Quando Konami ha annunciato il remake di Silent Hill 2, sei anni dopo che il progetto P.T. con Kojima e Del Toro era fallito, sono rimasto perplesso. Certo con i remake di Resident Evil era stato fatto un buon lavoro, ma la saga di Silent Hill, al contrario del survival horror di Capcom, giaceva in quel limbo di nostalgia e abbandono in cui diversi spin-off di sempre meno successo l’avevano gettata. La nostalgia è spesso l’alibi perfetto per una stasi creativa. Basta dare una smussata alla penuria poligonale di giochi di vent’anni fa per renderli ancora attuali? Se quelle storie potessero parlarci ancora e se la loro lingua fosse ancora la nostra, di questo non ero sicuro.
La mia perplessità ha acquisito oggi una forma e un’urgenza nuova dopo che i numerosi casi di femminicidio e il dibattito sulla violenza di genere che ne è scaturito hanno raggiunto finalmente anche i canali più generalisti.
Quando lo scorso 25 novembre ho partecipato alla grande manifestazione di Non una di meno a Roma, non l’ho fatto a cuor leggero. Dopo averne parlato con qualche amica mi ero convinto che la mia presenza fosse necessaria: le cose devono cambiare e la voce di chiunque fosse convinto di ciò poteva tornare utile, quantomeno ad amplificare la protesta. Ma come potevo farmi carico della colpa che per irraggiamento coinvolgeva necessariamente tutti gli uomini, partecipi volenti o nolenti di un sistema, di un’educazione, di un privilegio che ci rende oppressori e quindi necessariamente coinvolti in quei casi di femminicidio?
È proprio durante la manifestazione, mentre camminavo lentamente nel corteo che straripava per le strade di Roma, che il pensiero di Silent Hill 2, di quella storia così strana e così dolorosa, continuava a tornarmi in mente.
Anni fa grazie a quel gioco avevo provato quella colpa, certo in maniera più ingenua, inconsapevole degli strumenti interpretativi che oggi il dibattito aperto dal movimento trans-femminista ci ha fornito per comprendere un problema che credevamo essere marginale e invece si è rivelato fondante del nostro sistema patriarcale.
Ho deciso così di rigiocare a Silent Hill 2 come una personalissima terapia, senza nessuna ambizione di poter modificare qualcosa, di poter agire in questo modo su una realtà che ha bisogno invece di azioni urgenti e radicali, ma per modificare me e la percezione emotiva che avevo di quel lutto e di quella violenza.
Silent Hill 2 esce in Italia nel 2001 su PlayStation 2 e racconta la storia di James Sunderland, che dopo aver ricevuto una lettera da sua moglie Mary, morta tre anni prima, ritorna nella cittadina di Silent Hill dove aveva trascorso con lei gli ultimi giorni insieme; è lì che lei ha scritto di aspettarlo, nel loro posto speciale.
James vagherà a lungo per quelle strade sempre immerse in una fittissima nebbia, incontrando diversi personaggi umani e altrettanti esseri mostruosi che lo aiuteranno o lo ostacoleranno nella sua ricerca. Nell’epilogo scopriremo essere lui stesso l’assassino di Mary, del cui omicidio aveva in qualche modo rimosso il ricordo. La storia è di per se molto complessa ed è difficile comprimere tutta la sua ambizione narrativa in poche righe.
Già da questo sunto, però, possiamo trovare in Silent Hill 2 un significato amplificato dalla realtà attuale: questo gioco può farsi oggi portatore di responsabilità molto più scomode e scivolose di quanto la nostra sensibilità passata riuscisse a riconoscere.
Il dibattito sulla rappresentazione della violenza ha sempre accompagnato la storia dei videogiochi, ne è stato un bagaglio ingombrante, di volta in volta difficile da gestire, connotare e giustificare. Basta citare l’enorme dibattito su Doom e il massacro di Columbine e le responsabilità che un prodotto del genere—di cui gli esecutori degli omicidi erano giocatori entusiasti—poteva avere in quel contesto. Silent Hill 2 esce lo stesso anno di GTA 3, altro bersaglio prediletto delle critiche alla corruzione morale di cui sarebbero portatori i videogiochi, in particolare negli adolescenti che allora erano ancora visti come il loro pubblico d’elezione.
Silent Hill 2 riusciva a schivare le critiche grazie alla sua narrazione complessa e non lineare: il suo protagonista non si presenta apertamente come un violento omicida seriale dalla doppietta sempre carica. James è una vittima, catapultata con le migliori intenzioni in un ambiente ostile—per di più infestato da mostri che lo vogliono morto—e che a questo cerca di sopravvivere. Gli scontri fisici sono ridotti al minimo e le meccaniche stesse di gioco incentivano a evitarli, le armi disponibili sono poche e spesso di scarsa utilità. Il gameplay preferisce concentrarsi sull’esplorazione degli ambienti e sulla risoluzione di vari enigmi che ostacolano la ricerca di verità del protagonista.
È in virtù di queste caratteristiche che il parallelismo con il dibattito attuale si fa più stringente: tutto il gioco non è altro che un percorso di determinazione di una colpa sepolta sotto una pretesa innocenza—o almeno inconsapevolezza—di quello che si rivela invece essere il colpevole.
Dalla prima volta in cui vediamo apparire sulla scena James Sunderland che si fissa nello specchio di una stazione di servizio abbandonata, fino all’epilogo in cui grazie ad una videocassetta assistiamo—lui nuovamente, noi per la prima volta—all’omicidio di Mary, tutto quello che succede nel gioco è funzionale all’emersione di una colpa rimossa. Scopriamo che la relazione apparentemente felice con Mary era degenerata dopo che una grave malattia l’aveva costretta ad una continua degenza in ospedale, trasformandola nella prospettiva di James in una relazione fisicamente impossibile da consumare.
Mary diviene così l’oggetto erotico sottratto e non più disponibile che si reincarna in forme simboliche sempre diverse nelle creature che popolano la città: manichini composti di sole gambe, succinte infermiere senza volto e Pyramid Head—il principale antagonista e nemesi/alter ego di James—che stupra ripetutamente gli altri esseri mostruosi presenti nel gioco. La figura di Mary si incarna più esplicitamente in un altro dei personaggi principali del gioco: Maria, il doppelganger ipersessualizato in costante ricerca della protezione di James, l’alternativa idealizzata che finalmente estromette tutti gli aspetti spuri del partner lasciandone soltanto la disponibilità sessuale, la subordinazione, la dipendenza ad uso e consumo del narcisismo del protagonista.
Arrivati infine all’epilogo, quando il nodo narrativo si scioglie rivelando il ruolo di James nell’omicidio di Mary, tutta la vicenda può essere ripercorsa a ritroso, collegando i punti dati da questi simbolismi e portandoci infine a domandarci: sono stato davvero io? Sono stato io a salvarlo—salvarmi—per arrivare fin qui?
Insomma scopriamo di vestire i panni del carnefice, e tramite le dosi omeopatiche del suo simbolismo spietato il gioco ci getta davanti alla verità inconfutabile dei fatti. Dobbiamo quindi riconoscere come nostra la falsa coscienza del suo protagonista.
Rigiocare oggi a Silent Hill 2 è un’esperienza dolorosa perché ne conosciamo già la fine. Tutto quel materiale che ancora inconsapevoli avevamo assorbito per gocciolamento simbolico, oggi appare più che mai lampante e ci spinge necessariamente a fare i conti con ciò che ogni uomo ha necessariamente instillato dentro di sé: la donna non riconosciuta e rispettata in quanto esistenza autonoma, necessariamente altra da noi.
La grande prerogativa del medium videoludico è quello di renderci responsabili—seppure nell’ambiente artificiale e sperimentale del gioco—delle azioni del nostro personaggio. Proprio questa prospettiva può renderlo uno strumento così prezioso per affrontare situazioni dolorose con una partecipazione emotiva che per altri mezzi espressivi è tecnicamente irraggiungibile. In ciò assomiglia alla forma terapeutica dello psicodramma.
All’ennesimo scatenarsi di un dibattito online tra chi inneggia a #notallmen e chi rivendica giustamente il problema come sistemico, sento il radicamento dentro di me di una profonda dissonanza cognitiva tra quello che sono e quello che credo di/vorrei essere. Credo che questa condizione non possa essere risolta se non con una partecipazione emotiva—in qualche modo olistica—alle rivendicazioni contro la violenza di genere.
Esperire artificialmente la parte del carnefice ci può portare a comprendere che la distanza tra la possibilità e la realtà di una violenza è spesso segnata più dalla casualità circostanziale interna o esterna all’individuo che non dalla sua volontà.
Non possiamo rinchiuderci in una negazione difensiva degli aspetti più dannosi che la cultura patriarcale ci ha instillato dentro. È questo forse un passo piccolo ma effettivo verso un cambiamento concreto della società in cui viviamo. In questo percorso i videogiochi come Silent Hill 2 possono essere nostri alleati, una dolorosa terapia che decostruendo le nostre convinzioni può aprirci a percezioni nuove. L’uscita di questo remake può essere accolta così come una notizia positiva, se non altro come un’opportunità per gli uomini—soprattutto chi non aveva mai giocato all’originale—per capire quale è la distanza che li separa da James Sunderland.