Questo gioco è molte cose e allo stesso tempo nessuna di esse: Player Non Player è un open world e non è un open world, è un dating sim e non è un dating sim, è un platform e non è un platform, è un collectathon e non è un collectathon, è un puzzle game e non è un puzzle game. Tutto ha inizio con l’editor dell’avatar le cui membra sembrano di cemento, forse a sottolineare la natura non reale del personaggio, che non vuole essere tale. E già da questo piccolo indizio si delinea una propensione del gioco verso una rottura e critica al medium. In un’epoca in cui possiamo personalizzare il nostro avatar fin nei minimi dettagli (vedi Cyberpunk 2077 o Dragon’s Dogma 2) qui si è scelto di non poter intervenire sul viso che rimane neutro, asessuato, inespressivo, pietrificato, mentre si potranno personalizzare solo le dimensioni degli arti e del corpo, inclusi i genitali. Forse, pur nella sua semplicità, è il character creator più inclusivo di sempre.
Appena prendiamo possesso della nostra sagoma nuda e virtuale, possiamo muovere i primi passi e ci rendiamo conto di essere intrappolati in un parallelepipedo brutalista. Alzando lo sguardo non si scorge la fine, si allunga all’infinito. Alcuni cartelli sul cemento grezzo ci spiegano in un elegante e breve tutorial i comandi base che si riassumono in camminare, saltare, abbassarsi, afferrare ma soprattutto accarezzare. Delle sbarre ci impediscono di accedere al livello sottostante di cui però intravediamo l’enorme struttura circolare con al centro un buco dal quale si riescono a scorgere del verde e dell’azzurro, i primi colori dopo tanto grigio, segno forse di qualche elemento naturale ad attenderci.
L’unico modo per uscire è rompere il vetro sotto i nostri piedi con un sasso che abbiamo liberato accarezzando una sfera metallica. La discesa è veloce e l’altezza potrebbe causare danni al nostro personaggio, ma scopriamo subito che non ci sono punti salute. In realtà non c’è nessuna interfaccia utente, per la maggior parte del tempo, tra noi giocatori e il mondo di Player Non Player. Affacciandoci dal bordo del buco vediamo un’isola circondata per buona parte dal mare e per il resto da una enorme diga. Si intravedono anche delle costruzioni dalla chiara ispirazione brutalista, ma l’altezza è tale che non riusciamo a capirne la funzione. L’unica cosa da fare è gettarsi e vivere questa (lo dico subito) memorabile, onirica, perturbante esperienza da giocatore non giocatore.
Tutta l’estetica di Player Non Player sembra uscita da Exit Reality (Nero, 2023) saggio di Valentina Tanni che indaga e mappa i paesaggi oltre la soglia dell’internet degli ultimi quindici anni. Backroom, liminal space, weirdcore, dream pool, glitch e una spruzzatina di vaporwave: l’isola di Player Non Player frulla tutto e lo assembla in un open world compatto ma architettonicamente affascinante e destabilizzante allo stesso tempo. Punto focale è la villa di Odile, il primo NPC che incontriamo. Odile è una ragazza dai capelli rossi, indossa un vestitino di maglia metallica e degli zatteroni altissimi. Al nostro atterraggio si precipita verso di noi e ci accoglie contenta di veder arrivare finalmente qualcuno. Infatti sull’isola oltre a lei abitano solo altre due persone e un cane. Ci informa che ha ereditato la villa dai suoi genitori, entrambi deceduti. Gli altri due ospiti sono un ragazzo a torso nudo che incontriamo a bordo piscina e che si fa chiamare The Swimmer e Gemini, un ragazzo di colore che indossa un’armatura metallica e si trova di fronte ad uno specchio in frantumi. Scopo del gioco è compiacere le richieste dei tre NPC, e anche del cane.
Player Non Player indaga i traumi e le paure di una generazione che si dimena tra rapporti familiari conflittuali, disforia di genere, storie sentimentali finite male, religiosità e agnosticismo. I tre NPC sono come un dio (ma pagano) uno e trino. Credo siano stati separati per comodità narrativa ma in realtà sono una sola persona, ognuno con un suo fardello emotivo dal quale devono liberarsi per trovare quella pace interiore a cui anelano. The Swimmer cristallizza in una frase il loro desiderio più grande: “alla fine tutto quello in cui speri è una vita senza rimpianti”. Odile non è riuscita a riappacificarsi con i genitori prima che morissero. Gemini è insicuro di sé, tanto da non potersi più specchiare. The Swimmer soffre per la fine di una relazione omosessuale. C’è però un pensiero costante che accomuna tutti e tre ed è il pensiero della morte, della finitudine che incombe su ognuno di loro. Pur essendo personaggi non giocanti, sono coscienti che questo momento arriverà. Alla fine l’isola di Player Non Player secondo me è un grande cimitero dove riposano gli avatar dei giocatori e dei NPC che finalmente hanno trovato pace dopo tante quests.
Valentina Tanni, in Exit Reality, scrive:
Per chi vive «chronically online» e trascorre la maggior parte del tempo davanti al computer, il mondo naturale rappresenta una fonte di rigenerazione, una potenziale cura per i malanni provocati dell’abitare una società ipercapitalista e tecnologizzata. Il contatto con la natura diventa quindi un antidoto al distacco sistematico dall’ambiente, che spesso determina anche un allontanamento dalla propria dimensione corporea: «go outside and touch the grass» recita un altro meme popolare.
Paradossalmente toccare l’erba e accarezzarla è uno dei tanti cortocircuiti di Player Non Player. Tocchiamo dell’ erba virtuale con una mano virtuale dentro uno schermo. Subito dopo penso che c’è chi passa centinaia di ore in Stardew Valley a coltivare ortaggi e relazioni, quando il gioco si apre con queste parole: “Ho perso di vista le cose importanti della vita… le connessioni reali con le persone e la natura”. Mentre Player Non Player è consapevole di questa contraddizione in termini e la fa diventare metaironica (go outside and touch the grass), Stardew Valley fa di tutto per non farvi toccare l’erba vera!
Player Non Player mi ha affascinato talmente tanto che ho voluto porre qualche domanda a Jonathan Coryn, lo sviluppatore francese che ha realizzato il gioco tutto da solo, per avere conferme, o smentite, su alcune mie riflessioni.
Ho trovato molti riferimenti (e una sorta di critica) ai videogiochi mainstream (Tomb Raider, le monete di Mario, la spada di Zelda, Fortnite nel modo in cui il giocatore arriva sull’isola). È vero?
Effettivamente, ci sono un sacco di riferimenti ai videogiochi mainstream (hai indovinato quelli menzionati), quelli che hanno plasmato la mia infanzia ma che ora guardo in modo critico (e talvolta con disillusione). Quindi, c’è un aspetto nostalgico agrodolce che si intreccia con il tema principale del gioco riguardante il dolore e la finitezza. Inoltre, le voci che senti sono le voci ufficiali francesi di Lara Croft/Tomb Raider (Françoise Cadol), Sora/Kingdom Hearts (Donald Reignoux), Abe/Oddworld (Pierre-Alain de Garrigues): tutti personaggi che hanno avuto giochi recenti ma senza voci francesi (quindi appartengono al passato e ai ricordi della mia infanzia di cui sono nostalgico).
Ci sono molti videogiochi ambientati su isole che sono diventati iconici a modo loro. Penso a The Witness, What Remains of Edith Finch, Dear Esther. Cosa rappresenta l’isola per te?
Questi giochi sono stati fonte di ispirazione per Player Non Player (e prima di loro, Myst): infatti, ho progettato l’isola ancor prima di progettare i personaggi. La mia idea iniziale era quella di creare una sorta di meta-narrazione in una specie di MMORPG abbandonato, dove i personaggi vagavano abbandonati dai loro giocatori. Arriveresti quindi in questo mondo virtuale come un archeologo; sono affascinato dai media perduti e dalla natura iper-fragile ed effimera dei mondi digitali. Poi, incorporando i personaggi, è diventato chiaro nella scrittura che questa isola è in realtà un purgatorio, molto simile all’Isola dei Morti di Böcklin.
Mi sono davvero piaciute le architetture brutaliste che hai progettato. Il piano sequenza dalla camera con lo specchio integro verso lo specchio rotto nella villa è incredibile. Perché hai scelto questo stile e cosa ti affascina?
Sì, amo davvero l’architettura brutalista! Sono attratto dall’estetica fredda, monolitica e autorevole (quasi ciclopica), in un certo senso disumana, il cui significato è stato sovvertito, ammorbidito e umanizzato: penso che chi abbia instillato questo gusto in me sia Fumito Ueda. Vedere Ico e Yorda, con tutta la loro fragilità e vulnerabilità, navigare tra gli ingranaggi di questo castello brutalista abbandonato crea un contrasto incredibilmente forte che trovo sublime. Anche il Memoriale Brion di Carlo Scarpa è stata una grande fonte di ispirazione per la Villa in Player Non Player e fa eco a ciò che sto dicendo con Ico: uno spazio brutalista progettato come luogo di incontro e lutto.
Essendo un solo developer ti permette il massimo controllo su tutti gli aspetti del gioco e, almeno credo, di parlare in maniera autobiografica. Ma d’altro canto, come hai gestito un lavoro così grande in termini di tempo e stress?
Lavorare da soli è una vera libertà e credo che sia una condizione favorevole per fare ciò che troppo raramente viene fatto nella game industry: una produzione sperimentale a lungo termine. Anche se avrei potuto seguire le pratiche standard dell’industria (come redigere un GDD [game design document], scrivere i gameplay loops, playtesting, ecc.), ho scelto di adottare un approccio più “artistico” e sperimentale nella progettazione di Player Non Player. Tuttavia, questo approccio non è privo di difetti: a parte la musica, ho lavorato su quasi tutti gli aspetti del gioco, dalla scrittura alla promozione. Alcune fasi mi annoiavano o mi stressavano profondamente, ed è in quei momenti che avrei desiderato avere uno studio di sviluppo che mi accompagnasse, così da poter delegare certi compiti. È stato lungo e faticoso (6 anni!), e non vedo l’ora di lavorare su un altro progetto, questa volta con un publisher. Ma è valsa la pena resistere; sono orgoglioso di Player Non Player, e posso vantarmi di aver fatto un gioco dalla A alla Z (che non è cosa da poco).
L’unione artistica con il duo di musica elettronica Agar Agar mi è sembrata assolutamente e azzeccata. Come vi siete conosciuti?
Sì, assolutamente. Descrivo spesso la loro musica come un mix di euforia e divertimento, ma anche di morbidezza, talvolta venata di disperazione. Descrive abbastanza bene anche il mio lavoro, è un vero incontro. Ci siamo conosciuti alla Scuola di Belle Arti di Cergy, frequentavamo lo stesso anno, e ho iniziato a sviluppare Player Non Player subito dopo esserci laureati nel 2018.
Ho citato volutamente solo un libro in questo articolo il cui titolo è già in perfetta sintonia con Player non Player e chiudo ancora con Exit Reality:
La depersonalizzazione […] riguarda il rapporto con la propria entità fisica: chi ne soffre tende a distaccarsi da sé stesso, percependosi talvolta addirittura fuori dal corpo. Questi stati di dissociazione possono essere provocati dall’uso di medicinali e sostanze stupefacenti oppure innescati da traumi, situazioni di stress, ansia o privazione del sonno. Ma anche da un uso eccessivo di schermi, computer e videogiochi […].
L’invito ultimo e paradossale che Player non Player ci fa è quello di depersonalizzarci, staccarci dal giocatore e diventare personaggi non giocanti, o forse lo siamo già?