Striscio lungo i cunicoli che si intrecciano in questo labirinto sotterraneo, immagino l’aria viziata, il sentore di legno marcito e del vino pastoso sulle superfici interne delle bottiglie vuote. Aggiungo poi una nota bagnata, quella delle pareti umide e della mia uniforme sudata da soldato francese della Prima Guerra Mondiale, troppo pesante per essere indossata nel ventre caldo della terra. Tump. Tump. Rumore di passi. Troppo pesanti per essere quelli di un uomo: è la creatura. Provo a infilarmi sotto una branda e invece il mostro mi vede. Un’altra volta. Madonna che palle.
È la cinquantesima volta che perdo in Amnesia: The Bunker e magari vinco un premio, un premio che si chiama Pathfinder: Kingmaker. Torno al desktop e avvio il CRPG pieno di testi, tabelle e icone: severo, brutale e pieno di cose piccoline, dai personaggi, alle lettere alle miniature dell’equipaggiamento, il Mario Monti dei videogiochi.
Ho riempito un quaderno di appunti prima di imparare a padroneggiare Pathfinder: Kingmaker, giusto per dirvi della ripidità della curva di apprendimento che sono disposto a percorrere se alla fine della salita c’è un premio. Ho provato a soffrire e imparare anche in Amnesia: The Bunker ma non sono arrivato a nessuna giustificazione a posteriori per la scalata, invece ho passato il tempo (12,5 ore) a salire una curva che sembrava non finire mai, fino a quando non mi sono reso conto che non era la curva, ma il gioco.
Amnesia: The Bunker è disfunzionale e io non sono riuscito a finirlo. Ve lo dico per onestà intellettuale, nonostante mi sia fermato in medias res credo di avere una o due cose interessanti da raccontare. Sono un grande fan della serie di Amnesia e per la prima volta mi sono trovato a fare quello che mai avrei immaginato di fare: mouse drop.
Ecco quindi la mia storia: ho tentato una prima run a difficoltà medio alta. Non è andata bene, allora ho abbassato la difficoltà a normale. Grazie a un tasso di game over ogni dieci minuti più umano, sono riuscito ad afferrare una serie di regole del gioco che al primo tentativo, invece, non mi erano entrate nella testa. Ci sono stati momenti, mentre testavo il gameplay di una delle serie sinonimo di survival horror, in cui ho pensato che Amnesia: The Bunker fosse un ottimo gioco, che il problema a ben vedere era mio, della mia forza di volontà, che bisognava soltanto passare sotto il ponte delle mazzate (insomma, penare, perdere un po’) per capire il modo in cui The Bunker funziona.
Ho supposto che il punto fosse diventare bravi e che, per tornare al discorso di prima, una volta trovato il premio alla fine della curva di apprendimento, il videogioco sarebbe diventato molto più bello. Poi però ho finito le munizioni, ho finito le taniche di carburante, sono rimasto soltanto con una serie di oggetti poco o per nulla utili. Allo stesso tempo, ho dovuto attraversare, quasi completamente al buio, gli intricati budelli del bunker, braccato da quello che azzeccatamente una recensione ha definito “teleporting stalker enemy”. A peggiorare il tutto, il fatto di non avere una direzione: The Bunker è poco chiaro sul dove siamo direzionati, incoraggia un’esplorazione centripeta e in espansione verso i margini esterni, non sempre lineare.
Tra poco proverò a spiegarvi nel dettaglio il gameplay, qui però vi anticipo la ragione per cui Amnesia: The Bunker mi ha sfinito: una volta esaurite le risorse (carburante per tenere accese le luci, proiettili), che vi vengono fornite con il contagocce, sono rimasto completamente in balia del mostro. O sono scemo (allora colpa mia) o anche voi morirete un sacco di volte, finché non vi accorgerete di essere piombati in quel loop che porta il nome di trial and repeat, che significa “provaci e—se fallisci—ritenta”. Va bene per i roguelike ma con i survival horror invece è un disastro.
Nel caso specifico, mentre cerchiamo di mettere a fuoco il funzionamento degli oggetti che abbiamo trovato in giro e procediamo per tentativi, mentre corriamo a rotta di collo nella direzione che pensiamo essere quella giusta, nella speranza di trovare un indizio prima di essere massacrati, mentre ritorniamo più riprese al punto di partenza dopo essere stati uccisi, la paura e la tensione diventano frustrazione e il survival horror si scassa, sia nella sua parte survival, sia in quella horror.
Non posso dire che non mi aspettassi un risultato così incerto da parte di Frictional Games. Nel 2010, il primo Amnesia: The Dark Descent è tornato a una formula radicale del genere dopo la sbornia action della settima generazione di console, aggiungendo la visuale in prima persona. Ad oggi, la soggettiva è stata adottata da produzioni di alto livello e da franchise di primissimo piano, di quelli che finiscono nei trend di Google anche in Italia, nel giorno in cui un nuovo episodio arriva sul mercato. Back in the days però la visuale da FPS non era scontata, anzi, era un’assurdità. Frictional Games ha dimostrato il contrario e lo ha fatto (soprattutto) con un videogioco che è un capo-lavoro ma non è un capolavoro.
È un capo-lavoro, staccato, in quanto opera-capostipite di una serie di altre opere, che ripetono le stesse soluzioni. Però non è un capolavoro, tutto attaccato, cioè un gioco da dieci su dieci. A quanti altri videogiochi è successo, di essere così contraddittori? Mi viene in mente Sega Bass Fishing, un’opera da sette e mezzo che ha inventato i giochi di pesca arcade, ma parliamo di un genere di nicchia e dagli esiti mai entusiasmanti. Non capirò mai la scelta di Frictional Games di adottare un’estetica assai simile a quella di Oblivion, a posteriori migliore per i meme che per i survival horror. Inoltre la creatura, nell’opera del 2010, è piuttosto facile da scansare: basta capirlo per smettere di avere paura.
Eppure Amnesia: The Dark Descent ha creato il fenomeno di youtuber in overreacting a beneficio del loro pubblico, così spaventati da lasciarci sospettare che spaventati non lo siano per nulla. Amnesia: Rebirth, il terzo episodio, è più light del capostipite, forse per risolvere il paradosso del survival horror troppo spaventoso, e che quindi viene più spesso guardato che giocato. Resto convinto che Amnesia: The Dark Descent non è all’altezza della sua fama di videogioco spaventoso. La percezione della sua minacciosità è stata alterata dagli youtuber. Outlast, per dire, è in un’altra galassia.
E torniamo a The Bunker, con cui Frictional Games tenta di cambiare ancora una volta le carte in tavola, a partire dal fatto che ci sono le armi. Se non si era capito, si muore di frequente, lì dove il game over, nei precedenti episodi, era un esito abbastanza raro. La creatura ha paura della luce, per cui conviene tenere sempre acceso il generatore che produce corrente: servirà carburante, una risorsa limitata, ma prima o poi piomberà il buio nel sotterraneo. La creatura uscirà così allo scoperto, offrendo al giocatore un livello di sfida più alto (se chiedete a me, troppo alto).
Le intuizioni di Frictional Games non finiscono qui: possiamo sincronizzare un cronometro sulla durata dell’alimentazione del generatore, in modo da sapere quando ritornare nella safe room. In alternativa, potremo squarciare il buio con una torcia elettrica che si ricarica tramite una cordicella. Il bagliore durerà poco e il marchingegno farà molto rumore: starà a noi decidere se rischiare di essere individuati o procedere a tentoni nell’oscurità.
Sono rimasto impressionato dal senso di fragilità che la luce tremolante della torcia a corda riesce a insinuare nelle ossa del giocatore, e per poco non ho iniziato ad applaudire a nessuno, in particolare quando ho realizzato come The Bunker, a volte, ci faccia disperare alla ricerca di un delicato equilibrio: la prudenza di andare piano, per non essere scoperti, e l’urgenza di tornare nella stanza sicura con la macchina da scrivere e il baule prima che le lampadine si estinguano. Il tutto senza una mappa da poter richiamare a comando.
Sono rimasto estasiato, ho pensato “capolavoro”, ho intonato un coro per elogiare Frictional Games, quei geni—poi però ho penato, sono morto quanto Morgan Freeman in tutti i suoi film moltiplicato per venti, e ho ricominciato l’intera run abbassando la difficoltà (cosa che non faccio mai), nel tentativo di portare a casa questo articolo. E alla fine ho fallito, il gioco non l’ho finito, ma la colpa non è mia, è del gioco, quindi l’articolo l’ho scritto lo stesso. Amnesia: The Bunker contiene quasi lo stesso livello di intuizioni di The Dark Descent e un livello ancora maggiore di incapacità di far funzionare così tante belle cose tutte insieme. Da questo punto di vista, è perfettamente un prodotto di Frictional Games. Ne faranno di survival horror migliori con le stesse idee, ma questo è un film che abbiamo già visto.