Cantava Mark Knopfler nel 1978: Prendo il caffè da Angelucci, una cameriera mi guarda mentre oltrepasso il bar Barocco. Ti vedo uscire da Shaftesbury Avenue, scusa per il disturbo, ma ti voglio sposare. Sei un altro angelo tra la folla mentre cammino per il Selvaggio West End.
Se facessimo una lista delle opere o dei generi ispirati dalla grande City inglese, impiegheremmo più tempo di quanto ne passa Knopfler a cantare in Wild West End—o in tutto il primo album dei Dire Straits, probabilmente. Anche restando nell’ambito dei videogiochi l’elenco sarebbe troppo lungo per rendergli giustizia in un singolo articolo: dai lupi mannari di The Order 1886 alle schiere di creature non meglio identificate di Fallen London e Sunless Sea, Hellgate, Watchdogs, ZombiU, Mario & Sonic ai Giochi Olimpici di Londra 2012. La Londra moderna ha un fascino magnetico e la Londra vittoriana ha un fascino quasi immortale, dagli sporchi bassifondi coperti di fuliggine ai piani alti dei palazzi nobiliari, tra intrighi e pasticcini e, spesso, anche tra storie di mirabolanti macchinari alimentati a vapore dalle capacità soprannaturali.
Sovereign Syndicate ci tiene a farmi sapere immediatamente che qui, nell’East End, siamo lontani dagli sfarzi turistici e multiculturali del West End di Dire Straits. O almeno da quelli turistici—lato multiculturale, più di così non si può fare. Popoli e razze diverse creano un pentolone ribollente di storie e di tensioni, che ha molto di selvaggio e ancora più di londinese nel suo mix di mitologia e Charles Dickens, tra strade nebbiose e orfanotrofi, aeronavi nobiliari e barriere di contenimento per quartieri infestati dai lupi mannari, covi di oppio e prostitute—di cui vedremo le vicissitudini in prima persona. E, per quanto cinico e navigato, devo ammettere che mi ha preso parecchio.
Siamo però in un RPG—o meglio, un CRPG—in cui dobbiamo seguire una storia, invece di crearla. Ci caliamo nei panni di personaggi diversi, dal nerboruto e corno-dotato Atticus Daley alla tanto bella quanto scaltra Clara Reed, ognuno con un passato poco raccomandabile e ognuno con tanti sogni quanti misteri. Le magie e la forza fisica si mescolano con l’ingegneria e con la scaltrezza e la seduzione—dobbiamo interpretare una versione di qualcuno con una sua storia, invece di poter creare qualcuno da zero, con leggere variazioni non tanto nei fatti quanto nel modo in cui ci approcceremo e reagiremo a questi fatti. La libertà quasi totale di Fallen London è un ricordo lontano, ma non è quello a cui mira il gioco: siamo personaggi di una trama, abbiamo un ruolo da giocare, e accettarlo è il prezzo per poter godersi l’avventura.
Se ogni elemento del gioco si svolge sotto l’eterna ombra del Big Ben, c’è un’altra ombra che si staglia come una minaccia su ogni scena di Sovereign Syndicate. È impossibile non pensare al celebre e (giustamente) lodatissimo Disco Elysium, uno spartiacque la cui influenza è ormai radicata in profondità in questo genere, e da cui il gioco sembra trarre ogni aspetto superficiale. L’assenza di combattimento tranne per scelte narrative, le statistiche mentali, l’interfaccia, l’atmosfera malinconica, l’attenzione quasi ossessiva a una narrazione piena di lunghi dialoghi tra il filosofico e lo stralunato, tutto, ahimè, disponibile solamente nel suo inglese originale.
La cosa potrebbe far storcere il naso ai nostrani che non masticano della lingua d’Albione—soprattutto visto che, se già seguire un modello alla Disco Elysium vuol dire usare un linguaggio molto aulico e forbito, farlo in un gioco ambientato nella Londra vittoriana vuol dire scontrarsi costantemente con termini arcaici e desueti. O, per dirla in maniera più schietta, chi non c’ha lo sbatti di impararsi l’inglese ottocentesco potrebbe non divertirsi granché.
Gli sviluppatori offrono però una soluzione molto affascinante—un sistema di tooltip che offre una lettura moderna dei termini più difficili, una versione londinese dei furigana del giappone che permette di godersi l’atmosfera senza rischiare di non capire niente della trama. L’atmosfera fa da padrone e noi ne siamo solo i suoi lavoratori.
Gli stessi sistemi del gioco sono votati al creare un’atmosfera densa come l’aria della Londra di fin-de-siècle. Abbiamo le classiche statistiche che influenzano dialoghi (e pensieri) alla Disco Elysium, la Disciplina e l’Istinto Animale e tutta la compagnia, ma abbiamo anche degli Umori (humours) in grado di influenzare i risultati di queste scelte, in termini usati quando gli scienziati venivano ancora chiamati “filosofi naturali”. Sangue, Bile e Flemma vengono accumulati durante il gioco e vanno a toccare le nostre scelte e le nostre idee, con dei Tarocchi sbloccabili in grado di offrire ancora più opzioni e un Temperamento che sblocca dialoghi diversi a seconda del nostro stato mentale.
È un mix estremamente intrigante. Le statistiche volano, i numeri salgono e scendono, le scelte offerte dai Tarocchi evocano il gioco da tavolo, un tiro di dado metaforicamente e letteralmente in grado di decidere i destini, con possibilità di vittoria o fallimento critico basate sul tipo di carta pescata. Carte che influenzano il tipo di risposte che possiamo dare, e che possono essere sbloccate nel corso del gioco, allineandosi coi nuovi tratti di personalità che i protagonisti riceveranno grazie alle nostre scelte.
È un mix al livello del capolavoro della sfortunata ZA/UM e compagni? No, ma superare Disco Elysium è un’impresa titanica. La difficoltà in un mondo post-Harry DuBois sta nel cercare di scavare una propria identità all’ombra di un neonato gigante del genere, che—almeno finchè non arriverà l’inevitabile ondata di titoli post-Baldur’s Gate 3 che si schianteranno contro le stesse considerazioni—non può essere ignorato e non può essere raggiunto. Come diceva Goethe, se dobbiamo valutare un lavoro artistico non dobbiamo chiederci solo cosa volesse creare l’artista e se è riuscito nel suo intento, ma anche se è qualcosa che valesse la pena creare. E la domanda sorge inevitabile: vale la pena creare qualcosa che rischia di sembrare una pallida imitazione di un gigante completamente inarrivabile, con cui ogni confronto è una gara persa in partenza?
A mio parere la risposta è si. C’è stato un momento in cui ogni sparatutto era chiamato un Doom clone, in cui nessun imitatore di From Software era in grado di creare un soulslike che potesse reggere il confronto. Ma poi sono arrivati Quake e centinaia di altri pretendenti al trono, è arrivato il coreano Lies of P e abbiamo scoperto che, come dicono gli inglesi, salire sulle spalle dei giganti permette di vedere più lontano di loro. Ogni orda di pallidi imitatori ha al suo interno i semi di un lavoro che prende un altro gioco e lo fa genere, che straccia l’etichetta di clone per canonizzare le sue caratteristiche in qualcosa non da imitare, ma su cui costruire.
Sovereign Syndicate è questo tipo di gioco? A mio parere, la risposta è no. Non ha il livello di sofisticatezza o di profondità di Elysium, né—a pelle—le stesse enormi diramazioni di trama che partono dai rami di un albero per costruire una foresta. Non ha spazi enormi da esplorare, sia nel mondo di gioco che nei dialoghi, risultando spesso molto più pilotato e diretto di quanto si addica al genere. Ma non ha neanche le stesse risorse—niente doppiaggio, dimensioni molto più ridotte, meno personaggi—ed è chiaro che stiamo giocando in un campo diverso. Le soluzioni scelte dal team, come le sequenze illustrate da fumetti semi-animati, offrono però un’identità piuttosto interessante e che gli danno un valore suo. Ed è proprio questo il punto, il suo motivo di esistere.
C’è atmosfera, c’è carattere—ci sono personaggi un po’ sui generis, ma per i fan dell’era vittoriana c’è moltissima carne al fuoco. Abbastanza da coinvolgere a livello emotivo, e questo è l’obiettivo principale di ogni gioco—convincermi a fare un playthrough basato sull’Istinto Animale, per il voler rifiutare la morale vittoriana della cortesia e del decoro a ogni costo, che ha reso le scelte intenzionali e le scelte forzate a cui sono stato costretto interessanti sia in positivo che in negativo. Un buon gioco di ruolo non manca di metterti in situazioni in cui la voglia di interpretare un personaggio prevale sull’istinto di ottenere sempre il miglior risultato possibile, e in questo Sovereign Syndicate stravince. Soprattutto visto come le scelte più “ruolate” tendono a essere premiate con un fumetto che ne illustra i risultati—attaccare qualcuno tende a portare a pessime conseguenze per il gameplay ma a grandi risultati per gli apprezzatori della Nona Arte.
Oscar Wilde—e non poteva mancare, in un racconto vittoriano—ci ricorda in apertura che le persone e le maschere che indossano non sono poi così diverse. Sovereign Syndicate prova a indossare una maschera più larga della sua faccia, cercando di convincerci che sia più grande di quello che è. A volte ci riesce anche—un risultato che, per quanto macchiato dall’inevitabile paragone, resta encomiabile. E la maschera è il paragone più calzante: chi cerca un lavoro della profondità narrativa, politica, filosofica o anche solo meccanica di Disco Elysium ne resterà deluso. Chi vuole fingere di essere un minotauro nella Londra vittoriana, o un altro dei personaggi a disposizione, ne potrà trarre divertimento. Chi pensa troppo a quello che gioca, come me, potrebbe addirittura restarne affascinato.
Mi levo il cappello e i guanti, colpisco il bicchiere con un cucchiaino e lo alzo in un brindisi: alla salute dei cartografi, di coloro che seguono gli apripista disegnando mappe che, per quanto imprecise, saranno usate dagli esploratori di domani per scovare nuovi territori ignoti.