Ho un ricordo particolare degli anni delle scuole medie: quando, al termine delle lezioni, noi ragazzini abbandonavamo le aule per tornare finalmente a casa, trovavamo regolarmente due o tre spacciatori nel cortile ad attenderci. No, le droghe non c’entrano nulla. Quegli adolescenti solo un po’ più grandi di noi erano lì per venderci carte da gioco, di solito ordinatamente esposte all’interno di grandi raccoglitori ad anelli. Era il 1995 e Magic: The Gathering era come l’universo: in espansione.
Ideato da Richard Garfield e pubblicato da Wizards of the Coast, Magic: The Gathering ha rappresentato per molti il primo incontro con il mondo dei giochi di carte collezionabili, e non poteva che esercitare un enorme fascino su chi aveva fino ad allora giocato giusto a scopa o a briscola, al massimo a Uno. C’erano creature da evocare e mana da generare, e incantesimi e artefatti, e per i più nerd anche un ricco immaginario fantasy tutto da esplorare, che però non era necessario per appassionarsi al gioco: il cuore del divertimento stava nel costruire il proprio mazzo e nello sfidare i propri amici una partita dopo l’altra.
Partiamo dalla costruzione del mazzo. Con tre nuove espansioni pubblicate ogni anno, per un totale sempre superiore alle 500 nuove carte, acquistare pacchetti e sperare di trovarci dentro qualcosa di utile non era il modo ideale per costruirlo; meglio la vendita al dettaglio, che non avveniva solamente in strada: c’erano interi negozi dedicati, come il Magic Bazaar nel centro di Roma, a due passi dal Colosseo. Meta di innumerevoli pellegrinaggi, questo posto era talmente organizzato da fornire un listino con la descrizione di tutte le carte disponibili in negozio; lo si studiava con la stessa attenzione riservata ai libri di storia e di matematica, alla ricerca della creatura o dell’incantesimo che avrebbe prodotto le migliori sinergie nel mazzo che si stava costruendo. Altrimenti c’erano riviste d’importazione come InQuest, che conteneva la descrizione di ogni carta esistente accompagnata da un rating da uno a cinque pallini, e costituiva una forte motivazione per padroneggiare meglio l’inglese.
Confesso di non essere stato un grande giocatore di Magic: The Gathering. Nel 1997, mentre usciva l’espansione Tempest, avevo già perso quasi tutto il mio interesse, così come molti dei miei amici. Proprio in quel periodo però internet stava arrivando in ogni casa: l’opportunità di sfidare giocatori di tutto il mondo, di ogni livello di esperienza, confrontandosi con mazzi, carte e strategie sempre diverse avrebbe potuto essere imperdibile.
Nel 2002 Wizards of the Coast fece la cosa giusta, lanciando Magic: The Gathering Online. Resta però incredibile come da allora, anziché nuove versioni di quella stessa piattaforma che ne limassero i difetti migliorando l’esperienza di gioco, sia uscita una pletora di altri titoli, fino ad arrivare alla pubblicazione, pochi mesi fa, di Magic: The Gathering Arena, che si propone come la moderna piattaforma definitiva, al fianco del sempre attivo, e sostanzialmente immutato, Magic: The Gathering Online. Per un lunghissimo periodo—forse volontariamente, cioè al fine di preservare il proprio core business, quello non digitale—Wizards of the Coast ha insomma trascurato un campo che avrebbe potuto invece occupare con una proposta di alta qualità, tale da renderlo difficilmente contendibile per qualsiasi competitor. Adesso invece quel campo è pieno di nuovi contendenti.
È stata Blizzard, con il lancio di Hearthstone nel 2014, a porre le basi per quella che negli anni seguenti avrebbe assunto i connotati di una vera e propria ondata di nuovi giochi di carte digitali; e lo ha fatto con una proposta fresca, vivace e soprattutto nativa, vale a dire capace di sfruttare le potenzialità del mezzo videoludico per rappresentare su schermo dinamiche che sul tavolo da gioco sarebbero state affidate ai segnalini se non direttamente alla memoria dei giocatori, e per introdurne altre impossibili anche solo da immaginare, con mazzi di carte reali. Blizzard ha avuto inoltre almeno due intuizioni che avrebbero esercitato un’enorme influenza su molti titoli successivi.
La prima riguarda l’ambientazione: costruire da zero un universo fantasy a cui il pubblico si appassioni non è facilissimo, quindi perché non sfruttarne uno già esistente e amatissimo? Così Blizzard ha legato Hearthstone al mondo di Warcraft; Bathesda nel 2017 ha lanciato The Elder Scrolls: Legends, un gioco di carte collegato alla famosa serie giunta con Skyrim al quinto capitolo; CD Project si è spinta persino oltre quest’anno, dato che Gwent non è altro che una versione autonoma, riveduta e ampliata, del mini-gioco presente in The Witcher 3: Wild Hunt.
L’altra grande intuizione di Blizzard è relativa al business model: Hearthstone è un free-to-play, dunque non ha barriere di ingresso. Inoltre ha un gameplay immediato, adatto anche ai casual player, ma pure una profondità strategica che emerge col tempo e permette di sfruttare diversi archetipi e di adottare tattiche sempre differenti—il classico easy to learn, hard to master. Infine, come abbiamo visto, si tratta di un gioco che risulta familiare a chiunque già conosca il mondo di Warcraft. Queste caratteristiche concorrono a un veloce coinvolgimento di ogni nuovo giocatore, che troverà estremamente facile entrare in Hearthstone e molto più difficile abbandonarlo.
Alcune barriere, meno visibili, si trovano infatti all’uscita. Costruire il proprio mazzo richiede un discreto investimento, sia esso in tempo o in denaro: per ottenere nuove carte è necessario aprire pacchetti che possono essere acquistati con le valute virtuali del gioco—accumulabili vincendo partite, completando missioni o distruggendo carte in eccesso—o con soldi reali. Quale che sia la strada scelta dal giocatore, quella grinding e del crafting, o quella delle microtransazioni, più a lungo si gioca, maggiori saranno il tempo o il denaro vanificati nel momento in cui si decide di smettere.
Vanno inoltre considerati tutti i meccanismi con cui il desiderio di ricompense ulteriori viene alimentato nel giocatore: la costante pubblicazione di nuove espansioni fa in modo che Hearthstone resti perennemente un oggetto parziale; chi voglia cimentarsi a livello competitivo si troverà poi inserito in un sistema di ranking che può essere scalato solamente giocando un elevato numero di partite—stimabili statisticamente—e che oltretutto è diviso in stagioni, per cui ogni mese viene in una certa misura resettato.
Hearthstone è in questo modo diventato un esempio da seguire per tutti, mostrando come il modello delle ricompense e delle microtransazioni tipico di tanti popolari giochi free-to-play per smartphone possa trovare una sua naturale applicazione nei giochi di carte collezionabili digitali. Quasi tutti i giochi usciti negli ultimi anni, come Shadowverse (2016), i già citati The Elder Scrolls: Legends (2017) e Gwent (2018), Eternal (2018), lo stesso Magic: The Gathering Arena (2018), hanno adottato varianti del medesimo business model; e c’è persino chi si è adeguato al trend in corsa, salvo poi pentirsene.
Jean-Michel Vilain, fondatore dello studio di sviluppo Abrakam, ha raccontato a Games Industry come l’uscita di Hearthstone abbia rivoluzionato i piani per il loro gioco di carte, Faeria, trasformato velocemente in un free-to-play al momento del lancio e poi, con un meditato cambio di rotta, convertito nuovamente in un gioco a pagamento, come originariamente previsto. Attualmente in Faeria c’è un set di carte base che si acquista con il gioco e ci sono espansioni da comprare sotto forma di DLC, che aggiungono le nuove carte al pool di quelle che si andranno a sbloccare gratuitamente giocando.
L’unica altra significativa eccezione al modello dominante è il nuovo, attesissimo gioco di Valve: Artifact, realizzato in collaborazione proprio con Richard Garfield, il creatore di Magic: The Gathering, e legato all’universo di DOTA 2, non è un free-to-play e non prevede alcun meccanismo per ottenere carte senza fare acquisti. Offre però una possibilità unica e a suo modo rivoluzionaria: quella di comprare singole carte da altri utenti, grazie all’integrazione con il marketplace di Steam. Al momento del lancio c’era molta attesa per vedere quali sarebbero stati i prezzi, ma pure, specialmente tra gli appassionati di scienze economiche, per assistere alla creazione da zero di un nuovo mercato, a una nuova manifestazione della famosa mano invisibile di Adam Smith.
La sera del 28 novembre mi sono perciò fatto un giro sul forum di Steam, sui canali Discord e su Reddit, per tastare un po’ le reazioni dei giocatori. Ho scoperto che qualcuno aveva preparato uno script capace di calcolare in tempo reale il prezzo della collezione completa delle carte di Artifact qualora le si voglia acquistare al prezzo minimo corrente sul marketplace—nel momento in cui scrivo è di 254 dollari; e ho trovato nella maggior parte dei commenti sentimenti prevalenti di rabbia e insoddisfazione per la mancanza di meccanismi di grinding e crafting che consentano di ottenere carte gratuitamente.
L’inevitabile conseguenza è una media piuttosto bassa di recensioni favorevoli su Steam, e una player base che in appena una settimana si è perlomeno dimezzata:
Tuttavia Artifact è un gioco piuttosto economico rispetto alla concorrenza: per completare la collezione delle carte di Magic: The Gathering Online è consigliabile aprire un mutuo, e Hearthstone si sta rivelando un passatempo sempre più costoso. Inoltre i collezionisti sono una minoranza; la maggior parte dei giocatori vuole semplicemente costruire al meglio il proprio mazzo e l’utilizzo del marketplace per comprare solo le carte che si vogliono avere—proprio come facevamo io e i miei amici quando andavamo al Magic Bazaar—sembra la soluzione migliore possibile.
Probabilmente Valve, oltre all’abitudine al free-to-play da parte dei giocatori di carte digitali, sta pagando anche il ritardo con cui si è andata a inserire in un settore oramai affollato; il momento oltretutto è delicato, con gli sviluppatori di Epic Games, forti di un engine molto usato come Unreal e di gioco estremamente popolare come Fortnite, pronti a lanciare una piattaforma di distribuzione digitale che andrà a fare diretta concorrenza a Steam (e alla quale, con un plot twist degno di una storia di spionaggio industriale, è venuto fuori che ha lavorato negli ultimi anni il creatore di SteamSpy, sito che raccoglie e assembla i dati pubblici dello store di Valve). Una prima risposta è arrivata presto: Counter Strike: Global Offensive è diventato free-to-play e propone una nuova modalità battle royale. Ma è lecito pensare che presto verranno apportati cambiamenti anche ad Artifact: il fallimento di un progetto simile, lanciato in pompa magna e frutto di anni di lavoro, sarebbe davvero clamoroso.