Nel discorso infinito col quale sviluppatori, giocatori e critica prima danno forma, poi consolidano e infine disgregano i generi videoludici, affinché il processo possa velocemente ricominciare da capo, le avventure grafiche occupano un posto particolare. Per loro il discorso si è (inter)rotto, o meglio si è involuto nella direzione in cui di solito si va quando si parla di generi in declino, o definitivamente decaduti: emerge allora il tema della tradizione, e le sue caratteristiche diventano improvvisamente irrinunciabili e monolitiche; spuntano fuori gli argomenti della nostalgia, e si fa della sua sopravvivenza direttamente una questione di generazionale, o comunque di aderenza allo stile di una volta. Sono come profezie auto-avveranti: non si sa se le avventure grafiche siano realmente superate, mentre invece è abbastanza chiaro come un discorso simile intorno al genere non possa che indirizzare verso tale conclusione.
Vediamo cosa prevede, dunque, questa presupposta tradizione: l’avventura grafica sarebbe un genere in cui non si combatte ed è raro o impossibile morire, nel quale non si controlla il personaggio ma gli si forniscono istruzioni su cosa fare, e dove l’avanzamento nel gioco coincide, nella sostanza, con la risoluzione di una serie di enigmi attraverso il dialogo e l’uso di oggetti. Ha senso, che questo sia diventato uno dei presupposti del discorso? Le avventure grafiche sono precisamente—e solamente—questo? A guardare i classici, ancora tanto influenti, di LucasArts, potremmo rispondere in maniera affermativa.
A guardare i titoli di un altro grande publisher di avventure grafiche anni Novanta come Sierra, subentra qualche dubbio in più. Prendiamo ad esempio la serie Quest for Glory: i primi quattro capitoli erano ibridi tra avventura e gioco di ruolo, dove bisognava sì risolvere enigmi, ma anche combattere tanti nemici. Ci sono vari modi per spiegare come sia stato sostanzialmente rimosso il fatto che le avventure grafiche siano state, e possano essere, anche giochi di quel tipo. La scuola di LucasArts ha finito col prendere il sopravvento forse per l’altissima qualità dei suoi titoli, o forse per il fatto che, chi fosse in cerca di combattimento, poteva facilmente trovarlo praticamente in qualsiasi altro genere; oppure è la critica videoludica a essersi persa un pezzo dopo l’altro, nel corso del tempo, fino a non riuscire più a vedere le avventure grafiche diversamente. Alla fine poco importa; bisognerebbe provare, invece, a mettere un po’ di ordine.
Echo Generation, dello studio canadese Cococucumber, è un caso molto interessante in questo senso. Gli sviluppatori presentano il gioco così: “Echo Generation è un gioco d’avventura a turni con un tocco soprannaturale”. È una descrizione abbastanza accurata, per un gioco d’avventura ambientato in un tranquillo, tipico sobborgo americano, con combattimenti a turni e i nemici che spesso e volentieri sono extraterrestri, e dove si finisce persino a bordo di un paio di navicelle spaziali.
In Italia, tanto per cambiare, sono stati in pochi a occuparsi di questo titolo: tra i maggiori portali, EveryEye è l’unico che lo ha recensito, presentandolo come “un RPG in voxel art”; Multiplayer.it, provata la demo, ha scritto che “è a tutti gli effetti un gioco di ruolo”; IGN Italia gli ha dedicato solo un paio di news, parlando di “gioco di ruolo” e di “RPG ispirato agli anni Ottanta”. Insomma, tutti concordano sul fatto che si tratta di un gioco di ruolo e non di un’avventura, e nemmeno di un ibrido tra i due generi; nessuno trova opportuno presentare Echo Generation così come viene visto dagli sviluppatori e, in ultima analisi, per quello che è.
Non si potrebbe avere una prova più lampante della “rottura” del discorso sulle avventure grafiche di questa: la critica unanime nel presentare al pubblico un gioco collocandolo in un genere estraneo allo spirito con cui è stato creato, e col quale condivide giusto qualche affinità. Riguardo alla visione degli sviluppatori, anche andando oltre alle stringate formule da comunicato stampa, si trovano solo conferme. Il game director Martin Gauvreau, intervistato da PC Invasion, spiega: «Ci siamo ispirati e abbiamo voluto rendere omaggio a molti dei giochi d’avventura LucasArts degli anni Novanta, come Monkey Island 2, Day of the Tentacle e Full Throttle, e anche a giochi come The Legend of Kyrandia e Loom».
Più avanti nella stessa intervista spiega: «L’avventura è uno dei pilastri principali del gioco. In effetti, in fase di test, quando abbiamo disattivato tutti i combattimenti, abbiamo scoperto che il gioco poteva reggersi da solo come avventura grafica. Quello che volevamo ottenere con Echo Generation era basarci su un genere consolidato e aggiungere emozioni attraverso il combattimento». Ecco, Echo Generation si può vedere esattamente così, come un’avventura a cui è stato aggiunto molto altro, a partire da scontri con i nemici che, combattuti attraverso mini-giochi, ricordano Paper Mario: Il portale millenario.
Nella sua essenza, però, resta senz’altro un’avventura; non solo per l’impressione generale che se ne ricava dopo averlo giocato, ma per il tono spensierato usato nella scrittura della trama, o per l’avanzamento della storia, totalmente fondato sull’utilizzo di oggetti (alcuni da raccogliere in giro, altri da ottenere come ricompensa dopo aver vinto un combattimento), o ancora per la composizione del party di personaggi, che non prevede “ruoli” da interpretare (persino in Quest for Glory si poteva scegliere tra un mago, un guerriero e un ladro).
A proposito della serie targata Sierra, è istruttivo recuperare quanto ne scriveva diversi anni fa Engadget:
Il primo Quest For Glory è stato pubblicato all’apice della popolarità delle avventure grafiche, e la sua interfaccia e prospettiva visiva sono quelle tipiche del genere. Ma l’aggiunta di meccaniche da gioco di ruolo alla struttura da avventura smussa le asperità di entrambi i generi. Il dualismo successo/fallimento degli enigmi delle avventure tendeva a renderle troppo facili o troppo difficili, ma la maggior parte degli enigmi di Quest For Glory prevedeva un qualche tipo di verifica delle abilità del proprio eroe. Ciò significava che si poteva superare la maggior parte delle sfide mediante la pratica o l’esplorazione, invece di rimanere bloccati in bizzarri enigmi di combinazione di oggetti.
Sostituendo Quest For Glory con Echo Generation, esce fuori una perfetta descrizione del titolo di Cococucumber. Fa una certa impressione trovare in un articolo scritto più di dieci anni fa, a proposito di una serie iniziata più di trent’anni fa, un’analisi attualissima di quelli che sono sempre stati i principali limiti delle avventure grafiche, e un’indicazione per superarli.
Echo Generation si pone proprio tale obiettivo, e pur senza avere grandi ambizioni ci riesce in pieno. Grazie ai miglioramenti apportati dalla nuova “Midnight Edition”, da poco uscita su Steam e Nintendo Switch, è inoltre un gioco ormai piuttosto rifinito. Alla fine, non fa niente di troppo diverso da ciò che fanno in tanti oggi, per guadagnare visibilità in un settore videoludico sempre più affollato: mescolare, ibridare, accostare meccaniche diverse e farle funzionare assieme grazie a un buon game design. Lo fa, però, spostando i confini di un genere che viene trattato come un fossile, e non come qualcosa di vivo e perciò in costante evoluzione; ma le avventure grafiche non sono un fossile, e nemmeno una lingua morta: va solo ripreso il discorso laddove lo si era interrotto.