Figlie da salvare

La retorica dei dad games in attesa dell’autodeterminazione dell’eroina.

Quando nei primi anni ‘90 Maureen Murdock pubblica Il Viaggio dell’Eroina: La risposta al femminile del Viaggio dell’Eroe1 viene messo in discussione per la prima volta il ruolo delle donne all’interno delle diverse forme di narrazione, siano esse appartenenti al mondo finzionale sia a quello reale. C’è un minimo comune denominatore che caratterizza entrambe queste dimensioni: tutte queste donne hanno abbracciato lo stereotipo del viaggio dell’Eroe maschile per ottenere successo. In altre parole, hanno sempre teso a eludere la propria dimensione femminile, hanno castrato la propria femminilità (perché vista come disvalore) affinché potessero ottenere riconoscimenti positivi in un mondo dominato da uomini, sia esso relativo alla dimensione privata (il padre o il marito) sia a quella sociale (colleghi, compagni, etc.).

Titolo
Videogioco: Femminile, Plurale
Autori
Fabrizia Malgieri, Fiorenzo Pilla, Tiziana Pirola, Lorena Rao
Editore
Ledizioni
Anno
2024
Secondo Murdock, in un certo momento della propria vita, le donne sono costrette ad annullare la propria natura femminile (definito “strappo madre/figlia”, che genera rifiuto nei confronti della figura materna e, più in generale, delle figure femminili) per sposare modelli e archetipi narrativi maschili per acquisire credibilità e sentirsi riconosciute. In altre parole, le donne, per farsi riconoscere come capaci e indipendenti, abbracciano valori maschili e scelgono solo dei mentori maschili.

Questo desiderio di approvazione del mondo maschile—unito all’allontanamento dal femminile—genera, tuttavia, disorientamento: le donne vivono in un faticoso confronto con un universo che tende costantemente a rifiutarle (soprattutto se e quando si trovano a tornare a riabbracciare la loro femminilità, con la maternità ad esempio), ma al tempo stesso, quando provano a non giocare più secondo regole patriarcali, perdono quelle che sono state per loro delle importanti linee guida. Inizia così una fase che Murdock definisce “confronto con il femminile oscuro”, un viaggio sacro in cui le donne si ritrovano a riconquistare le proprie parti perdute e abbandonate per abbracciare i valori di un universo maschile, ma anche a ricucire lo strappo “madre/figlia”, la ferita che ha generato il rifiuto iniziale del femminile. Il viaggio dell’eroina diventa il costrutto teorico attorno cui si dipana il nuovo percorso dei personaggi femminili all’interno dell’universo videoludico. Tuttavia, prima che questo processo abbia inizio e assuma valore, c’è ancora una tappa intermedia che vale la pena analizzare e che ha contribuito ulteriormente a riscrivere le identità femminili all’interno del videogioco in ottica contemporanea.

Se è vero che l’archetipo della damigella in pericolo e quello della damigella utile, come ripercorso da Anita Sarkeesian, sono stati per molto tempo l’unico modo per rappresentare i personaggi femminili all’interno dei videogiochi, superati successivamente dal modello delle super girl e poi ancora dalle nuove protagoniste sancite dalla “nuova Lara”, la seconda metà degli anni Dieci del 2000 vede comunque il ritorno di alcune categorie narrative legate alle donne, volte a offrire una nuova interpretazione dei personaggi maschili—ora più sempre più complessi e meno legati a quel concetto di mascolinità militarizzata che aveva caratterizzato gli anni Novanta e i primi Duemila.

In particolare, un fenomeno che ha teso a diffondersi in questi anni soprattutto nei videogiochi action/narrativi—quei titoli che, come detto, si prestano maggiormente alla riscrittura dei personaggi sia femminili sia maschili—è la pratica della patrificazione dei videogiochi (daddening of video games). Tale concetto è stato teorizzato per la prima volta dal giornalista e critico videoludico Stephen Totilo2, il quale coglie una tendenza sempre più diffusa nei videogiochi contemporanei ad avere i padri come protagonisti—motivo per cui vengono definiti dad games. Totilo sostiene che tale fenomeno non dipenda solo da una necessità di maturazione vissuta dal medium, ma anche dagli stessi giocatori: quei giocatori che, per lungo tempo, hanno interpretato il ruolo di figli, di giovani eroi, sono oggi padri di famiglia e affinché possano provare maggiore empatia con i protagonisti videoludici che oggi interpretano, appare necessario fornire loro figure in cui sia più semplice identificarsi.

Il lancio di videogiochi come BioShock 2 (2010), Heavy Rain (2010), The Last of Us (2013), BioShock: Infinite (2013), Telltale’s The Walking Dead (2012-2109), God of War (2018) e God of War: Ragnarok (2022)—i quali ruotano tutti attorno a figure paterne—confermano questo trend sempre più in crescita, che ha generato tanto entusiasmo, ma anche tante criticità. In particolare, vi è la reiterazione del tropo della damigella in pericolo: questo perché la maggior parte dei dad games è incentrato su una relazione padre-figlia, in cui il genitore eroe—il più delle volte un uomo maschio bianco, eterosessuale, violento e iper-virile—ha il compito di portare in salvo la propria figlia, naturale o putativa (Ellie in The Last of Us, Elizabeth in Bioshock Infinite, etc.), la quale è solitamente rappresentata come personaggio passivo e incapace di badare a se stessa.

The Last of Us (Naughty Dog, 2013)

La riproposizione di questa dinamica narrativa ha fatto in modo che, ancora per diverso tempo, le figure femminili—comprimarie, ma non giocabili nella maggior parte di questi videogiochi—non fossero ancora in grado di salvarsi da sole. Probabilmente i due esempi di dad games più significativi in tal senso, e che forse meglio esemplificano le grandi criticità insite nella rappresentazione del rapporto padre-figlia all’interno di questa tipologia di videogiochi, sono esattamente BioShock Infinite e The Last of Us3. Il grande tema che caratterizza entrambe le esperienze è la possibilità per i due padri (Joel e Booker) di riuscire finalmente a lasciarsi il passato alle spalle e redimersi salvando due giovani donne, le quali si limitano a sottostare alle richieste (costanti) dei rispettivi genitori.

Tuttavia, ci sono delle differenze importanti tra i due giochi e, in particolare, tra le due figlie: se è vero che sia Elizabeth di BioShock Infinite sia Ellie di The Last of Us vengano percepite come passive—in quanto costrette a sottostare ad un egoismo delle figure paterne, che sono alla ricerca di una (propria) redenzione anche a scapito della salute fisica e mentale delle proprie figlie—nell’opera di Naughty Dog si percepiscono i primi cambiamenti. Entrambe le ragazze sono personaggi iper-ludici—secondo la definizione offerta da Conway4, si intendono quei personaggi per cui il giocatore/padre non è costretto a badare a loro dal momento che i nemici non possono—e non possono in alcun modo ignorare le esigenze paterne, Ellie tuttavia si rivela più autonoma rispetto a Elizabeth. Inoltre, già il fatto che il giocatore possa interpretare Ellie in The Last of Us (anche se per una brevissima sezione) o nel DLC Left Behind è sintomo di un primo cambiamento, questo anche perché Ellie è il vero alter ego del videogiocatore in quanto tutto ciò che scopre sul mondo di gioco avviene quasi esclusivamente attraverso l’esperienza vissuta dalla ragazzina.

Il giocatore non sa cosa sia accaduto nei vent’anni intercorsi tra lo scoppio dell’epidemia e gli eventi raccontati nel gioco, e raccoglie tutte le informazioni sull’universo distopico in cui è ambientata l’esperienza attraverso le domande che Ellie pone continuamente a Joel, anche attraverso le sue reazioni emotive. D’altro canto, la possibilità di giocare nei panni della ragazzina, anche se per pochi istanti, conferma in via definitiva la relazione che lega i due personaggi. Affrontando il freddo inverno e un mondo pieno di pericoli e avversità, Ellie salva la vita a Joel. È qui che viene sancito un patto silente tra i due personaggi, che porta all’epilogo complesso di The Last of Us, dove il giocatore torna ad essere il padre. Raggiunta la sede delle Luci, Joel affida la giovane ai dottori, ma scopre che l’unico modo per trovare una cura all’epidemia è quello di porre fine alla vita di Ellie. Per riscattare se stesso, in quanto incapace di impedire la morte di sua figlia Sarah vent’anni prima, e in segno di gratitudine per la ragazzina che gli ha salvato la vita, Joel decide di portare via Ellie dalla struttura, uccidendo alcuni medici presenti. Quello che appare un gesto decisivo ai fini del rapporto oramai indissolubile tra i due personaggi, diventa in realtà una condanna che segnerà la vita di Joel (e quella di Ellie) nel gioco successivo, The Last of Us: Parte II. La scelta di Joel si rivelerà fatale non solo per se stesso, ma soprattutto per Ellie, a cui, come vedremo, verrà impedita la possibilità di autodeterminarsi nel capitolo seguente.

Questa digressione sui dad games e, più in generale, sul rapporto padre-figlia è stata necessaria per riuscire a dare un contesto importante su quella che è l’applicazione del modello del viaggio dell’eroina in quei videogiochi che hanno come protagoniste nuove figure femminili e che, per diverse ragioni, devono confrontarsi con figure maschili, a partire da quelle paterne. Rispetto al rapporto che i personaggi femminili dei primi anni Dieci instaurano con i loro padri (naturali o putativi), le nuove protagoniste videoludiche puntano ad emanciparsi rispetto a quelle figure genitoriali, verso cui hanno anelato per lungo tempo. Questo, tuttavia, non significa che il ruolo dei padri perda la sua importanza all’interno di questo percorso che, come detto, Murdock definisce ciclico, tutt’altro: l’identificazione con il maschile rappresenta una tappa fondamentale che porta queste eroine, in un secondo momento, a riabbracciare la propria dimensione femminile, a costruirsi un’identità indipendente da quelle figure maschili che per tanto tempo hanno rappresentato l’unica controparte con cui confrontarsi.

Note

  1. M. Murdock, Il viaggio dell’eroina, Audino, Roma 2010. ↩︎
  2. S. Totilo, “The daddening of video games”, Kotaku, 9 febbraio 2010. ↩︎
  3. G. Voorhees, “Daddy issues: Constructions of fatherhood in The Last of Us and BioShock Infinite”, ADA: A Journal of Gender, New Media, and Technology, 9, 2016. ↩︎
  4. S. Conway, “Hyper-Ludicity, Contra-Ludicity, and the Digital Game”, Eludamos. Journal for Computer Game Culture, 4 (2), 2010, pp. 135-147. ↩︎

Questo articolo è un estratto dal libro “Videogioco: Femminile, Plurale” di Fabrizia Malgieri, Fiorenzo Pilla, Tiziana Pirola e Lorena Rao, pubblicato da Ledizioni.