Durante una lezione che ho tenuto diversi mesi fa ho spiegato brevemente come fare educazione con i videogiochi. Potevo citare tantissimi degli esempi di edutainment, serious games, game-based learning, però, per qualche strana associazione di pensiero, il primo titolo che mi è venuto in mente è stato Valiant Hearts, un videogioco ambientato durante la Grande Guerra prodotto da Ubisoft Montpellier nel 2014.
Quest’anno ricorre l’anniversario dei dieci anni dal suo debutto sulle principali piattaforme videoludiche, ma io ricordo che l’ho giocato solo qualche anno più tardi. Ho giocato a tanti titoli, prima e dopo, ma Valiant Hearts ha un posto speciale nel mio cuore perché non solo è stato il mio primo videogioco sulla guerra (badate bene, non di guerra), ma è stato anche un mezzo per capire e apprendere la storia.
Valiant Hearts mi ha lasciato qualcosa, non solo a livello ludico, ma anche didattico. Ricordo aneddoti, momenti, associazioni che ho formulato mentre giocavo raccogliendo collezionabili, andando avanti e dietro nelle fredde trincee, risolvendo enigmi. È stato per me un punto di svolta e un obiettivo: voglio fare questo nella vita, voglio dimostrare che anche attraverso i videogiochi s’impara.
Ma andiamo con ordine: come avevo detto già nell’articolo su Conscript, la Grande Guerra è un setting meno comune rispetto al secondo conflitto globale per diversi motivi: scarsità delle fonti, minore consapevolezza, tecnologie ancora abbastanza rudimentali; la Prima Guerra Mondiale, a differenza della Seconda, verte più sulla pressione psicologica suii soldati e non a caso è chiamata “guerra di logoramento”. Il secondo conflitto mondiale è più spettacolare—lasciatemi passare il termine, non c’è niente di spettacolare in una guerra. Lo sbarco in Normandia, la Guerra nel Pacifico, il lancio delle bombe atomiche a Hiroshima e Nagasaki sono stati spunto per una miriade di opere.
First-person shooters come Call of Duty: World At War o i wargame strategici (sia videoludici che da tavolo) hanno efficacemente riprodotto gli scontri, le strategie e la diplomazia tra le diverse fazioni; ma titoli come Conscript, 11-11 Memories Retold e Valiant Hearts hanno parlato del terrore del conflitto, dell’emotività dei soldati e delle persone a loro legate.
Valiant Hearts, una volta avviato, si autodefinisce un titolo che è liberamente ispirato dagli eventi che hanno avuto luogo sul fronte occidentale tra il 1914 e il 1918. Ci sono diversi protagonisti: Karl, un tedesco sposato con una ragazza francese, che viene arruolato tra le file tedesche; Emile, genero di Karl, che viene—a sua volta—arruolato nelle truppe francesi. Sono i due protagonisti del gioco, legati da un legame affettivo ma divisi per colori e bandiere. Inoltre, ci sono due comprimari, l’infermiera Anna e Freddie, un legionario americano che, volontariamente, ha scelto di combattere con i soldati d’oltralpe. Le loro strade si toccheranno, intrecceranno, cambieranno, il tutto in un turbinio di emozioni non indifferente per il videogiocatore che non segue passivamente le loro vicende, ma ne è stravolto, preso, coinvolto totalmente.
Attraverso le vicende dei personaggi si fa chiarezza sulle varie fasi della Grande Guerra e sulle sue particolarità; tutto questo viene veicolato non solo attraverso un ottimo level design, ma anche tramite i tantissimi collezionabili sparsi per tutti i livelli. Ogni collezionabile non è fine a sé stesso, non è un oggetto da tenere nell’inventario, bensì è una piccola miniera piena di aneddoti e pillole di storie che coinvolgono tantissimo. Valiant Hearts è riuscita a farmi soffermare sugli eventi, mi ha spinto alla riflessione e ha fatto una cosa bellissima che solo i videogiochi ben fatti riescono a fare, mi ha spinto a prendere un libro una volta posato il joypad sul tavolo. Mi è successo per tanti altri titoli: ripassare la storia americana grazie a Red Dead Redemption o abbandonarmi al piacevole ascolto delle lezioni di Alessandro Barbero dopo aver giocato nella medievale terra di Boemia in Kingdom Come: Deliverance. È bello quando un videogioco ti regala desiderio di conoscenza, oltre alle endorfine rilasciate per il puro divertimento e l’adrenalina dopo un livello sfidante.
Vi faccio un esempio che ricordo ancora oggi. Un collezionabile mostrava una foto vera di alcuni soldati indiani. Lì per lì la cosa mi sembrò molto strana: com’è possibile che ci fossero soldati indiani in un conflitto transalpino? Continuai a leggere il paragrafo e tutto mi sembrò chiarissimo: facevano parte dell’esercito dell’allora vasto Impero Britannico. La cosa mi intrigò così tanto che spensi la console e andai a rileggermi la storia “moderna” del Regno Unito, dalla età vittoriana all’attualità. Fu qualcosa di incredibilmente bello e adesso, quando penso alla Prima Guerra Mondiale, ho stampata in fronte la foto di quei giovani indiani che hanno combattuto una guerra non loro.
Un altro esempio è un collezionabile dedicato alle lunghe calze usate dai militari in trincea, che venivano indossate ai piedi e lungo i calzoni (fin sotto al ginocchio) ed erano progettate per proteggere i soldati da tagli e graffi di vario genere (i ratti proliferavano nelle trincee). Erano però un indumento abbastanza scomodo e poco pratico da indossare, e inoltre con l’acqua diventavano gonfie e pesanti tanto da bloccare la circolazione nelle gambe. Una particolarità che non avrei mai potuto conoscere senza un titolo di questo genere.
Ogni collezionabile ha note e dettagli sul conflitto: alcuni mostrano anche delle vere lettere scritte al tempo e ritrovate; ogni dettaglio fa di Valiant Hearts un piccolo museo interattivo, non sono semplicemente collezionabili messi lì per riempitivo o per allungare la longevità, ma costituiscono parte integrante dell’esperienza ludica perché sono oggetti di apprendimento. Tuttavia, Valiant Hearts non è solo questo. Oltre alle fasi puramente puzzle/platform che rendono solida l’esperienza ludica, ci sono le note lasciate da ogni personaggio dopo i diversi capitoli: ogni “entry” è un’analisi lucida sull’orrore della guerra, sui loro sentimenti, paure e tribolazioni.
L’unione tra le pillole di storia e uno storytelling ben strutturato fa di Valiant Hearts un titolo che non passa mai di moda, neanche dieci anni dopo il suo debutto. Queste particolarità esaltano una realtà bellica che diventa non solo “contesto” ma meta-narrazione, e va a rinforzare quello che è il fattore umano di tutta l’esperienza. Spesso dimentichiamo proprio questo nei videogiochi di guerra: tutto diventa strategico, passivo, strutturato. Valiant Hearts stravolge questa prassi: è poetico, attivo, emotivo.
Posso considerare Valiant Hearts, in virtù di quanto detto, un videogioco educativo. Per questo, il titolo è stato la mia prima scelta quando ho spiegato come è possibile educare attraverso un videogioco. Lo vedrei bene anche mostrato all’interno delle classi scolastiche. Non ha bisogno di un gameplay intenso o di estenuanti battaglie (nonostante ci fossero delle “boss fights”), per essere memorabile. Esiste un sequel, Valiant Hearts: Coming Home, uscito un po’ in sordina e, inizialmente, solo sulla piattaforma videoludica di Netflix; ora è disponibile su tutte le piattaforme.
Ricordo ancora le lacrime che hanno rigato il mio volto ai titoli di coda, dopo emozionanti avvenimenti che—ovviamente—non vi racconterò. Ho provato un dispiacere autentico, non solo verso i personaggi ai quali mi sono affezionata, ma anche per le tante vite che sono state spezzate in quel devastante conflitto, ormai svanite nella nebbia del tempo. I cuori valorosi di Ubisoft ci insegnano a ricordare i fatti storici ma anche le emozioni e le paure delle persone che si trovarono a vivere quegli eventi orribili.