Concentrandosi sulla produzione videoludica degli ultimi dieci anni, possiamo notare come si siano particolarmente diffuse alcune opere che presentano due particolari caratteristiche: la prima, il ricorso ad un’amplificazione della narrazione attraverso processi indiretti; la seconda, il conseguente posizionamento della figura del “creatore” in un contesto più ampio, ed inevitabilmente più complesso.
Sempre più prodotti hanno edificato i propri mondi di gioco su elementi caratterizzati dalla stratificazione, così da ottenere ambienti sempre più intricati in cui l’utente potesse navigare liberamente e, in un certo senso, costruire la propria storia da protagonista. Quest’affermazione, banalmente, riprende in toto uno dei principi fondanti il medium videoludico, ossia l’esperienza attiva dell’utente. Non posso quindi fare altro che cominciare parlando proprio della mia esperienza.
Di recente, mi sono ritrovato frastornato l’ultima fatica di FromSoftware, l’esasperato Elden Ring (2022). Esasperazione che, tuttavia, risulta giustificata, in quanto il titolo di Hidetaka Miyazaki preme fortemente sugli aspetti che hanno reso la software house giapponese così influente nel territorio contemporaneo (narrazione indiretta, interpretazione parzialmente aperta, complessità del mondo di gioco, etc…). La propensione a speculare su mondi di gioco ermetici ha reso la mia esplorazione nell’Interregno di Elden Ring una continua riqualificazione degli eventi, portata dalla sconfinata ricchezza del titolo.
Un’esperienza che si trasforma in ossessione: quella per i prodotti puramente postmoderni e dalle molteplici chiavi d’interpretazione, ambientati in mondi talmente stratificati da risultare incomprensibili e la cui sconcertante maestosità conduce ad una forma di feticismo della complessità. Ambienti troppo ampi per essere colti appieno, sia dal punto di vista grafico che narrativo. Situazioni o scenari che, tuttavia, non necessitano di una comprensione definita (e spesso suggerita da un punto di vista occidentale e capitalista) ma che possono essere semplicemente osservati come opere a più livelli, senza per forza imprigionarne i significati in forme determinate.
È proprio in nome della mia personale ossessione nei confronti dei prodotti stratificati contemporanei, che pongo come obiettivo di questo testo quello di identificare il valore di una narrazione articolata in quanto tale.
Lo sviluppo di media complessi, compreso l’ambito del videoludico, è stato intensamente approfondito dal critico culturale Alan Kirby, il quale con Digimodernism (2009), offre a questa disciplina una vera e propria base teorica. La teoria di Kirby si riferisce ad un periodo storico e culturale, iniziato a partire dalla seconda metà degli anni Novanta e caratterizzato da prodotti le cui narrazioni si stratificano attraverso diversi piani, oltre che da una marcata infinitezza. Infinitezza che però si distacca dall’apertura tanto cara ad Umberto Eco o al postmodernismo, e si rifà ad un concetto di estensione materiale più che di significato.
Chiaramente, quest’ultimo passaggio non esclude la possibilità di più piani d’interpretazione in una determinata opera, evidenziando come il Digimodernism non sia nient’altro che uno dei tanti volti del postmodernismo. A riprova di ciò, Kirby sottolinea come sia fondamentale il momento di contatto tra i due periodi, tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila. È proprio in questo lasso di tempo che si possono osservare esempi di un’ibridazione dei codici tra il primo e il secondo periodo culturale: i game director, spronati alla sperimentazione dal successo globale di Playstation, producono veri e propri oggetti di culto sia per tecnica che per narrativa; in questo arco temporale nascono esperienze come ParasiteEve (1998) o Racing Lagoon (1999), entrambi titoli esemplari di Digimodernism.
In questa fase vede la luce anche il celeberrimo settimo capitolo della saga di Final Fantasy, diretto da Hironobu Sakaguchi, che diviene un vero e proprio punto di svolta nella storia del medium, per la sua realizzazione e per le tematiche affrontate. Nonostante Final Fantasy VII (1997) possa sembrare una perfetta introduzione per una disamina dell’evoluzione di opere videoludiche complesse, la tesi di Alan Kirby trova la sua summa in uno dei prodotti meno citati quando si parla di giochi di ruolo.
Nel 1998, infatti appare tra gli scaffali giapponesi e statunitensi Xenogears, opera del designer Tetsuya Takahashi, alla sua prima esperienza come direttore creativo—recentemente consacrato grazie alla saga di Xenoblade Chronicles. Il gioco risulterà uno dei più dibattuti del genere, diventando con il corso degli anni un vero e proprio prodotto di culto, grazie alla travagliata storia del suo sviluppo e alle singolari questioni concettuali che presenta. Nonostante non esistano seguiti canonici in grado di ampliarne concretamente la trama e approfondirne le meccaniche, Xenogears rimane il JRPG dalla struttura più complessa mai realizzata nella cosiddetta golden age del gioco di ruolo giapponese. Proprio per questo motivo, rappresenta il perfetto studio di caso per analizzare l’infinitezza narrativa attraverso gli strumenti teorici di Kirby. Tuttavia, prima di addentrarsi in tale tematica, è bene introdurre il contesto e i processi che hanno portato alla nascita della gemma nascosta di Tetsuya Takahashi, anche in virtù della sua mancata distribuzione in territorio europeo.
Qabbaláh, mecha e psicanalisi
Comincio subito dicendo che questa analisi necessita di una lunga introduzione, atta a presentare il misconosciuto progetto di Takahashi e le sue plurime chiavi d’interpretazione. Xenogears è un titolo estremamente stratificato, con un’architettura concettuale formata sia da aspetti diegetici, come le tematiche affrontate durante l’esperienza di gioco, sia da elementi extradiegetici di carattere economico e culturale che irrimediabilmente formano un unicum inscindibile.
Il gioco viene rilasciato per il mercato giapponese da Squaresoft nel 1998, seguito a distanza di qualche mese dalla distribuzione per il mercato statunitense. Takahashi iniziò a sviluppare il concept due anni prima, come proposta per un ipotetico Final Fantasy VII, supportato dallo stesso creatore della saga Hironobu Sakaguchi. Quello che inizialmente fu chiamato “Project Noah”, risultò via via sempre più lontano dalle atmosfere epiche ma rassicuranti di Final Fantasy o di Chrono Trigger (1995), assumendo i caratteri di una creazione sci-fi dalle tinte scure, dal respiro opprimente e caratterizzata da un background eccessivamente complesso per un prodotto riconducibile alle saghe sopracitate.
Fu così che Xenogears divenne un progetto indipendente, in cui Tetsuya Takahashi inserì tutto sé stesso, con le sue passioni e i suoi personali turbamenti, rendendolo di fatto un’opera difficilmente eguagliabile, in particolare per ciò che concerne l’apparato narrativo e concettuale. Sintetizzare ciò che è l’arco narrativo principale di Xenogears è un’operazione di certo complicata, data non tanto dalla presenza di molteplici side quest—come accade nelle maggiori saghe dei giochi di ruolo—ma a causa soprattutto della complessità socio-politica del mondo in cui si svolgono le vicende.
La storia narra le avventure di Fei Fong Wong, un giovane ragazzo affetto da amnesia retrograda, il quale fugge dal suo villaggio a seguito di un disastroso attacco da parte delle misteriose forze militari di Gebler. Successivamente, inizierà un viaggio che lo porterà alla scoperta di ciò che si cela dietro l’esistenza della razza umana, attraversando intrighi politici, guerre religiose e, in particolare, una profonda introspezione. Come nella migliore tradizione dei giochi di ruolo, al party si uniranno personalità estremamente caratterizzate, come l’ambiguo medico Citan, il gradasso erede al trono del regno di Aveh, Bart, la sfuggente Elly o l’esperimento di nanotecnologia Emeralda.
Inoltre, la presenza di enormi mecha pilotabili—i Gears nel mondo di gioco—e l’ausilio di un character design legato ad anime e manga, contribuirono a rendere Xenogears un prodotto unico nel suo genere. La narrazione, basata sulle contorte relazioni tra personaggi ed eventi lontani migliaia di anni gli uni dagli altri, delinea quello che è un mondo estremamente intricato, in cui si susseguono i flashback e i ricordi dei protagonisti. L’intreccio assembla un mosaico i cui tasselli si rivelano gradualmente con l’esperienza di gioco, ma ciò che maggiormente risalta è la componente legata ai riferimenti di stampo cristiano/giudaico e alle articolate tematiche di psicanalisi e teoria filosofica—entrambe oggetto di numerose analisi nel settore del game design e della teoria critica.
Nel primo caso, i rimandi religiosi sono onnipresenti; basti pensare all’incipit del gioco “I am Alpha and Omega, the beginning and the end, the first and the last”, un diretto riferimento al dio di matrice cristiana/giudaica, il quale viene nuovamente richiamato tramite il nome della bio-arma Deus, uno dei boss di fine gioco. Inoltre, con il progredire delle vicende di Fei, si verrà a conoscenza del reale fine di tale entità: Deus non è altro che un sistema di difesa interplanetario governato da una sofistica AI, il quale, eoni antecedenti all’arco narrativo di Xenogears, ha dato vita al genere umano allo scopo di essere alimentato dallo stesso una volta giunto il momento opportuno.
Oltre ai sopracitati riferimenti di stampo religioso, Xenogears ci pone di fronte ad un’esplorazione introspettiva dei personaggi, attraverso una serie di riflessioni basate sulle istanze intrapsichiche di Sigmund Freud, sull’approfondimento del concetto di persona di Carl Jung e sullo stadio dello specchio di Jacques Lacan—un riferimento fin troppo diretto allo psicanalista francese è il personaggio del pittore Lacan. A partire dal conflitto interno del personaggio di Fei, ciò che Tetsuya Takahashi sviluppa nella narrazione del gioco è una dettagliata rappresentazione visiva e materiale della suddivisione tra Io, Es e Super-Io.
Uno degli antagonisti principali, il violento Id (traduzione anglosassone del freudiano Es), non è altri che la manifestazione repressa delle istintive pulsioni distruttive di Fei. Il protagonista, o perlomeno la versione giocata dall’utente per la maggior parte dell’esperienza di gioco, rappresenta l’aspetto giudizioso del Super-Io, attraverso l’autocensura dei propri traumi e pulsioni.
L’intensità con cui viene stratificato il mondo di Xenogears ne amplia notevolmente il comparto narrativo, senza tuttavia declassare quella che è l’esperienza di gameplay. Infatti, la componente legata al combattimento rimarrà una delle più innovative nel campo dei JRPG, sfruttando quelle che sono delle modifiche al più classico sistema active time battle. Le fasi di combattimento si basano su di una serie di punti consumabili durante la sfida, nel tentativo di accumulare potenza e al tempo stesso evitare di esaurirne la quantità, con lo scopo finale di utilizzare combo devastanti. Inoltre, particolarità assoluta del sistema di combattimento di Xenogears sono senz’ombra di dubbio le battaglie a bordo dei Gears, le quali seguono una meccanica simile alla controparte standard ma sostituendo i punti consumabili con il carburante.
Nonostante le molteplici sfaccettature qualitative dell’opera di Takahashi, la sua realizzazione rimane un argomento spinoso per molti versi, segnato da una serie di eventi sia di carattere economico che autoriale. Il primo dettaglio—se così lo si può definire—che risalta dall’esperienza di gioco è rappresentato dalla vertiginosa differenza nello sviluppo narrativo tra il primo e il secondo disco. In quest’ultimo infatti, la giocabilità del titolo è rimossa quasi del tutto, in favore di una manciata di combattimenti e di una lunga sequenza di dialoghi introspettivi che va a coprire interi eventi all’interno del mondo di gioco, portando infine allo scontro finale. Le battaglie e l’esplorazione vengono quasi completamente soppresse, spostando l’attenzione verso una narrazione ai limiti dell’enciclopedico, la quale riesce comunque a far luce su molti dei lati nascosti dell’universo in cui si svolgono le vicende.
In un’intervista su Kotaku, Takahashi rivelerà che le tempistiche di progettazione di Xenogears si dimostrarono insufficienti, portandolo alla decisione forzata di realizzare un secondo disco—descrittivo più che esperienziale—che potesse portare alla luce la sua visione di un mondo compatto anche a discapito del gameplay. Una scelta che sarà oggetto di commenti negativi da parte della community e della critica videoludica dell’epoca, aggiungendosi alla lunga lista di sfide affrontate dal game director e dalla sua creatura. Oltre a ciò, infatti, il gioco rappresentò una sfida per i traduttori, e il processo di localizzazione in inglese in collaborazione diretta con Square fu molto travagliato. Il responsabile di traduzione Richard Honeywood ricorderà il progetto come uno dei più complessi della sua carriera, in quanto colmo di termini scientifici, filosofici e religiosi di ardua interpretazione. In particolare, il concetto di “uccidere dio” come scopo finale dell’avventura si dimostrò la più ardua operazione di traduzione ricordata da Honeywood, che lo portò inoltre ad avere problemi con la propria comunità religiosa.
Ciononostante, la tortuosa progettazione di Xenogears condurrà alla realizzazione di un titolo maestosamente minuzioso, dove la volontà di Takahashi di creare un universo denso di riferimenti e di situazioni prevarrà su qualsiasi altra complicazione. Un universo così ricco e incontenibile al punto da culminare nell’enigmatico frame finale raffigurante il titolo “Xenogears: Episode 5”. Una scena conclusiva spiazzante, che riscrive completamente l’esperienza di gioco e che porta il giocatore a riesaminare tutte le nozioni acquisite durante la narrazione. Quindi, a quale storia ho assistito? Fei ed Ellie sono i veri protagonisti di questo mondo? Quanto ampio è l’arco narrativo di Xenogears?
La risposta a questi interrogativi—seppur parziale—la si può trovare nel meticoloso testo Xenogears. Perfect Works: The Real Thing (2000), una guida illustrata al progetto iniziale di Takahashi, dove si possono trovare descrizioni di oggetti, personaggi ed eventi non presenti nell’esperienza del gioco. Ed è esattamente in Perfect Works che viene rivelato come Xenogears fu concepito come parte di un’esalogia, aprendo le porte ad una rivisitazione concettuale dell’intero comparto narrativo. Purtroppo, i restanti episodi della saga non verranno mai realizzati; l’abbandono del progetto da parte di Square porterà Takahashi a fondare la Monolith Soft e a spostare la sua attenzione sul nuovo progetto Xenosaga, riprendendo velatamente alcuni elementi di Xenogears—come lo Zohar, l’entità divina opposta a Deus e generatrice della vita sul pianeta. Nonostante l’interruzione dell’epopea di Fei Fong Wong, essa rimarrà presente nella successiva produzione di Takahashi tramite rimandi più o meno espliciti, dimostrando di rappresentare il culmine della sua poetica.
Opera perfetta
Arrivare al finale di Xenogears significa aver metabolizzato una grande quantità di informazioni e dati, per poi ritrovarsi di fronte ad una spiazzante realtà in cui ogni singola particella del mondo di Takahashi e della nostra esperienza in relazione ad esso si frammenta in ulteriori segmenti. La riqualificazione che avviene nel finale e, in maggior proporzione, tramite Perfect Works, permette all’universo creatosi di essere ampliato a dismisura. Inoltre, questo passaggio garantisce una decostruzione totale dell’esperienza dell’utente, rivelando un mondo molto più espanso di quanto inteso fino ad ora, con ulteriori ed ipotetiche scelte di gameplay.
Perfect Works è un tomo esplicativo, non dissimile dalle ricercate guide cartacee ufficiali ai vari RPG che tanto spopolavano prima della consacrazione di internet. La differenza però risiede nel suo contenuto; non si tratta infatti di una guida strategica all’avventura, con tabelle e descrizioni di abilità e nemici, ma di un vero e proprio codex in cui vengono esplicitati molti degli aspetti socio-politici e folkloristici del mondo di Xenogears. Fotografie di personaggi, identikit di fauna e flora, grafici di ere geologiche e istogrammi sull’evoluzione politica del pianeta rendono Perfect Works un prodotto non dissimile dal concetto di atlante presentato dallo storico dell’arte Aby Warburg nel fondamentale progetto Mnemosyne. Si tratta infatti di un bilderatlas—un atlante figurativo—in cui viene ripercorsa l’influenza delle costanti di carattere occidentale (come simboli, miti, icone, significati) nel passaggio tra antico, moderno e contemporaneo.
Il tutto viene realizzato tramite agglomerati di tavole raffiguranti fotografie, manoscritti, opere d’arte, poster propagandistici, e così via, suggerendo allo spettatore una narrazione incompleta ma, allo stesso tempo, guidandolo nella sua interpretazione. La figura dell’atlante in Perfect Works si sviluppa su due diversi piani; da un lato, l’aspetto visivo, composto dalla diretta esperienza delle immagini che divengono veicoli narrativi; dall’altro la componente concettuale rappresentata dall’atlante in quanto collezione di codici in funzione di un universo dato (può esso essere un universo di finzione oppure il mondo reale—o una parte circoscritta di esso come quello analizzato da Warburg).
Il primo piano analitico si concentra sulla funzione narrativa delle immagini presenti nel tomo di Takahashi, le quali non fungono da meri oggetti visivi, bensì espandono la narrazione esponendo elementi assenti nella controparte videoludica. Sono presenti sezioni dedicate ad archi temporali antecedenti alle avventure di Fei Fong Wong, con grafici che ne mostrano l’evoluzione in relazione alle varie civiltà che si susseguono nel corso dei millenni, così come approfondimenti visivi sulle creature e sui costumi culturali, permettendo una maggior comprensione del mondo di gioco. Tuttavia, è sul secondo piano analitico che convergono i principali punti della mia esplorazione narrativa. Nello studio Atlas, or the Anxious Gay Science (2011), dedicato dallo storico dell’arte Georges Didi-Huberman al progetto Mnemosyne, emerge come la figura dell’atlante rappresenti uno snodo imprescindibile nella concezione dell’arte contemporanea, riversandosi inesorabilmente nella produzione culturale dei giorni nostri.
Il lavoro di Warburg ha evidenziato come la costruzione di un mondo—in questo caso quello occidentale—passi attraverso una moltitudine di codici la cui risonanza si espande perpetuamente attraverso i secoli. Questa essenziale espressione dimostra come la frammentarietà dell’atlante sia il principio risiedente alla base stessa di un prodotto culturale contemporaneo. Disarticolandosi in diverse sezioni, lo Mnemosyne permette allo spettatore di muoversi continuamente tra le sue aree di riproduzione, così come lo schema organizzativo di Perfect Works segue diversi percorsi individuali senza vincolare l’utente ad una direzione univoca.
Nel definire le qualità del progetto warburgiano, Didi-Huberman si focalizza su termini come “molteplicità”, “decostruzione” e, in particolar modo, “incompiutezza”. Egli concentra la propria attenzione proprio sull’utilizzo dell’incompleto come strumento prioritario nella formazione di un immaginario. L’immaginazione di mondi, di intere narrazioni, è possibile tramite l’incompiutezza dei codici di partenza, in modo tale da ampliarne le caratteristiche tramite aggiunte, connessioni, distruzioni, e via dicendo. Ideali di purezza, definizione, unicità o logica esaustiva non rappresentano fonti immaginative; di conseguenza, Didi- Huberman evidenzia come l’atlante sia un dispositivo che agisce tramite “l’inestinguibile apertura a possibilità non ancora realizzate”.
Immaginare eventi o intere sequenze non presenti nell’esperienza di gioco di Xenogears è un processo reso possibile non solo dalla complessità del titolo, ma anche dalla presenza dei frammenti narrativi incompleti di Perfect Works. Quasi a voler ergersi come esempio monumentale di questa analisi, nel tomo è presente un’intera sezione dedicata ai vari what if? di Xenogears, in cui lo stesso Takahashi fantastica su ipotetiche realtà in cui i personaggi hanno preso diverse strade rispetto a quelle della narrazione originale.
Sotto la lente dell’incompiutezza è possibile prendere in esame anche il famigerato secondo disco di Xenogears e rivalutarne la funzione immaginativa. Nonostante il comparto narrativo sia perlopiù esplicitato tramite lunghe sequenze di dialogo—spesso raffiguranti personaggi che semplicemente raccontano avvenimenti uno dopo l’altro, privi di qualsivoglia dinamica—il valore dell’opera si concentra esattamente sulle possibilità in divenire di una struttura non definita. Un progetto incompiuto non deve essere inteso come un prodotto negativo, bensì come un’opera in grado di rompere le schematiche tradizionali di stampo moderno, legate ad un’omogeneità che non appartiene all’epoca in cui viviamo. Nel testo di Didi-Huberman l’atlante diviene archetipo di una rappresentazione contemporanea, in grado perciò di contenere un set di riferimenti atti alla creazione di ulteriori ipotetiche architetture narrative.
Un procedimento possibile tramite la loro stessa molteplicità e incompiutezza. Decostruendo quest’ultimo concetto, è possibile dimostrare come l’universo di Xenogears sia un perfetto esempio della narrazione stratificata tanto agognata da Didi-Huberman così come da Kirby. I restanti capitoli dell’esalogia non verranno mai realizzati, rimanendo incastonati in un immaginario limbo formato dai segmenti narrativi lasciatici in eredità da Takahashi e dall’esperienza di Xenogears. Le sequenze di flashback che vedono protagonisti le precedenti reincarnazioni di Fei ed Ellie agiscono esattamente a prova di ciò, mostrando la volontà dell’autore di comporre i restanti capitoli della sua storia. In definitiva, Perfect Works non si limita ad essere un contenuto aggiuntivo; esso diventa un unicum indissolubile con l’avventura di gioco, creando un cammino parallelo fondato sul divenire infinito di un universo mai compiuto.
Saga infinita
La complessità di Xenogears—inteso qui come ambiente narrativo, formato dal gioco e dal testo di Perfect Works—è data dalla sua impossibilità di essere un prodotto finito, aprendo la strada ad una serie di speculazioni sulla sua stessa natura. Esso è il riflesso dell’opera contemporanea o, se si vuole essere ancor più precisi, dell’opera digimoderna, come intesa da Kirby. Senza dilungarsi eccessivamente, si può affermare che il Digimodernism professato dal teorico inglese sia una continuazione del postmodernismo, definito come un “progetto inconcluso”.
È chiaro come l’incompiutezza identificata da Didi-Huberman percorra la stessa traiettoria della teoria di Kirby, assumendo ulteriori forme e definizioni. Un prodotto figlio del Digimodernism viene definito come “la fusione di miti (caratterizzati dalla loro stessa infinita riproducibilità), favole (o storie per bambini), e drammaticità”. Si tratta quindi di un concetto che si collega perfettamente all’idea del Mnemosyne come portatore di costanti attraverso il tempo. Dal canto suo, Xenogears risulta esattamente come un amalgama dei sopracitati elementi, in quanto analizzabile attraverso diversi punti di vista (i riferimenti religiosi, il gameplay, la narrativa, gli elementi psicanalitici), risultando dunque un’opera al pari di altri universi multimediali dal simile approccio, come l’anime Neon Genesis Evangelion (1995) di Hideaki Anno, a cui lo stesso Takahashi si ispirò.
L’incompiutezza di Xenogears, combinata alla sua configurazione complessa, favorisce quella che Kirby identifica come il principale elemento del Digimodernism, ovvero la cosiddetta narrazione infinita. In questo caso non ci si riferisce ad una narrazione in grado di progredire perpetuamente senza un finale, bensì la capacità di un prodotto di modificare le proprie sequenze narrative in modo da aprire internamente lo storytelling ad ulteriori rappresentazioni, così da allontanarlo dalla sua stessa finitezza. Lo stesso Kirby, nel definire le caratteristiche della narrazione infinita, stila una lista di alcuni esempi nei quali possiamo ritrovare a pieno il mondo di Tetsuya Takahashi.
- Una narrazione apparentemente completa e indipendente, in grado però di essere modificata tramite estensioni, spostamenti tra i vari eventi, riassemblamenti, aggiunte. Ognuno di questi procedimenti porta ad un nuovo senso di totalità dell’opera, quando invece, paradossalmente, quest’ultima non è mai pienamente stabilita grazie alle ritmiche narrative interne. L’arco temporale di Xenogears è composto da sei episodi, i quali affrontano individualmente una sezione spazio-temporale in ordine crescente e, di fatto, possono essere intesi anche come narrazioni a sé stanti:
- Tetsuya Takahashi immaginò il primo capitolo come una sconcertante battaglia tra le varie fazioni umane nella Via Lattea, stendendo le basi per l’intera saga. Proprio in questo periodo nasce il progetto Deus.
- La seconda parte si svolge millenni avanti nel tempo, durante il conflitto tra Abel, prima reincarnazione di Fei e la sua controparte, l’imperatore Cain, venerato come un dio vivente.
- Il terzo episodio si concentra su Zeboim, un’avanzatissima civiltà che affronta problemi legati alla natalità e alla genetica. In questo periodo il protagonista è Kim, scienziato esperto di nanotecnologia ed ennesima reincarnazione di Fei.
- La Guerra di Solaris è l’ambientazione del quarto episodio, antecedente ai fatti di Xenogears. L’imperatore Cain fonda la città stato di Solaris, mentre gli esseri umani abitanti della superficie si preparano ad una guerra civile contro di lui.
- Il quinto capitolo è la storia di Xenogears, incentrata sulle vicende di Fei Fong Wong nella scoperta di un mondo sul collasso, massacrato da guerre civili e religiose, nel tentativo di fermare l’entità nota come Deus.
- Il sesto e finale scenario è sconosciuto, ma secondo Perfect Workssi tratta di un’ambientazione vittima dei risultati della sconfitta di Solaris e di Deus.
Inoltre, Perfect Works rivela come l’eterogeneità dei vari episodi fu inizialmente concepita anche da un punto di vista tecnico. Ogni episodio doveva essere prodotto secondo forme diverse, ad esempio simulation game, novelization e così via, quasi a fortificare l’elemento di individualità e intercambiabilità tra i vari capitoli. Questi ultimi concetti vengono esasperati dalla sconcertante schermata alla fine dell’episodio 5, la quale pone le basi per una costruzione dell’intreccio narrativo che rimanda a saghe come quella di Star Wars, in cui il quarto episodio risulta come il primo in ordine di distribuzione.
- Una tipologia di narrazione che combina un senso di compiutezza episodica—i singoli episodi sono autoconclusivi o semi-autoconclusivi—ad un processo di riproposizione di un determinato set di elementi attraverso i vari spezzoni della serie. I personaggi hanno una memoria fittizia che li porta a “ricordare” o “trasportare” oggetti, simboli o codici. La storia principale di Xenogears, spiegata in Perfect Works, si basa sulla costante presenza dello Zohar e sulla sua opposizione a Deus, così come sulle reincarnazioni di Fei ed Ellie nel corso dei millenni. Queste due costanti si ripercuotono sull’intera saga, come dimostrato dalle sequenze di flashback con protagonisti gli avi di Fei, come Lacan o Abel. Ciò non ci impedisce di immaginare un’ipotetica e simile messa in scena delle costanti di Xenogears nei capitoli mai realizzati, in modo non dissimile dal metodo del Mnemosyne.
- Un metodo narrativo fondato sulla struttura dello storytelling orale di stampo medievale/epico e, di conseguenza, comprendente racconti estremamente estesi ed eroici, i cui episodi si svolgono e si concludono tramite la creazione e la temporanea risoluzione dei pericoli affrontanti dal protagonista. Ancora una volta, la struttura di Xenogears si riflette in questa ulteriore definizione data da Kirby, imponendo una conclusione apparente nei propri capitoli—come ad esempio la sconfitta di Deus.
Queste sono solo alcune delle classificazioni di narrazione infinita elencate da Alan Kirby. È chiaro come il medium videoludico in sé si erga a baluardo della tematica, in quanto edificato sulla stratificazione delle sue stesse componenti. Ciononostante, Xenogears contribuisce a rendere il passaggio tra la concezione di un significato “aperto” postmodernista verso un’estensione di carattere materiale e compositiva. Inoltre, volendo sintetizzare il procedimento, ciò che lo rende il perfetto esempio di narrazione infinita risiede nella sua struttura episodica e al tempo stesso collettiva. Avvenimenti contenuti in un breve lasso di tempo si ripercuotono sull’intera storyline, aprendosi e chiudendosi in archi minori, i quali tuttavia incrementano il valore del titolo in quanto saga. L’esplorazione di Didi-Huberman sulla funzione immaginifica dell’incompiutezza e il parallelismo con il prodotto del Digimodernism si dimostrano in definitiva strumenti adatti all’esaltazione di Xenogears come opera complessa.
Vi è un qualcosa di insolito in Xenogears, qualcosa che si ritrova nell’intera produzione del gioco di ruolo di fine anni Novanta, ma che tuttavia ne supera i confini e, di conseguenza, richiede un tipo di approccio alternativo. Non mi rivolgo solamente alle tematiche che parlano ad un pubblico diverso—non che il contenuto ecologista di Cloud e l’Avalanche sia considerato un argomento facile—ma parlo più propriamente dell’opera in sé, di Xenogears come un agglomerato complesso di riferimenti, situazioni, tematiche che non lasciano spazio ad una definizione totalizzante. Un’apertura immaginifica che si evidenzia attraverso la percezione data dall’interattività del medium videoludico.
Nonostante le sue lacune, la magnificenza di Xenogears risiede proprio nella sua mancata completezza, e in una propensione alla speculazione che la rende un’opera in grado di coprire un quadro esistenziale talmente ampio da sfociare in paragoni con altri prodotti analoghi, come il già citato Neon Genesis Evangelion, ma anche Akira (1988), o Nier:Automata (2017). Opere grandiose che intrecciano un originario background sociopolitico con la narrazione interna, dando vita a labirintiche strutture; in poche parole, progetti ermetici e figli del proprio tempo, che fanno della loro complessità e della loro apparente astrusità la loro forza. Avrei potuto analizzare Xenogears sotto un punto di vista puramente psicanalitico, esaminando come Takahashi è riuscito nell’intento di rappresentare certe teorie e certi pensieri esistenziali, in maniera più o meno didascalica. Così come si potrebbe scrivere dei riferimenti alla Qabbaláh come strumenti di fascinazione nelle produzioni pop negli anni Novanta, oppure dei rapporti tra il lavoro d’autore, l’industria capitalista e la voracità consumistica del fandom.
Ho scelto tuttavia di parlarne da un punto di vista che potesse comprenderne l’integrità, forse dettato dal mio spropositato affetto nei confronti di questo progetto o dalla mia incapacità nell’individuare un’angolatura specifica che potesse rappresentarne a pieno il valore del titolo. Ciononostante, ritengo che Xenogears sia un fondamentale punto di svolta nella produzione videoludica e più in generale, culturale—proprio in funzione della sua incisiva incompletezza. Rischiando di risultare incoerente però, non voglio nascondere la mia curiosità e speranza nel vedere un giorno realizzarsi le petizioni che chiedono a Square Enix un prosieguo della saga, affidando il tutto, nuovamente, nelle mani imprevedibili di Tetsuya Takahashi.