Il sale sulle patatine e l’acqua: sono questi due gli ingredienti che hanno segnato la storia dei gestionali. A raccontarlo, sul numero 225 di Retro Gamer, è Demis Hassabis, intervistato a proposito della sua vita precedente—quella di piccolo prodigio della programmazione, entrato in Bullfrog a soli 16 anni; oggi invece fa il CEO di DeepMind, società di intelligenza artificiale da lui fondata e successivamente acquisita da Google. Per fare in modo che un gestionale su piccola scala—dove quindi ci si occupa di una singola attività e non, come ad esempio in SimCity, di un’intera città—risulti completo e coinvolgente è necessario che sia ricco di dettagli, ma implementare un sacco di dettagli è inutile se non producono conseguenze visibili. In Theme Park, fondamentale capostipite del genere, dopo aver costruito giostre e attrazioni e percorsi per raggiungerle, si sistemavano chioschi per placare la fame e la sete dei visitatori, ma come rendere questi elementi significativi? «Non c’è alcuna ragione per simulare questi aspetti se non hanno un effetto sul gameplay», spiegava Hassabis. «Non possiamo presentarli a chi gioca senza che possa manipolarli e interagire e influenzarli in una qualche maniera, e allora mi è venuta l’idea del sale sulle patatine e dell’acqua per queste interazioni». Dunque, i visitatori si aggirano affamati per il parco giochi; acquistano delle patatine fritte, che però sono salatissime; gli viene una gran sete, e allora sistemando un chiosco di bibite subito a fianco ecco aumentare le vendite.
Se si sfoglia il manuale di Theme Park, tra i nomi dei programmatori oltre a Demis Hassabis e Peter Molyneux, fondatore di Bullfrog, si trova anche quello di Mark Webley. Non si trova invece citato Gary Carr, che pure lavorò per un breve periodo al gioco prima di litigare con Molyneux, lasciare lo studio e unirsi a Bitmap Brothers per realizzare The Chaos Engine 2, e tornare infine a Bullfrog giusto in tempo per partecipare allo sviluppo di Theme Hospital. Già, perché se il divertimento è già incluso nell’idea stessa di un parco giochi, la sfida successiva di Bullfrog fu rendere altrettanto leggera la gestione di un ospedale. Anche qui, un’intuizione geniale: creare malattie immaginarie con sintomi molto buffi e curarle con metodi ancora più stravaganti. All’epoca, sembrava “solamente” un gran gioco: ventuno anni dopo, ancora in assenza di un singolo altro simulatore che sembrasse all’altezza—e aggrappati a CorsixTH per rivisitare il capolavoro di Bullfrog di tanto in tanto—ci è voluto il ritorno di Mark Webley e Gary Carr, fondatori di Two Point Studios, per poter ricominciare a trovare divertenti gli ospedali, quelli di Two Point Hospital.
Se quello era stato—sotto ogni punto di vista—un trionfo, allora non può guastare la prima impressione che si ricava giocando al nuovo Two Point Campus, nonostante sia quella di un more of the same: tolti i medici e messi gli insegnanti, tolti i pazienti da guarire e messi gli studenti che devono laurearsi con il massimo voti, il risultato sembra essere più o meno lo stesso. Ogni prima impressione contiene un fondo di verità, e ci sono molte meccaniche di gameplay che vengono ereditate dal titolo precedente: il modo in cui di disegnano le stanze, in cui si ottengono con la valuta virtuale dei kudosh i nuovi oggetti, la progressione con cui si sbloccano i nuovi campus—dodici in tutto—e con cui si completa ogni scenario raggiungendo vari obiettivi fino all’ottenimento di tre stellette, e così via. Sarebbe sbagliato però pensare a una semplice operazione di reskin, come quelle spregiudicate—ma comunque da ricordare con affetto—che portarono Impressions a produrre Caesar III, Pharaoh, Zeus, e infine Emperor.
Le somiglianze servono soprattutto a far sentire subito a casa chi conosce il gioco precedente, ma quella prima impressione di trovarsi di fronte a una copia di Two Point Hospital svanisce dopo poche ore di gioco. Se tutto è molto somigliante nel modo in cui appare e in cui funziona, ben presto ci si accorge infatti che le differenze non mancano: cambiano i flussi di cassa, il modo cioè in cui si guadagnano soldi o si corre il rischio di andare in bancarotta; cambiano gli spostamenti dei personaggi, perché gli studenti hanno bisogno di spazi ulteriori rispetto a quelli dell’apprendimento, come dormitori per riposare, sale in cui socializzare e divertirsi, associazioni studentesche a cui affiliarsi, e così via; cambia il rapporto tra interni ed esterni, perché in Two Point Campus si sfruttano molto anche le zone all’aperto, e la planimetria degli edifici può essere modificata a piacimento; cambiano le strategie da seguire per espandersi, perché i corsi si sviluppano in più anni accademici; cambia persino la posta in gioco, perché il prezzo da pagare per il fallimento è una bocciatura e non un decesso.
In una fase in cui la grande novità nell’ambito dei simulatori è il survival sim—genere sempre più popolare dopo l’avvento di Frostpunk—Two Point Campus può essere visto allora come un ritorno allo stato dell’arte della formula originale, da giocare in maniera rilassata, con meno pressioni. Come nota in sede di recensione Fraser Brown sul numero 374 di PC Gamer, è apprezzabile anche solo il semplice fatto di potersi godere un po’ di scenette da slapstick comedy invece di stare a scorrere una serie di notifiche che informano sul numero di persone appena morte per malnutrizione. Il riferimento alla slapstick comedy non è casuale, perché le animazioni sono molto varie e altrettanto spassose: del resto la vita universitaria è più movimentata di quella ospedaliera, ci sono tante attività da organizzare e di cui poi restare a seguire lo svolgimento, e la sensazione complessiva alla fine è che da qualche parte in giro per il campus stia sempre accadendo qualcosa a cui vale la pena prestare attenzione.
Una frase molto citata, attribuita a Charles Bukowski, recita così: “Il problema è che cerchiamo qualcuno con il quale invecchiare insieme, mentre il segreto è trovare qualcuno con cui restare bambini”. Se per le relazioni di coppia mi sembra ormai trita e abusata, per i videogiochi trovo che vada ancora benissimo: negli anni sono cresciuti gli sviluppatori, sono cresciuti i giocatori, sono cresciute le potenzialità della tecnologia, e di pari passo è cresciuto il medium videoludico. Ma non sembra anche a voi che, mentre scoprivano di poter essere più maturi, più impegnati, più profondi, più riflessivi, più narrativi, più cinematografici e via dicendo, i videogiochi si siano scordati spesso e volentieri di restare divertenti? Ecco, mentre tanti sviluppatori mostrano ai giocatori come invecchiare insieme, Mark Webley e Gary Carr mostrano di conoscere il segreto, e con i titoli di Two Point Studios invitano a restare bambini.