Ci sono nel mondo alcune costanti, immutabili, che derivano dalla sua stessa natura. Solo un ristretto numero di persone conosce la vera natura del mondo, e può usare questo sapere per proteggerlo, o per trarne un vantaggio personale. Questa conoscenza inoltre permette loro di avere un’idea delle altre realtà che esistono al di là del mondo in cui vivono. Sembrano discorsi esoterici e speculativi, invece sono i temi di The Plucky Squire, titolo sviluppato da All Possible Futures, pubblicato da Devolver Digital e rivolto sia a giocatori maturi sia ai giovanissimi—a patto che sappiano bene l’inglese, mancando una traduzione italiana.
La natura del mondo di The Plucky Squire è l’essere, nella finzione del gioco, una serie di libri illustrati per ragazzi, che ha come protagonista un eroe chiamato Jot; e la costante, nelle sue avventure in una terra chiamata Land of Mojo, è naturalmente l’avere sempre la meglio sugli antagonisti. Che razza di eroe sarebbe, altrimenti?
Alcuni maghi sanno di essere personaggi di un libro e, sfortunatamente, tra di loro ce n’è uno malvagio, Humgrump, che trova un modo per buttare Jot fuori dalle pagine dell’albo, in modo da non essere più condannato alla sconfitta e poter prendere il controllo di Land of Mojo. C’è qualcosa di tragico nel suo volersi ribellare al destino apparentemente ineluttabile che gli era stato riservato—qualcosa che potrebbe avvicinare Humgrump a quei cattivi a cui è davvero difficile non voler bene, come il Re Ghiaccio di Adventure Time—ma qui il tema non viene affrontato; è più urgente capire quale sorte attenda l’eroe. Perché Jot scoprirà, suo malgrado, quale altra realtà esiste al di fuori del mondo di cui è protagonista: si tratta della cameretta di un bambino, sulla cui scrivania si trova il libro dal quale è stato espulso.
È un colpo di genio assurdo, questo è chiaro, tanto come allegoria metafisica quanto sotto l’aspetto prettamente videoludico, perché permette di dare fondamenta tematiche a, praticamente, qualsiasi scelta di game design; a partire dal fatto che all’esterno del libro si esplora un ambiente 3D, mentre al suo interno ci si muove in un mondo 2D, piatto come le sue pagine. Non so se sia la prima opera nella storia dei videogiochi a motivare tematicamente il fatto di presentare livelli in due dimensioni; mi limiterò solo a ripetere che tutto ciò ha una profondità semplicemente vertiginosa.
Ci sono poi diversi altri elementi di gameplay che trovano fondamento nel tema del gioco. Ad esempio è naturale trovare, nelle pagine di un libro illustrato, delle righe di testo che raccontano e commentano la storia, e questa caratteristica qui viene sfruttata su più livelli: verso la fine di The Plucky Squire, a livello di voce narrante, ma dire di più sarebbe un imperdonabile spoiler; già nelle prime fasi, invece, a livello di meccaniche, con la possibilità di alterare il mondo di gioco sostituendo, nelle frasi, alcune parole con altre, come già accadeva nel seminale Baba Is You. Jot, inoltre, può risolvere parecchi rompicapi attraverso la manipolazione del libro dall’esterno, e cioè inclinandolo o sfogliandone le pagine.
Meno a fuoco, rispetto ai puzzle, appare la componente action, con combattimenti piatti e ripetitivi che si possono tranquillamente affrontare anche premendo a caso il pulsante con cui si usa la spada; più interessanti sarebbero potuti essere invece i mini-giochi legati sia al protagonista che ai suoi compagni di avventura, vale a dire la maga Violet, il troll delle montagne Thrash e il topino Pip. A ognuno di loro viene data più di un’occasione per prendersi la scena, con modalità di gameplay che ne riflettono i tratti caratterizzanti; con Violet, armata di bacchetta magica, ci troveremo improvvisamente a giocare un clone di Puzzle Bobble, mentre con Thrash e con Pip affronteremo rispettivamente dei mini-giochi ritmici e dei quadri stealth.
A prescindere dalla qualità—altalenante—di queste soluzioni, appare discutibile l’opportunità della loro implementazione. La principale critica che le recensioni uscite nelle ultime settimane hanno mosso al gioco è il fatto di tenere troppo per mano il giocatore, indicandogli costantemente cosa dovrà fare per procedere; è senz’altro vero, ma non l’ho trovato eccessivo né fastidioso, e tantomeno problematico. Il grande difetto che ha Plucky Squire è invece lo stesso che affligge molte produzioni indie degli ultimi anni: l’overdesigning. Il non saper valutare correttamente, cioè, quando una parte evidentemente accessoria, per quanto buona, per quanto utile a spezzare e diversificare il ritmo, si allontana troppo dal cuore dell’esperienza di gioco; quando, insomma, si finisce fuori tema.
Ci sono momenti, in The Plucky Squire, di cui è semplicemente difficile giustificare l’esistenza; e che risultano tanto più strani quanto più si è apprezzato il modo in cui il resto dell’opera è capace di legare il proprio tema al game design; e che diventano ancora più incomprensibili nel momento in cui, ancora nelle ultimissime fasi di gioco, nuove declinazioni delle meccaniche principali—relative alla manipolazione del libro e alle interazioni tra interno ed esterno—vengono introdotte, sfruttate due o tre volte e poi abbandonate. Alla fine, dire che gli sviluppatori di All Possible Futures siano partiti da qualcosa di geniale, quasi esaltante, come concetto, per poi arrivare a un risultato medio nell’esecuzione, sarebbe ingeneroso—per quanto non distante dalla realtà. Di sicuro qui c’era materiale per un classico del catalogo di Devolver Digital, cosa che The Plucky Squire non sembra poter aspirare a essere; ma resta indubbiamente uno dei migliori indie dell’anno.