La prima volta che ho avviato Phoenix Springs non ci ho fatto caso. Prima ancora che compaia qualcosa a schermo si sente un suono liquido, come quando si ficca la testa sotto l’acqua in un vasca da bagno. Lo schermo ondeggia impercettibilmente e Iris, la protagonista, ha una posa strana, come se volasse, sospesa in un vuoto nero. Credo che invece stia galleggiando. Questa intuizione è arrivata l’altra notte in un dormiveglia ripensando alle parole apparentemente senza senso e disconnesse pronunciate da una ragazza che stava nuotando in un laghetto: “If you float long enough, the body mistakes gravity for motion”. Al primo playthrough non ci ho capito quasi niente, al secondo le cose sono diventate un po’ più chiare, al terzo ho un quadro d’insieme piuttosto verosimile.
Di una cosa sono invece certo: Phoenix Springs non è un gioco immediato e va metabolizzato piano piano. È estremamente ermetico, volutamente vago e vacuo, fatto più di vuoti che di pieni. Lavora per sottrazione, come uno scultore che toglie invece di aggiungere o, allargando lo sguardo ancora di più, come il tempo tiranno che porta via preziosi minuti, ore, giorni dalle nostre vite. I dialoghi (che in realtà sono quasi monologhi perché pronunciati sempre dalla stessa Iris) sono scarnissimi e la maggior parte delle volte somigliano più a poesie o massime filosofiche. Il mondo di gioco, se all’inizio può sembrare preso da un film neo-noir (città distopica caduta in disgrazia che potrebbe ricordare la Revachol di Disco Elysium) prende inaspettatamente una piega surreale e onirica (un’oasi verdeggiante in mezzo ad un deserto sterminato). È spiazzante, disorientante, carico di simboli, weird and eerie per dirla con il compianto Fischer, e non fa nulla per mettere a proprio agio il giocatore. Anzi, dopo i titoli di coda lo lascia esanime e annichilito, con una quantità enorme di interrogativi e pochissime certezze.
In questo pezzo ho provato a tracciare una sorta di mappa mentale sulla falsariga di quella che piano piano si forma nella testa di Iris nel gioco. Ho stilato una lista di parole che nascondono un forte significato simbolico e che forse volutamente non sono state approfondite dai tre sviluppatori di Calligram Studio, generando quindi ancora di più senso di spaesamento nel giocatore. Sono indizi che possono aiutare ad entrare nella complicata lore di Phoenix Springs. In questo paragrafo mi limito a dire che nel suo impianto ludico non è altro che un’avventura punta e clicca piuttosto classica, che porta solo piccole novità nel modo di interagire con il mondo di gioco. La più importante tra queste è che non si va in giro a raccogliere oggetti ma solamente le idee di quegli oggetti, che si trasformano in parole e vanno ad occupare e popolare la mente di Iris. Al centro di questa mappa c’è sempre e solo Leo Dormer, il fratello minore di Iris, una giornalista che si occupa di tecnologia.
A mano a mano che Iris trova possibili indizi per proseguire nella ricerca di suo fratello scomparso, questi si inseriscono dentro la sua mente, mentre altri, che momentaneamente non servono più, vengono rimossi. Questi pensieri possono essere oggetti, nomi di persone, acronimi e così via. Abbinando la giusta deduzione al giusto punto di interesse proseguiamo nella storia. Purtroppo pur con questa stilosa innovazione il gioco si porta comunque dietro tutti i “difetti” tipici del genere: rischio di rimanere bloccati, puzzle non sempre chiari, unica soluzione che non prevede alternative, tanto backtracking dispersivo, niente hint system integrato se non un link esterno dopo essersi registrati tramite mail. Dalla sua però Phoenix Springs ha talento da vendere: una direzione artistica fuori scala e originale che fa uso di una palette limitatissima di colori saturi, un doppiaggio incredibilmente monocorde che ben si adatta all’atmosfera inquietante, un sound design altrettanto minimale e disturbante. Ma dove veramente eccelle è nella costruzione di un mondo distopico carico di simboli. Andiamo a vederne qualcuno.
La fenice
Partiamo proprio dal titolo. La fenice, pur non comparendo mai nel gioco, c’è eccome. Phoenix Springs, che potrebbe ricordare per assonanza un certo Kentucky Route 0, non è una città americana, bensì la latinizzazione del greco phoînix. L’araba fenice, come ben si sa, rinasce dalle proprie ceneri e simboleggia la morte e la resurrezione in un ciclo continuo. Mettiamo subito in chiaro che questo è il tema di fondo del gioco.
La cicala
Proseguiamo con un altro animale, o meglio un insetto. All’interno della ULS, acronimo per University of Life Sciences dove Leo Dormer insegna bioetica, possiamo vedere in un progetto appeso al muro, proprio la statua di una cicala che suona l’arpa. Questa statua dovrebbe essere piazzata all’ingresso dell’ateneo. Dettaglio apparentemente insignificante che invece rivela subito un altro dei temi portanti del gioco. Infatti la leggenda narra che la dea dell’aurora, Eos, fosse innamorata del bellissimo Titone. Eos lo rapì chiedendo a Zeus di renderlo immortale. Egli la accontentò, ma non donò a Titone l’eterna giovinezza. Accadde così che mentre Eos rimaneva giovane e bella, Titone invecchiava inesorabilmente. Fu allora che gli dei, avendone pena, lo trasformarono in cicala e da allora, la cicala simboleggia l’amore eterno, la trasformazione e l’accettazione del ciclo della vita, mentre il suo canto la vita eterna sull’orlo della caduta, proprio per ricordare l’immortalità di Titone ma anche la fragilità dell’anima umana.
La nave di Teseo
Nelle prime fasi del gioco scopriamo anche che Leo Dormer ha scritto alcuni libri tra cui uno in particolare dal titolo Sinking the 30 Oars Ship. Questa è una mia supposizione ma credo possa riferirsi al paradosso della nave di Teseo. La domanda da cui si parte è molto semplice: se le parti della nave dell’eroe greco Teseo vengono sostituite, resta sempre la stessa nave? Se allarghiamo il discorso all’essere umano entriamo proprio in ambito bioetico. L’identità della nostra persona è qualcosa che cambia moltissimo nel corso della nostra vita sia dal punto di vista della materia di cui siamo composti, sia dal punto di vista dei nostri pensieri, delle scelte, delle decisioni. Siamo sempre la stessa persona o cambiamo?
L’oasi
Phoenix Springs non è altro che un’oasi in mezzo a un deserto sconfinato. È preclusa ai più, non è facile arrivarci, ma esercita una specie di richiamo su alcune persone e Iris ne è inevitabilmente attratta. In questa sorta di comunità isolata e arcaica vivono degli strani personaggi totalmente ignari del mondo esterno. Qui le persone non hanno bisogno di un nome ma vengono descritte attraverso la loro indole o funzione sociale. Troviamo quindi l’uomo seduto, la bambina annoiata, la donna che si abbronza, l’uomo paziente, la nuotatrice, il carpentiere e così via. Queste persone nude o poco vestite se ne stanno sempre da sole, non dialogano mai tra loro, spesso non hanno ricordi. Le loro brevi risposte, quando vengono interrogate, sono astratte ed enigmatiche. Rispetto alla città distopica e totalitaria dove Iris e Leo vivono, l’oasi rappresenta l’utopia, ”ma ci si chiede se essa sia anche desiderabile, o se non sia invece un paradiso artificiale costruito per celare un inferno spersonalizzante, in cui lo sviluppo delle tecniche e delle scienze conduce a un benessere sterile e all’appiattimento dei singoli individui, incapaci di dare una direzione consapevole alle proprie esistenze.”1
La frutta
In Phoenix Springs c’è tanta frutta. In quasi ogni capanna si può vedere della frutta appesa al soffitto a mo’ di pot-pourri. Si scopre presto che esiste proprio un frutteto dove crescono vari frutti. Ma la maggior parte di questi va a male, marcisce. In una capanna in primo piano ci sono addirittura tre barili pieni con frutta in vari stadi di decomposizione. L’artista americana Kathleen Ryan con la sua serie “Bad fruit” ha ricoperto forme di polistirolo di pietre preziose che ricordano le colonie di muffa su frutti sovradimensionati. La frutta marcia simboleggia la decadenza e la muffa oltre a rappresentare l’inevitabile scorrere del tempo, è simbolo della cultura dell’eccesso nel mondo contemporaneo.
La fotografia
Anche se siamo dentro una distopia futuristica c’è una forte divergenza tecnologica/temporale in Phoenix Springs. Quindi non è strano trovare una vecchissima radio a transistor e una capsula di stasi. O ancora un mulino a pietra manuale per macinare la farina e un citofono che analizza il DNA. In più alcuni artefatti sembrano usciti da un film di Cronenberg, realizzati attraverso un’ibridazione tecno-organica. Ma l’oggetto che più assume significato simbolico all’interno della narrazione è la fotografia. Ciò che resta del rapporto tra Iris e Leo è una polaroid che mostra loro due da giovanissimi. “Ogni fotografia è un memento mori. Scattare una fotografia significa partecipare alla mortalità, alla vulnerabilità e alla mutevolezza di un’altra persona (o cosa). Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo.”2
L’acqua
“Spring” in inglese significa sorgente, quindi il punto da dove scaturisce l’acqua. Il gioco è tempestato di acqua: pioggia, lacrime, fiumi, laghetti, stagni, mare, alluvioni. Il ciclo idrologico se ci pensate è un loop, un sistema chiuso.
Iris
Infine Iris, il nome della protagonista. Il fiore viene associato alla sincerità proprio perché in grado di aumentare la comunicazione. D’altronde Iris è una giornalista e comunicare dovrebbe essere un suo pregio. Allora perché ha impiegato così tanto tempo per mettersi sulle tracce del fratello? Perché conservava solo una fotografia di loro due da piccoli? Perché in tutti questi anni non si sono mai messi in contatto? Perché è andata a Phoenix Springs? Eppure Leo l’aveva avvertita. “Iris, he says. Don’t go to Phoenix Springs.”
“[…] mentre l’utopia appare come un auspicio troppo ottimistico per sperare nella sua realizzazione, la distopia si presenta spesso come mera previsione in attesa di un compimento. La pesante eredità del Novecento, i nuovi problemi del XXI secolo e la crisi sempre più profonda dell’umanesimo hanno favorito negli ultimi anni la proliferazione di distopie apocalittiche, terribilmente inquietanti perché terribilmente probabili (o, quantomeno, possibili). Esse possono manifestarsi in forma diversa (totalitaria, catastrofica o cibernetica), ma condividono il senso di urgenza e d’inevitabilità che le ha rese oggetto primario di attenzione non solo da parte delle tradizionali forme di comunicazione letterario-filosofica, ma anche da parte dei nuovi linguaggi estetici e mediatici.”3
Phoenix Springs usa in maniera eccellente sia il linguaggio estetico che mediatico per raccontare una distopia difficilmente incasellabile. Pur usando la struttura specifica del punta e clicca, non si fa irretire dagli elementi nostalgici tipici del genere: interfaccia esplicita, pixel art, citazionismo sfacciato, ironia profusa. Anzi si sveste di tutti questi orpelli di un “glorioso” (?) passato e si mette addosso un elegante e minimale vestito mistico ed enigmatico. Giocando una partita sull’orlo dei significati, abbandona i dettami più “realistici”, o meglio, comprensibili secondo quei rapporti causa-effetto, e sprofonda nelle più insondabili paure umane.