Una donna urla. Apro gli occhi, sono su una nave. L’onda del mare in tempesta ha inclinato la carena, l’acqua sta inondando il ponte. Chi ha gridato? Davanti a me c’è una figura femminile snella, in abito lungo, con i capelli neri, ferma nella rappresentazione della sua morte. L’albero maestro, precipitando, l’ha colpita. Il legno ha piegato il suo esile corpo, spezzando le ossa, strozzando le parole in gola. A parte un ufficiale, nessuno sembra essersi accorto della tragedia. L’equipaggio è impegnato nella lotta contro qualcosa che, in un primo momento, è rimasta nascosta nella notte, oscurata dalle gocce di pioggia sospese a mezz’aria in questo terribile fermo immagine. Mi avvicino alla murata per vedere meglio, alzo lo sguardo e dallo sfondo si stacca un profilo innaturale. È il tentacolo di un kraken. Tutt’intorno ce ne sono altri: strappano il sartiame, stritolano i marinai, si contorcono disegnando forme da incubo.
Sono in un ricordo di Return of the Obra Dinn. Vesto i panni di un perito di una compagnia assicurativa, devo salire su un galeone (l’Obra Dinn, appunto) salpato nel 1802, dato per disperso e riapparso anni dopo al porto di Falmouth. A bordo non c’è nessuno, salvo mucchietti di ossa sparsi sul ponte e sottocoperta. Il mio compito è collegare i volti di ciascuno dei sessanta membri dell’equipaggio ai nomi sul registro dei passeggeri, stabilendo chi è morto e come. Grazie a un orologio da tasca dotato di poteri mistici, posso avvicinarmi ai cadaveri e viaggiare nel tempo fino al momento preciso del trapasso, così da cogliere i dettagli che il passato ha consegnato all’oblio. Mentre osservo la lotta, apparentemente senza speranza, dei marinai contro la bestia immonda, ricordo che la donna, prima di essere schiacciata dal tronco, ha invocato suo marito. So chi è l’uomo (l’ho scoperto esplorando un precedente ricordo) e, se controllo l’elenco dei nominativi, posso identificare la donna dal cognome. Il suo destino, poi, è evidente.
Continuo a passeggiare nel dipinto tridimensionale. La postura dei marinai impegnati nel combattimento esprime la tensione dello scontro, ma insieme all’abbigliamento, ai tratti del volto, al punto della nave in cui si trovano, racconta una storia più grande. Capisco che si tratta di indizi da mandare a memoria per risolvere il mistero del gioco. Le avventure grafiche a cui siamo abituati (Return of the Obra Dinn è un’avventura grafica?) sono più lineari: se non raccogliamo un oggetto, o se non capiamo dove collocarlo, non possiamo andare avanti. Invece Obra Dinn è esplorabile dal primo all’ultimo ricordo e ogni giocatore sceglierà quali elementi rendere significativi per ricostruire il corso degli eventi.
Mentre Obra Dinn finiva nelle liste dei migliori videogiochi dell’anno e faceva man bassa di nomination alle cerimonie di premiazione dedicate al gaming indipendente, internet discuteva di Black Mirror: Bandersnatch. Il dibattito è ruotato attorno alla nozione di racconto interattivo: è il futuro della televisione? Personalmente non sono rimasto impressionato dalla possibilità di scegliere la marca di cereali o la colonna sonora. Mi annovero nella categoria di quelli che rivendicano le specificità del medium cinema, ovvero la possibilità di stare seduti sul divano e osservare passivamente una prospettiva autoriale. Non sono d’accordo con un esperimento che dà all’utente il potere di decidere il corso degli eventi. Ci lamentiamo continuamente dei produttori che deturpano o rinunciano a produrre i film dei registi di culto, ma non dobbiamo dimenticare che il fan service può essere ancora più distruttivo.
Anche in Obra Dinn la narrazione non può andare avanti senza il contributo del giocatore, che deve avvicinare i corpi dei membri dell’equipaggio per sbloccare i capitoli della storia segreta del galeone. Il primo capitolo accessibile è l’ultimo in ordine cronologico, segno che il racconto non seguirà una direzione temporale, ma lascerà al giocatore il compito di fare ordine a posteriori. A differenza che in Bandersnatch, il destino della Obra Dinn è già stato scritto. Possiamo conoscerlo, ma non modificarlo. Il gioco sceglie di interagire con noi in una fase successiva al racconto, quella dell’interpretazione, quando le ipotesi, formulate in stile Cluedo sulla base delle informazioni raccolte, sono verificate in gruppi di tre.
Non ho le competenze per stabilire cosa sia il racconto interattivo, se Bandersnatch sia il futuro della televisione e Obra Dinn quello del videogioco. Però potremmo applicare al primo un parametro che i recensori della “settima arte” non conoscono, il concetto di longevità, che misura quanto un videogioco sia rigiocabile. Quanto è “rigiocabile” (o “rivedibile”) Bandersnatch? Io l’ho accantonato dopo un paio di finali, e non ho la minima voglia di avviare una nuova riproduzione per accedere a scelte diverse. Al contrario, Obra Dinn mi ha tenuto incollato allo schermo per un intero fine settimana, in due sessioni da cinque e sette ore, nella ricerca dell’interpretazione corretta di una storia che avevo già visto e rivisto, ma ogni volta un po’ più a fuoco.
Il primo walkthrough è servito a collocare i pezzi nella struttura di tutte le narrazioni possibili: un primo, un secondo e un terzo atto, separati da due punti di svolta, quello che rompe il quadro di una tranquilla navigazione e quello che lo ricompone nel tragico epilogo. Per risolvere il puzzle dei nomi e delle morti, invece, è stato necessario familiarizzare con i dettagli, cioè gli accenti, l’abbigliamento, la routine quotidiana, il modo di reagire al pericolo dei naviganti. Imparando a conoscerli nel profondo, mi sono affezionato al loro destino. E la vicenda della Obra Dinn, una storia asciutta, in cui tutto ruota attorno a una sola manifestazione orrorifica imponderabile (come nei racconti di Lovercraft e Poe), mi è entrata nelle ossa. Quello di Lucas Pope è un esperimento riuscito e un’esperienza culturale consigliata. Forse resterà un capolavoro isolato, o forse Return of the Obra Dinn è il tassello di un mistero più grande, che mette il giocatore di fronte a una domanda più importante del destino del galeone: come sarà il racconto nel XXI secolo?