Nel suo nuovo libro Il videogioco del mondo (Timeo, 2024), il filosofo e game designer Stefano Gualeni indaga i videogiochi come strumenti culturali e filosofici. L’autore, professore ordinario all’Institute of Digital Games dell’università di Malta e visiting professor all’LCAD di Laguna Beach (California), esplora le possibilità immersive del medium come atto concreto di conoscenza del mondo, e più in generale il virtuale come proiezione che modifica e arricchisce la nostra percezione della realtà. Attraverso semiotica, esistenzialismo e letteratura (con l’evidente richiamo a Rayuela di Julio Cortázar nel titolo), Gualeni affronta anche le criticità del videogioco, ma al contempo prova a superare, come vedremo tra poco, l’isolamento culturale che spesso lo circonda. Prima di proseguire: sul sito di Stefano Gualeni è possibile trovare altre sue pubblicazioni e alcuni giochi sviluppati come strumenti didattici, mentre qui ci sono i suoi articoli per Ludica.
Ciao Stefano. Partirei dalla distinzione tra mondi virtuali e videogiochi che operi all’inizio del libro. Nella tua visione tutti i videogiochi sono mondi virtuali, ma non tutti i mondi virtuali sono videogiochi, dico bene?
Sì, cominciamo col dire che le simulazioni digitali sono tecnologie che ci danno accesso (e supportano) l’esperienza multimodale e dinamica di spazi artificiali. All’interno di questi spazi possiamo muoverci, agire, fare piani per situazioni future, costruire, distruggere… Possiamo in qualche modo abitarli. Di conseguenza i rapporti e le relazioni che stabiliamo con ambienti virtuali sono per certi versi simili a quelli che abbiamo con il mondo reale (quello che condividiamo come creature biologiche, per capirci). I mondi virtuali sono certamente più semplici e ripetitivi di quello che ci circonda, ma hanno comunque comunque le caratteristiche di mondi (sono persistenti, interattivi, coerenti, ecc.). Che ambienti virtuali possano essere esperiti come mondi non è un punto di vista controverso, anzi si tratta di un’idea condivisa da diverse prospettive accademiche. La posizione che sostengo in particolare è agnostica dal punto di vista tecnologico: per accedere a questi mondi non dobbiamo necessariamente indossare un caschetto di realtà virtuale. Lo possiamo fare su schermo, immaginandoci di abitarlo attraverso il corpo (vicario, virtuale) del nostro personaggio giocante.
E quindi dov’è la differenza tra mondo virtuale e videogioco?
È nelle intenzioni sulla cui base questi sono stati progettati e realizzati: i mondi virtuali dei videogiochi sono progettati per sostenere attività giocose legate all’immaginazione e al divertimento, gli altri hanno altri scopi. Certo, nulla vieta all’utente di giocare all’interno di un simulatore per l’addestramento o, al contrario, di trattare un videogioco con estrema serietà (pensate al caso dei giocatori professionisti o all’uso educativo di piattaforme come Minecraft). Insomma, possiamo giocare con tutti i mondi virtuali, ma solo alcuni di essi sono stati progettati per essere videogiochi.
Un altro punto che chiarisci all’inizio, e che poi torna in tutto il libro, è che i videogiochi non dovrebbero essere trattati come eccezioni, ma in continuità con altre forme culturali. Eppure si continua a trattare il videogioco come una stranezza, un hobby infantile.
Il gioco in generale, vista la sua caratteristica “non-serietà” e il suo fare leva su fenomeni legati all’immaginazione e all’immaginarsi altro da sé, ha da sempre un ruolo ambiguo all’interno della società (nel caso non l’abbiate letto, andate a recuperarvi Ballare di architettura del mio amico Riccardo Fassone, uscito quest’anno per Einaudi). Giocare è necessario allo sviluppo e coadiuvante all’educazione, è uno strumento che ci consente di socializzare e sfogare certe tensioni sociali (ne parlava in questi termini anche Marshall McLuhan). Se da un lato il gioco viene riconosciuto come qualcosa di importante e socialmente utile, al tempo stesso non è infrequente riferirsi ad esso come ad un’attività infantile, non seria, improduttiva: una perdita di tempo. Anche etimologicamente ci sono affinità tra il gioco e lo scherzo, e si dice “per gioco” riferendosi a cose che non corrispondono ai dati di fatto. Non è quindi sorprendente che—come forme espressive—i giochi e i videogiochi non siano spesso ritenuti alla pari di altre forme più serie, stabilite, concrete e produttive. Nel caso di letteratura e cinema, ad esempio, si è avvezzi a ritenere il valore artistico di opere come incompatibile a temi immaginari o scherzosi (come dimostrato dalla ancora presente resistenza ad accettare fantascienza e letteratura fantasy come parte del canone letterario). Nella storia della letteratura è stato spesso ritenuto sconveniente parlare di giochi e del giocare proprio per via della loro connotazione frivola e poco seria. Questo è particolarmente visibile in relazione alla scrittura al femminile, come spiegato bene nel lavoro di Cristina Di Maio (Università di Torino). Insomma, c’è uno stigma culturale sul gioco in generale, ormai poco difendibile alla luce dell’evidente importanza e del ruolo che il gioco ed il giocare hanno nella cultura occidentale.
E allora da dove viene questo pregiudizio?
Creare e giocare ai videogiochi richiede forme di alfabetizzazione e capacità tecniche che sono comuni tra i miei coscritti (maschi occidentali di mezz’età), ma che certamente non lo erano per le generazioni precedenti alla mia. È allora comprensibile che—come abbiamo fatto per millenni—tanto anziani direttori di musei quanto redattori di pagine culturali dei quotidiani guardino con sospetto o addirittura rigettino forme espressive con cui non sono cresciuti e che non capiscono. È stato il caso della pop art, e prima ancora della televisione, del punk, del cinema, del jazz, della fantascienza, del romanzo d’appendice… E così fino alla scrittura stessa. A tal proposito, nel secondo capitolo de Il videogioco del mondo riporto un famoso dialogo Platonico tra Socrate e il giovane Fedro dove si parla proprio di questo. Insomma, si tratta anche, se non principalmente, di una questione di diffusione culturale e di alfabetizzazione. Il traballante riconoscimento sociale del videogioco è quindi anche—se non soprattutto—un problema generazionale: gran parte della popolazione non è cresciuta con i computer e non è alfabetizzata rispetto al linguaggio del videogioco, ed è normale che questa li ritenga perdite di tempo, stupidaggini, cose da giovinastri senza valori. Probabilmente è un problema che si risolverà da solo con il passare del tempo.
Sulla continuità tra forme culturali e mediali insisti nel tuo insegnamento, sottoponendo agli studenti esperienze videoludiche. Come reagiscono?
Gli studenti universitari dei corsi che teniamo a Malta sono contenti quando—invece di dover scrivere e leggere—vengono affidati loro compiti “giocabili”. Sto parlando di brevi esperienze videoludiche da analizzare e discutere in classe su temi legati all’interazione, alla comunicazione, alla valenza etica di certe scelte offerte al giocatore, a particolari soluzioni di design (ingannevoli, autoriflessive), eccetera. Mio malgrado, mi rendo conto che questi videogiochi utilizzati come materiale accademico (realizzati da me e da colleghi, ma non di rado anche produzioni indipendenti commerciali) funzionano meglio per gli studenti di oggi rispetto agli strumenti didattici tradizionali. Nell’università dei giorni nostri, gli interessi accademici si trovano infatti a competere per l’attenzione frammentaria e fuggevole degli studenti con messaggistica istantanea, reel, tweet, e così via.
Dici “mio malgrado”, ma mi pare che la cosa funzioni.
Sì, la reazione degli studenti è positiva: sono coinvolti dal materiale videoludico perché informazioni, dilemmi, idee, e paradossi possono essere offerti loro in forme per loro attraenti e familiari. In questo senso, Eric Zimmerman parlava del ventunesimo secolo come “il secolo ludico”. C’è da chiedersi però se, non stimolando più gli studenti a concentrarsi su un testo per un lungo periodo di tempo e interpretare e comprenderne il messaggio, queste nuove tecnologie non acuiscano problemi legati, per esempio, alla disinformazione e all’inattitudine verso il pensiero critico, invece di risolverli.
Dunque qualcosa si guadagna, qualcos’altro rischia di perdersi. Questo ci riporta a McLuhan, che citavi prima. Nel libro riprendi la sua tesi sui media come estensioni e amputazioni dei nostri sensi e del nostro corpo. Nel caso del videogioco, cosa estende, cosa amputa, cosa guadagniamo, cosa perdiamo mentre giochiamo?
Banalmente, potrei rispondere che il videogioco ci offre nuovi e coinvolgenti mezzi per accedere ad opere di finzione. I mondi di gioco sono immersivi, esteticamente ricchi e narrativamente coinvolgenti. Ci permettono inoltre di fare esperienze ed esperimenti straordinari all’interno di mondi artificiali che ci stimolano a ripensare a chi siamo e a come orientiamo la nostra “bussola etica”. Come scrivo nel libro, i giochi ci permettono anche di lavorare su noi stessi come in una sorta di “palestra esistenziale”. Questi sono tutti aspetti della nostra vita quotidiana che guadagniamo grazie al gioco e al giocare.
Quanto alle amputazioni, invece?
Ci sono ovviamente pericoli e insoddisfazioni nel frequentare mondi immersivi, stimolanti e seducenti: fenomeni legati alla dipendenza, alla dissociazione, a un progressivo diffondersi di disturbi legati all’attenzione. Nel libro mi concentro in particolare su un aspetto ben spiegato dalla studiosa statunitense Sherry Turkle nel suo volume Life on the Screen del 1995. Secondo Turkle, i media digitali interattivi ci abituano a manipolare sistemi artificiali i cui valori e le cui ipotesi di fondo sono raramente presentati esplicitamente (e che potrebbero risultare svianti e problematici per l’individuo e la società). In altre parole, queste tecnologie hanno uno specifico effetto ottundente sugli utenti, ai quali viene richiesto di accettare acriticamente i criteri e i valori che gli sviluppatori vi hanno iscritto. Quello a cui Turkle ci chiede di fare attenzione in Life on the Screen è proprio l’influenza che caratterizza ogni software, incluso quello videoludico, ovvero i valori e le idee che ci vengono proposte da essi ogni giorno e che noi accettiamo ogni giorno in automatico, senza pensarci.
A tal proposito, ne Il videogioco del mondo parli della differenza tra videogiochi che hanno un approccio comunicativo di tipo retorico e videogiochi che ne hanno uno di tipo dialettico.
Sì, è una distinzione che ricorre al lessico della filosofia classica. In alcuni videogiochi possiamo chiaramente riconoscere l’intenzione degli autori di convincerci che certi punti di vista e orientamenti siano validi e desiderabili. Un videogioco può presentare queste idee passivamente (ovvero dando certi valori e certe convinzioni per assodati e indiscutibili come quelli di cui parlavo nella risposta precedente), o in modo che al giocatore venga richiesto di adattarvisi, riproducendole attivamente e in modo consapevole all’interno del mondo di gioco. Comunque sia, possiamo chiamare videogiochi che adottano questa strategia comunicativa “videogiochi persuasivi” o “videogiochi retorici” (vedi Bogost 2007). In altre parole, sono retorici quei videogiochi progettati per comunicarci un’idea precisa su come dovremmo interpretare una data situazione e su come ci si aspetta che ci comportiamo al riguardo.
E i videogiochi ad approccio dialettico?
Sono videogiochi che hanno un approccio meno deterministico rispetto all’andamento narrativo e al significato dell’esperienza ludica. Questi sono giochi che lasciano al giocatore una maggiore autonomia sia interpretativa che d’azione. In questo genere di esperienze può quindi essere riconosciuta una volontà “dialettica”, ovvero l’intenzione di instaurare un dialogo interattivo con il giocatore che non offra solo vicoli ciechi e interpretazioni preordinate.
Non trovi che un titolo come The Last of Us: Part II metta un po’ in crisi questa distinzione? È retorico/persuasivo nel senso che impone delle scelte a fin di trama, ma al tempo stesso quelle scelte scavano “dialetticamente” dentro il videogiocatore—l’impossibilità di scegliere in determinate situazioni è un’esperienza traumatica, che porta il giocatore a riflettere sulle sue azioni.
Per come la vedo io, no. The Last of Us: Part II (TLOU2) è un gioco retorico, nel senso che non offre al giocatore la possibilità di modificare il corso della narrativa prescritta o che tipo di soggetto uno decida di essere all’interno del mondo di gioco. Certo, possiamo essere più o meno espliciti nel nostro ricorrere alla forza, ma ci è sempre richiesto di agire in modo violento per sopravvivere. TLOU2 però è un’opera di ampio respiro, sfaccettata e complessa, e che come tale apre a un numero di riflessioni critiche su una varietà di temi come la vendetta, la sessualità, la prospettiva politica filo-israeliana dell’autore, ma anche sul ruolo del giocatore stesso nel perpetrare attivamente atrocità di ogni tipo. Insomma, è importante distinguere il formato dell’opera (lineare, retorico) dalle possibilità interpretative e critiche che questa offre al giocatore. Allo stesso modo possiamo trattare Alice nel Paese delle Meraviglie come un’opera letteraria che tratta implicitamente temi legati alla salute mentale o alla spiritualità, senza che questo neghi o elimini il fatto che si tratta anche di una fiaba. Ogni lavoro espressivo è in qualche misura aperto all’interpretazione, ma è altrettanto innegabile che esso abbia precise qualità formali prescritte dai suoi autori. Questo è vero in opere teatrali, letterarie, cinematografiche come lo è per titoli videoludici.
Di fatto TLOU 2 per me ha rappresentato un’esperienza molto traumatica. Il tuo libro mi ha fatto riflettere molto sull’importanza del de-roling, dell’uscita da un videogioco dopo che ne sei stato completamente assorbito.
Sì, ne parlo approfonditamente nel settimo capitolo: si tratta di tecniche, procedure ed esercizi (per lo più mutuati dallo psicodramma) che guidano gli attori, i giocatori di ruolo—e anche i videogiocatori—nel prendere le distanze dai personaggi di finzione che questi hanno “incorporato” durante il gioco. Le tecniche di de-roling servono per limitare l’insorgere di traumi o di problemi psicologici legati al “bleed” o alla dissociazione che possono emergere a seguito di lunghe e avvincenti partite, specie quando queste si svolgono in scenari di finzione potenzialmente traumatici per il soggetto.
Tra i numerosi videogiochi che citi nel libro ce ne sono anche alcuni sviluppati da te. Ad esempio l’interessante Doors, che invito a giocare per entrare ancora di più in sintonia con quanto scrivi. Che influenza ha il tuo passato da sviluppatore sulla tua attività accademica?
Quando mi viene chiesto di redigere una breve biografia (per il retro di un libro o l’annuncio di un evento accademico), tendo a scrivere che Stefano è un game designer appassionato di filosofia, o un filosofo che crea giochi, o spesso nessuna delle due cose. Prima di studiare filosofia (nei Paesi Bassi), mi sono laureato in Architettura al Politecnico di Milano, anche se ho iniziato a lavorare a titoli videoludici commerciali fin dai tempi del liceo, a metà anni Novanta, con titoli come Mikro Mortal Tennis (1995) o Tony Tough (1997). Credo si capisca che la mia formazione sia fin dal principio interdisciplinare e orientata alla pratica. Al fare, insomma. Credo sia anche rivelatorio del fatto che i miei interessi accademici si concentrino sul fare e sul comprendere e cambiare il mondo che ci circonda (e noi stessi). In generale lavoro con correnti filosofiche di tipo pragmatico come lo stoicismo, la fenomenologia, l’esistenzialismo, con un particolare interesse per le tecnologie che creiamo e che a loro volta ci creano come individui. Quindi, per capire perché io non faccia una grossa differenza tra l’esprimermi con mondi virtuali, interazioni giocose, testi accademici o testi di narrativa (il mio secondo romanzo uscirà questa primavera in inglese) è forse utile fare un passo indietro e tentare di ottenere una visione d’insieme. In altre parole, non credo valga la pena concentrarsi su come il mio passato da developer abbia influenzato il mio presente universitario, quanto su come tutte queste attività (educatore, scrittore, game designer, ricercatore accademico) siano prodotti dallo stesso approccio eclettico e pratico al sapere.
Il che spiega molto dell’approccio e della visione del libro, in effetti. Prima di lasciarci: com’era sviluppare videogiochi negli anni Novanta?
Per essere sincero, al tempo ero un teenager e non esisteva internet… E tanto meno scuole o corsi di formazione per imparare a progettare o realizzare videogiochi. Ero semplicemente appassionato di videogiochi. Con un gruppo di amici, abbiamo iniziato non solo a giocare tutto quello che trovavamo, ma anche a realizzare piccoli progetti giocabili. È stato un processo spontaneo, ruspante, motivato dall’entusiasmo e dalla passione per il medium. Per farla breve, al tempo non pensavo al futuro del videogioco come forma culturale o a considerazioni di carattere economico. Era un modo per esprimersi. Invece di avere una band, avevamo un team di sviluppo. Si lavorava in cantine, solai, o camere da letto adattate a piccoli studi di produzione indipendente.
E poi cos’è successo?
Verso la fine degli anni Novanta, la scena è diventata più strutturata anche nel nostro Paese, con diverse case di sviluppo che tentavano di trasformare, con alterne fortune, la passione in professione. Ho lavorato per alcuni studi più grossi negli anni Duemila, ma per come vivevo io il game development, la pressione e la ripetitività del farlo a livello professionale hanno affievolito l’impeto punk degli inizi. E allora ho deciso di tentare la carriera accademica, continuando a coltivare la passione per il gioco e lo sviluppo come una passione, appunto, e non come qualcosa di necessario alla sopravvivenza. Al momento, l’industria del videogioco non mi sembra un contesto particolarmente attraente dal punto di vista professionale o creativo.
Grazie!
Grazie a voi e buona lettura (o buon gioco, come vi pare).