Credo sia bene metterlo in chiaro fin da subito: questo non è un articolo, ma una lettera di ringraziamento; e siccome i destinatari di questa lettera sono numerosi, per non far torto a nessuno, procederò in ordine cronologico. Desidero allora esprimere la mia riconoscenza, innanzitutto, agli sviluppatori di Impressions Games, per aver portato con Pharaoh, alla fine degli anni Novanta, la loro serie di city builder a un nuovo livello, con uno sforzo produttivo non indifferente. Basti pensare che il loro titolo precedente, Caesar III, il terzo e ultimo ambientato nella Roma antica, venne programmato da due persone, mentre a Pharaoh lavorò un team composto da circa 20 sviluppatori.
Le novità introdotte erano tantissime: al contrario dei capitoli precedenti, gli NPC non vagavano per le strade senza meta, ma si spostavano tra un edificio e un altro—cosa tutt’altro che facile da realizzare con la poca memoria a disposizione nei processori di allora, considerato soprattutto come il giocatore potesse in qualsiasi momento modificare la rete stradale; la mappa inoltre viveva di vita propria grazie al Nilo, con le sue piene e le sue secche, determinate dalla devozione dimostrata nei confronti di Osiris; furono poi introdotti i monumenti, che non solo arricchivano visivamente la città, ma fornivano un’ulteriore sfida, e un obiettivo a lungo termine, ai giocatori. Il tutto in una cornice grafica di grande fascino, frutto di accurate ricerche che Heidi Mann, lead artist del progetto, ha raccontato nel numero 213 di Retro Gamer: «Abbiamo guardato molte immagini dell’Egitto, e avevamo un libro su come la Disney aveva stabilito il proprio stile per il film “Il Principe d’Egitto”. Abbiamo inserito un sacco di ombre blu-violacee, accostate a luci più calde, giallo-arancioni». Insomma, oltre ad avere un game design più ricco e rifinito, Pharaoh era anche più bello e appagante da guardare.
Si tratta di un dettaglio tutt’altro che trascurabile: non solo perché quando si tratta di simulatori, di gestionali, di giochi in cui si viene chiamati a costruire qualcosa, passare un po’ di tempo a contemplare con—maggiore o minore—soddisfazione quanto fatto si può considerare a tutti gli effetti parte dell’esperienza di gioco; ma anche, e in particolare, per il modo in cui l’impatto visivo favorisce e accompagna i feedback offerti in continuazione a chi gioca, che sono il vero segreto dell’inesauribile fortuna della serie. Già, perché il suo lascito è a dir poco sorprendente: i city builder di Impressions Games sono tutti titoli che nessuno ha mai smesso prima di giocare, poi di rimpiangere, infine di provare a ricreare, per giocarli ancora. Il solo Caesar III oggi viene riproposto, con codice open source e sfruttando i file del gioco del 1998, da due progetti: Julius, molto fedele all’impianto originale ma rivisitato nella grafica, e Augustus, orientato invece a rinnovare anche il gameplay.
A questi sviluppatori, che hanno scritto del codice per assecondare le loro e le nostre nostalgie, permettendoci di continuare a costruire le nostre personali provincie dell’antica Roma su qualsiasi piattaforma (Windows, Linux, Mac, PlayStation Vita, Nintendo Switch, Android!), in 16:9, e con tutte le migliorie del caso, sono pure indirizzati i miei ringraziamenti. E prima di Julius e Augustus c’era stato CaesarIA, un meno riuscito tentativo di remake che prescindeva da una copia originale di Caesar III. E che dire poi di Nebuchadnezzar, praticamente un capitolo apocrifo della serie ambientato nell’antica Mesopotamia? O di Lethis – Path of Progress, che dava alla stessa formula una veste steampunk? Una passione così forte e duratura, paragonabile a pochissime altre (mi vengono in mente le avventure grafiche della LucasArts, o gli strategici in tempo reale di Westwood Studios, che hanno ispirato rispettivamente ScummVM e OpenRA), come dicevo, una qualche ragione la deve pur avere.
A mio parere sono proprio quei feedback di cui parlavo prima ciò che rende unica la serie di Impressions Games: mentre vi godete la visione della città appena costruita, potete cliccare su uno dei tanti NPC, e quello avrà sempre qualcosa da dire sul suo lavoro, sul suo stato d’animo, sul luogo in cui vive. Ecco lì un commerciante, sembra che stia facendo dei buoni affari: «Le mie merci sono andate via come il pane! Ne porterò altre al bazar». Poco più in là, un architetto si mostra molto orgoglioso del proprio lavoro: «Spero che il faraone si congratuli con me per le splendide condizioni di questa città». Un giocoliere appare invece in vena di scherzare: «Vedo dovunque offerte di lavoro! Non dovrò fare giochi di prestigio per averne uno». Provate a fare la stessa cosa in Cities: Skylines, il gioco che ha raccolto l’eredità di SimCity: cliccando su un NPC, si aprirà una scheda che vi dirà dove abita, quale lavoro fa, dove è diretto o cosa sta facendo—sembra di consultare un database governativo.
“Chi vive nell’appartamento accanto al mio? Chi c’è al 14B? Non so chi siano queste persone: però, ragazzi, ho il telefono! Il telefono in macchina, il telefono al gabinetto, il telefono sull’aereo. La mia donna è a Chicago, l’altra con cui sto è a Washington, la mia ex moglie è a Phoenix, mia madre alle Hawaii, e ho quattro figli che vivono sparsi per il paese. Mi arrivano fax giorno e notte, posso collegarmi ai mercati azionari di tutto il mondo, alle borse merci, sono dappertutto, ragazzi, ma non so chi c’è al 14B”, scriveva nel 1993 James Hillman in Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio. Se Cities: Skylines sembra simulare perfettamente la società atomizzata descritta dallo psicanalista americano, Pharaoh e gli altri city builder di Impressions Games davano invece al giocatore la sensazione di poter costruire una comunità—una sensazione mai più riproposta da questo genere videoludico, se non, in minima parte, dalla serie Tropico—e di vederla fiorire, immergendosi in un’età dell’oro tanto vaga e immaginaria quanto gratificante.
Riassumiamo: un gioco con una formula unica, sempre rimpianta, più volte imitata. Perché non dargli finalmente una nuova versione, curata in ogni dettaglio, migliorata in qualsiasi aspetto avesse ormai bisogno di essere rivisitato in chiave moderna? Pharaoh – A New Era è un restauro e un remake allo stesso tempo: unisce la campagna del gioco originale (e quella dell’espansione Cleopatra: Queen of the Nile, per un totale di più di 50 missioni), a un’interfaccia grafica completamente nuova, il tutto ad opera delle migliori persone a cui vorreste veder compiere una simile operazione: uno studio come Triskell Interactive, responsabile del già citato Lethis – Path of Progress, e un publisher come Dotemu, specializzato proprio nel riportare in auge grandi franchise del passato—basti pensare a Streets of Rage 4 o a Wonder Boy: The Dragon’s Trap. È a loro, naturalmente, che va il mio ultimo e più sentito ringraziamento.