idea ben precisa: quella secondo la quale il giocatore non deve mai abbandonarsi a una sospensione dell’incredulità di stampo cinematografico; al contrario, deve sempre essere ben presente a se stesso, pronto a riconoscersi nell’atto di star giocando a un videogioco. Il grande illuminista francese Denis Diderot, nel suo discorso Sulla poesia drammatica, dava questo consiglio:
Sia dunque che componiate, sia che recitiate, fate conto che lo spettatore non esista. Immaginate, sul limite del palcoscenico, un gran muro che vi separi dalla platea; recitate come se il sipario non si fosse alzato.
Ecco, per Daniel Mullins sembra irrinunciabile l’esatto contrario: che non vi siano separazioni, che il sipario sia sempre alzato, che persino le quinte siano ben visibili!, e che la quarta parete sia abbattuta, e che l’attore guardi in macchina, e non dimentichi di rivolgersi direttamente al pubblico, e via dicendo. Non c’è mai nessun “gran muro” nei giochi dello sviluppatore canadese, a cui le costruzioni meta-narrative son sempre servite a dire alcune cose sul medium videoludico: Pony Island ad esempio affrontava il tema del gioco comandato, del gioco cioè come risultato dell’esecuzione di un set di regole che nel caso dei videogiochi è inscritto nel codice di programmazione; The Hex, invece, indagava la complessità dei rapporti tra autore, giocatore e personaggio. In entrambi i casi, il risultato era brillante.
Di Inscryption non si può dire lo stesso. Leggendone in giro, si sentono ripetere soprattutto due cose: innanzitutto, che la prima parte del gioco è la migliore. È vero—la seconda è peggiore della prima e la terza peggiore di entrambe—e il motivo va cercato nella genesi di questo titolo, sviluppato a partire da Sacrifices Must Be Made, breve esperimento nato durante la game jam Ludum Dare 43. La prima parte di Inscryption riprende da lì l’idea di un gioco di carte in cui per giocarne di nuove è necessario sacrificare quelle già schierate, e la elabora in modo interessante, accentuando molto una sensazione di fisicità che in effetti si poteva riscontrare già nella versione creata per la game jam—una sensazione trasmessa sia dalla visuale sul tavolo, e dalla presenza su di esso di vari oggetti oltre alle carte, sia dal minaccioso volto dell’avversario seduto di fronte al giocatore, sia dalla brutalità di alcuni tra i “sacrifici” annunciati dal titolo.
A un certo punto in Inscryption arriva poi una rivoluzione copernicana, geniale nella sua banalità: dal tavolo ci si può alzare—una cosa che, per dire, non si poteva fare neanche giocando a Gwent all’interno di The Witcher 3, innanzitutto perché, pur trovandosi all’interno di un enorme open world, al gioco di carte in quel caso veniva riservata una schermata a parte, e poi anche perché non ci sarebbe stato alcun motivo per farlo. In Inscryption invece il tavolo si abbandona allo scopo di girare all’interno di una stanza, raccogliendo oggetti e/o risolvendo alcuni rompicapi; ma qui iniziano i problemi.
L’altra cosa che si sente ripetere spesso su Inscryption è quanto sia un atto d’amore per i giochi di carte, e su questo è più difficile essere d’accordo. Slay The Spire risponde in pieno a una simile definizione; tutto ciò che Daniel Mullins ha costruito intorno al suo gioco di carte, in realtà, serve solamente a portare avanti una narrazione—che si scopre ben presto essere il consueto marchio di fabbrica: una meta-narrazione; e dato che il racconto ha la precedenza, il gioco di carte in qualche modo deve restare bloccato finché la storia non va avanti. Detto più chiaramente: giocando a carte nella prima parte di Inscryption si può solo perdere, a meno che non si siano compiute alcune azioni, ottenendo alcune ricompense—e a quel punto, è quasi scontato vincere. Lo prevede il game design, non dipende da alcuna abilità del giocatore che non sia il rendersi conto di questa cosa.
Non è facile considerare un’impostazione del genere un atto d’amore nei confronti dei giochi di carte—di fatto, è più facile immaginare sia opera di qualcuno che i giochi di carte li odia. Paradossalmente, il materiale più interessante per quanto riguarda le meccaniche e il deck-building si trova nella seconda parte di Inscryption, che però è decisamente più povera d’impatto, e soprattutto arriva quando il gioco ha già preso una direzione ben precisa—non si può dire molto di più senza spoiler.
Inscryption appare allora un finto gioco di carte, o un gioco di carte che avrebbe potuto essere un buon gioco di carte se solo il suo gameplay non fosse stato piegato alle esigenze narrative e meta-narrative dell’autore. Quello che avrebbe potuto essere “davvero” Inscryption rimane quasi come postilla, nella discutibile forma di una modalità endless in stile roguelike, da sbloccare o completando il gioco o digitando il cheat code Shift+K+M mentre ci si trova nella schermata iniziale. Ha senso che “il vero” gioco sia relegato a una sorta di mod mezza nascosta? O magari è sbagliato considerare quello “il vero” gioco? Si può immaginare una storia così interessante da giustificare un totale asservimento del gameplay di un videogioco ai suoi scopi, o è un’idea da rifiutare in toto, da respingere già in linea teorica? La mia impressione, si sarà capito, è che qui la componente narrativa sia stata forzatamente introdotta in un gioco che altrimenti avrebbe potuto essere migliore—ma che senza di essa non avrebbe potuto essere chiaramente riconoscibile come “un’opera di Daniel Mullins”. Riconosco comunque a Inscryption il merito di avermi lasciato con un bel po’ di domande, tutte poste qui senza alcuna retorica: davvero non saprei come rispondere.