Una PlayStation varcò le soglie della mia abitazione nel 1999. Nel frattempo mi ero innamorato di tutto: Tomb Raider, che vidi a casa di un amico di mio fratello, Metal Gear, che vidi a casa di un compagno di scuola, Oddworld: Abe’s Oddysee, che vidi da mio cugino, stavolta su PC. Ricordo benissimo la sensazione di poter giocare soltanto dagli altri, era come non poter salire sulle giostre, o essere l’unico a non conoscere un segreto, o a non aver fatto un’esperienza importante, ad esempio andare a mare. Ma quando una PlayStation varcò le soglie della mia abitazione, dicevo, le grandi saghe erano già tutte al secondo o terzo episodio. Ecco perché giocai a Resident Evil 2 prima che a Resident Evil, a Crash Bandicoot III prima che a Crash Bandicoot, a Tomb Raider III prima che… insomma ci siamo capiti.
Con il senno di poi sono felice di aver agganciato in corsa i più importanti franchise, perché all’epoca gli sviluppatori sapevano arricchire un’idea già rivoluzionaria. Crash Bandicoot III è chiaramente migliore del capostipite, grazie a bazooka spara-mele, corse pazze sulle moto, e ambientazioni diversissime. Ai primi capitoli ci sono arrivato con il tempo. A volte subito dopo, grazie al fatto che le edizioni platinum per PlayStation mi consentivano di fare un po’ di economia, a volte parecchio dopo, con i saldi di Steam, in un’epoca in cui il mio rapporto con i videogiochi è diventato più maturo e, consentitemi una brutta espressione, “filologico”. Poco a poco ho cominciato a unire i puntini, realizzando improvvisamente che esiste un importante crocevia nella storia di videogiochi: il 1996.
In qualche modo tutto nasce o passa da qui: Tomb Raider, Resident Evil, Super Mario 64, Diablo, Metal Slug, Crash Bandicoot, The Elder Scrolls II: Daggerfall, Mario Kart 64, Revelations: Persona, Quake… diamine, ricordate un anno, tra gli ultimi dieci o quindici, in cui siano usciti così tanti capolavori? Il ‘96 fu una stagione unica, la sola paragonabile al dorato ‘98, ma con qualcosa in più: per la prima volta tutti cominciarono a parlare di personaggi digitali che fino ad allora erano rimasti confinati nell’immaginario dei nerd. Si trattò di una rivoluzione di gameplay, di mercato e culturale, e a noi di Ludica fa molto piacere raccontarvela da tutti e tre questi punti di vista, dato che teniamo in considerazione ogni aspetto del nostro hobby preferito, che poi, dati alla mano, è un gigantesco fenomeno di cui non si parla abbastanza.
Una rivoluzione di gameplay
Nel 1996 siamo nella quinta era delle console, o 32 bit era, o 3D era, chiamatela un po’ come vi pare. Il portato di questa generazione consiste nell’aver tolto gli sviluppatori dall’imbarazzo di dover scegliere tra ambienti profondi ma spogli e ambienti piatti ma dettagliati, più leggeri per le schede grafiche del tempo. La tridimensionalità è una risorsa ma anche una sfida. I game designer sono costretti a ripensare completamente i loro giochi, anche quelli più di successo ma progettati per funzionare in due dimensioni. Chi fa meglio è proprio Nintendo. Sceglie di rivoluzionare il franchise più importante, che appartiene a un genere davvero difficile da convertire alla profondità. Super Mario 64 non è soltanto un platform che già sfrutta a pieno le tre dimensioni, è addirittura un open world. Nel castello della principessa Peach, il giocatore può cazzeggiare all’aria aperta, esercitandosi un po’, o tuffarsi in uno dei quadri, decidendo in che ordine affrontare i livelli. Dispiace parlare contestualmente di Crash Bandicoot, che di per sé è un ottimo gioco, ma in termini di gameplay non è importante quanto Mario 64. Crash si muove su piani ristretti, lasciando sostanzialmente invariata la formula del piattaforme 2D. Invece come mascotte è in grado di tenere testa alla superstar di Nintendo. Il marsupiale della PlayStation ha un grande carisma. Non è romantico e rassicurante come Mario, ma è “cool”. Ho sempre pensato che Mario dovrebbe uscire con Crash per svegliarsi un po’, se non fosse che ogni tanto quest’ultimo è attraversato da lampi di pazzia, per cui non sai mai come potrebbe reagire a un determinato tipo di situazione (magari con un balletto sciroccato).
Credo che ogni grande anno della storia dei videogiochi debba essere benedetto con la fondazione di un genere. Nel 1998 nacque lo stealth game, nel 1996 il survival horror. So che alcuni di voi stanno pensando ad Alone in the Dark del 1992, comunemente considerato il capostipite del terrore digitale, ma permettetemi di non essere d’accordo nel dare ad Infogrames (i francesi di Alone) tutto il merito per quello che sarà il filone di Amnesia e The Evil Within. Il punto è che non credo che Alone in the Dark facesse sul serio con il suo design cartoonesco e i suoi brividi adatti a tutti. Se noi bambini volevamo cagarci addosso, il disco da inserire era quello di Resident Evil. Entrambi i giochi condividono la stessa ispirazione, i film di Romero, ma solo il secondo è stato per me un battesimo del terrore, un rito di iniziazione a quello che i miei genitori non mi lasciavano guardare in TV. Sempre da Romero, gli sviluppatori hanno imparato a costruire le inquadrature, a tratti sghembe, che spezzettano l’azione, o a indurre spavento e tensione nel giocatore. Da Resident Evil in poi, la via del cinema nei videogiochi è aperta: subito dopo sarebbero arrivati i titoli di testa di Metal Gear Solid e la saga di Silent Hill, ispirata alla new wave dell’horror giapponese, quella di Takashi Shimizu (Ju-on), Hideo Nakata (Dark Water) o Shinya Tsukamoto (Tetsuo).
Un nuovo mercato
Un’altra cosa rende Resident Evil memorabile. Capcom produce un videogioco vietato ai minori. È una scelta rischiosa, ma per la prima volta il consumatore non è una figura anonima che risulta dalla media di tutti i gusti e di tutte le età dei videogiocatori del mondo. L’acquirente di Resident Evil ha invece un’identità anagrafica (è adulto) e una predilezione (gli horror). Pensare per un target regala ai game designer più libertà creativa e i videogiochi diventano più vari e ambiziosi. Da questo punto di vista, Lara Croft non è un sasso gettato in uno stagno, è piuttosto Mosè che apre le acque del Mar Rosso separando un’epoca videoludica da un’altra. Quando Toby Gard presenta gli studi per il personaggio di una nuova avventura ambientata tra i reperti archeologici, Jeremy Heath Smith, il capo di Core Design, ha da ridire sul fatto che gli schizzi raffigurino una donna: «A chi potrebbe mai essere utile?».
Smith non è esattamente un campione di femminismo, ma le sue parole nascono da una ragionevole preoccupazione: sarebbe stato chiesto ai videogiocatori di immedesimarsi in un personaggio di sesso opposto. Core Design accetta di correre il rischio e Tomb Raider si rivela un successo, con 7,5 milioni di copie vendute. Stando ai dati di Eidos, il publisher, il 40 per cento dei giocatori iniziali era di sesso femminile. Sorpresa! Lì fuori c’erano milioni di ragazze che non concepivano le console un nemico contro il quale combattere per le attenzioni del fidanzato. Al contrario, volevano essere protagoniste, anche in quanto donne, delle loro avventure digitali.
Tutti parlano di videogiochi
Lara è più di una scommessa vinta. Nata come una fantasia adolescenziale, si trasforma in un’icona. Nel 1997 accompagna gli U2 in concerto, nel 1998 viene nominata ambasciatrice del Regno Unito, e nel 1999, dopo innumerevoli comparse sulle copertine di magazine di tutti i tipi, diventa la testimonial della Lucozade, il drink energetico del capo di Core. Anche in Italia ce ne innamoreremo: Amami Lara, di Eugenio Finardi, e Larasong, dei Litfiba, sono entrambe dedicate alla prosperosa aristocratica inglese. Alcune modelle si sono alternate nei panni di Lara, invertendo il percorso per cui la finzione imita la realtà. Nessuna è rimasta famosa come la controparte digitale, neanche Angelina Jolie (che ha recitato in Lara Croft: Tomb Raider), forse perché con loro non c’è la stessa intimità che il giocatore acquisisce nel prendere il controllo della protagonista del videogioco. Inoltre quelle modelle sono invecchiate, invece Lara è più bella e più giovane di prima, essendo cambiata con i nuovi canoni estetici e la figura della donna nella società.
Miss Croft è il volto più adatto per un anno che segna la svolta non soltanto da un punto di vista tecnico e di mercato. Per la prima volta, un ammasso di poligoni si trasformò in un simbolo tecnologico, politico, erotico, estremamente potente. Il 1996 è importante innanzitutto per questo. Il mondo si è accorto che i videogiochi esistono come un fatto permanente e come un momento formativo per le nuove generazioni. C’è chi li teme, chi li sogna e chi ci vede il futuro: ma tutti, proprio tutti, ne parlano. E se ancora servisse una dimostrazione di tutto ciò, considerate che dall’altra parte del mondo un game designer di Nintendo aveva appena vinto una lunga battaglia: finalmente il suo videogioco era stato lanciato in Giappone per Game Boy. Lo aveva concepito come un modo di preservare il fascino per la natura e i rapporti umani in città gigantesche, che non offrono molte occasioni alle persone per conoscersi e stare insieme. Presto, quel videogioco avrebbe dato vita a un fenomeno mondiale alimentato da manga, anime e un gioco di carte collezionabili. Ma tutto questo è ancora al di là da venire, e Pokemon è soltanto all’inizio, in questo meraviglioso 1996.