Un piccolo gioco indie, unendo racing game e fantascienza con mezzi modesti ma tanto stile e altrettante idee, fornisce diverse indicazioni per il futuro di entrambi i generi. Si tratta di Desert Child, opera prima dello sviluppatore australiano Oscar Brittain. Proveremo a mettere in ordine tutti gli spunti che questo titolo fornisce iniziando a porci alcune domande e a vedere quali risposte Desert Child è capace di suggerire, per poi concludere con una breve intervista all’autore del gioco.
Nuove idee per il futuro dei racing game
Come si fa a innovare un genere come quello dei giochi di guida? Negli ultimi anni una tendenza è stata quella di esplorare la possibilità di trovarsi al volante per piacere o per lavoro, più che per gareggiare in ambito sportivo. Il titolo di riferimento è naturalmente Euro Truck Simulator 2, che racchiude entrambi gli aspetti unendo alla possibilità di fondare e di espandere una compagnia di trasporti il semplice diletto di guidare attraverso i paesaggi di un intero continente, rigorosamente da ammirare dall’interno del proprio cabinato, mentre si percorrono interminabili reti autostradali.
Un titolo simile, per la cui uscita bisognerà aspettare almeno fino 2020, è Transmission, che promette autentiche esperienze di guida vaporwave mentre si effettuano consegne nelle notti d’estate del 1986. Lo sviluppatore stesso lo presenta come un incrocio tra Euro Truck Simulator e Jalopy, ma la prima impressione, ancora migliore, è quella di una versione synthwave e patinata di Crazy Taxi. Un altro gioco in arrivo, probabilmente nel corso del 2019, è Neo Cab, ambientato invece in un futuro in cui ancora le macchine non si guidano da sole e l’umanità non si è liberata della gig economy e di servizi come Uber: così, una corsa dopo l’altra, l’auto diventa un luogo di incontro per storie e vite diverse—un po’ come accadeva in Wheels of Aurelia—in quello che promette di essere, in realtà, soprattutto un gioco narrativo.
Neo Cab sarà dunque molto scritto, ma quando si parla di guida e di futuro si pensa subito a titoli più sportivi come Wipeout o POD, che invece ci dicevano davvero poco del mondo nel quale si svolgevano le corse. In POD ad esempio c’è una colonia umana su un lontano pianeta e un fungo che genera panico e fughe disperate, fino al momento in cui rimane una sola navicella per mettersi in salvo, e vengono organizzate delle corse per assegnare gli ultimi posti rimasti. Ma com’era la vita su quel pianeta? Come mai alcuni hanno avuto la possibilità di scappare prima degli altri? E chi ha avuto la strana idea di mettere in piedi un torneo per riempire l’ultimo mezzo di evacuazione? Forse un’altra strada per il futuro dei giochi di guida potrebbe essere proprio la narrazione di tutto ciò che ruota attorno alle gare dei racing game, in particolar modo quando l’ambientazione è fantascientifica, e il primo suggerimento che ci dà Desert Child è proprio questo; i videogiochi però, pur essendo il medium più indicato a farlo, quando si tratta di affrontare gli scenari che attendono l’umanità raramente vanno fino in fondo.
Il presente è la vecchia fantascienza
Quando l’estate scorsa è uscito un lungo video con 48 minuti di gameplay di Cyberpunk 2077, il nuovo gioco ancora in fase di sviluppo di CD Project Red, ho avuto reazioni contrastanti. L’iniziale sensazione di stupore, dovuta alla ricchezza e alla vivacità del mondo di gioco, è stata presto rimpiazzata dall’impressione di un enorme spreco di potenzialità. Un’intera metropoli virtuale, Night City, è stata creata a beneficio di giocatori a cui il gioco comunque chiederà soprattutto di impugnare tante armi e sparare a molti nemici. Avendo la possibilità di passare alcune ore all’interno di uno scenario politico, economico, tecnologico e sociale inedito e meticolosamente reso su schermo, non ci potremmo aspettare qualcosa di meglio?
Intendiamoci, Cyberpunk 2077 sembra avere tutte le carte in regola per essere un gioco imperdibile, e per dare alla fantascienza quello che Red Dead Redemption 2 ha dato al western: un mondo di gioco vivo e dettagliato, con un livello di immersione che resterà a lungo un punto di riferimento per il settore videoludico. L’ambiente urbano sembra molto affascinante, e alcune trovate—come la tecnologia Braindance—qualora sfruttate nel modo giusto potrebbero fare la differenza; ma sono proprio queste qualità, unite alla particolarità dell’ambientazione, a rendere imperdonabile un gameplay così tradizionale, che in fondo non sembra discostarsi troppo dalle modalità di interazione offerte da titoli come Grand Theft Auto, Watch Dogs o Sleeping Dogs.
Credo che il principale motivo per cui in Cyberpunk 2077 ci sarà molto da sparare vada trovato nella radicata convinzione che l’interattività sia una cattiva compagna della narrazione. Secondo questa corrente di pensiero se la narrazione è la presentazione di una serie di eventi, l’interattività è l’inevitabile sabotaggio del modo in cui si intendevano raccontare quelle vicende; e allora ben vengano in soccorso modalità di gameplay fortemente formalizzate, che hanno già dimostrato di essere utili a mediare e tenere sullo stesso binario le due componenti. Tutto questo però mi sembra vero solo in parte, e credo anzi che stili solitamente considerati—specialmente nei linguaggi del cinema e della letteratura—più difficili, impegnati, sperimentali o d’avanguardia—quelli in cui si fa a meno di una trama solida e si costruisce più volentieri la narrazione per accumulo di sensazioni, impressioni e minuzie quotidiane—possano trovare proprio nell’interattività un alleato ideale; ma quando ci sono da coprire gli esorbitanti costi di una produzione come Cyberpunk 2077 l’industria videoludica tende a non voler scommettere troppo sull’esistenza di un pubblico interessato a modalità di gioco scarsamente rodate e con precedenti dalle vendite poco incoraggianti.
D’altra parte, se anche lo scopo principale di Cyberpunk 2077 fosse quello di immergerci nella quotidianità di Night City, resterebbe da discutere se il cyberpunk sia ancora fantascienza, e non già retrofuturismo. I suoi temi principali sono gli innesti tecnologici nel corpo umano e l’onnipresenza nella società di corporazioni internazionali più ricche e più potenti di qualsiasi stato; ma se pensiamo a Google, Apple, Facebook o Amazon (il cosidetto GAFA), ci accorgiamo di essere già arrivati almeno ai prodromi di quelle visioni. Se pensate che stia esagerando, qui c’è una mappa con i paesi meno ricchi di Jeff Bezos: probabilmente è il risultato di una serie di assunti e di approssimazioni rivedibili, ma restituisce comunque il senso immediato di quello che è il tipo di distribuzione della ricchezza attuale. Come argomenta con efficacia Mark O’Connell in Essere una macchina, poi, l’utilizzo costante che facciamo dello smartphone per le più disparate necessità, e il senso di privazione che sperimentiamo quando è rotto, o scarico, o lo abbiamo dimenticato a casa, ci rendono già, di fatto, dei cyborg.
Insomma, il mondo si evolve velocemente e la nostra immaginazione fatica a tenere il passo. Troppo indaffarati, e giustamente, a vivere, subiamo e assimiliamo il cambiamento dell’esistente senza fare caso a particolari importanti. Nel 2018 il comune di Roma, preoccupato di non ripetere il fiasco o, se vogliamo, lo sfortunato successo di Spelacchio, ha affidato la realizzazione dell’albero di Natale a Netflix. A quanto mi risulta nessuno ha avuto molto da ridire, perché l’albero era bello e il comune ha risparmiato parecchie migliaia di euro. Questo può voler dire solo una cosa: molte delle (sovra)strutture mentali che ci facevano considerare gli anni sponsorizzati di Infinite Jest di David Foster Wallace come il sintomo di una società distopica e indesiderabile sono da tempo venute meno; e se l’albero di Natale firmato Netflix non è stato un problema per nessuno, valutiamo con attenzione se davvero ci teniamo tanto al prossimo 2020, perché potremmo trasformarlo nell’anno dei Cerotti Medicati Tucks, o del Pannolone per Adulti Depend, e farci un sacco di soldi.
Scansiamo subito un possibile equivoco: aver anticipato molti sviluppi reali è un merito del cyberpunk, non certo un difetto. Ma la fantascienza adesso ha la necessità di rinnovarsi e di tornare a immaginare in che tipo di società vivremo nel futuro; e dai videogiochi mi aspetto di avere qualche modesto simulacro di questi mondi venturi, per poterne fare esperienza, così, giusto nel caso in cui Google non risolva il problema della morte.
Una vita da pilota su Marte
Desert Child all’improvviso fa quadrare tutto. Abbiamo visto come ha risposto al nostro quesito iniziale, vale a dire in che modo innovare i giochi di guida: facendo sì che le corse siano solo una porzione del gameplay, per quanto importante. Ora abbiamo una domanda ancora più ambiziosa: come si può raccontare la società del futuro? Anche a partire da un punto di vista molto particolare come quello di un pilota su Marte. Che in Desert Child è un asso in sella alla sua hoverbike—beh, questo dipende dal giocatore—e quando non è in gara se ne va in giro in un mondo dove si mangia quasi solo cibo cinese, si entra nei negozi di dischi, si leggono i giornali, si porta il proprio mezzo nelle officine per farlo riparare, si comprano nuovi pezzi per migliorarne le prestazioni ma, visto che si è sempre al verde, molto spesso i pezzi si rubano anche, e poi si tira su qualche soldo consegnando le pizze per gli italiani o tenendo a bada mandrie di animali e, perché no, si organizzano gare truccate e si depositano i soldi in banca per moltiplicarli con operazioni di hackeraggio.
Desert Child capovolge il ritmo dei racing game, perché per la maggior parte del tempo non saremo alla guida—a scorrimento orizzontale e in stile decisamente arcade—bensì all’interno di questo mondo di gioco incentrato sulla simulazione della vita quotidiana di un pilota che si è trasferito su Marte e coltiva sogni di gloria; inoltre, ci fornisce incidentalmente un modello abbastanza originale per la fantascienza videoludica (e non), incentrato sulla quotidianità, che sarebbe estremamente interessante vedere applicato anche in produzioni di medie e grandi dimensioni. Di tutto questo ho parlato con l’autore del gioco, Oscar Brittain.
Hai più volte citato come fonti di ispirazione Cowboy Bebop, Akira e Redline. Cosa apprezzi di queste opere, e come hanno influenzato Desert Child?
Mi piace il fatto che siano mondi con cui è possibile relazionarsi, e con questo intendo dire che è vero, accadono cose pazzesche, ma la gente comunque va al lavoro, mangia i noodles, indossa i jeans e impreca davanti al proprio computer. Non riesco invece a relazionarmi con roba tipo Blade Runner, o Star Wars, la cui cultura mi risulta del tutto estranea.
Desert Child è un racing game attorno al quale hai costruito un intero mondo. Cosa mi puoi raccontare sull’ambientazione del gioco?
Devi abbandonare la Terra per inseguire il tuo sogno di essere un pilota di hoverbike, ma quando arrivi su Marte ti tocca fare i conti con la realtà della vita in una grande città, dove non hai un soldo. Ci sono molte informazioni sul mondo di gioco nei quotidiani che puoi comprare, che raccontano storie di corruzione politica e di inettitudine aziendale, ma un punto fermo è stato quello di provare a non dipingere un futuro senza speranza in stile cyberpunk. La gente è mediamente felice, e si vive bene.
Un’importante conseguenza è che il ritmo del gioco cambia. Com’è nata l’idea di dare più spazio alla vita quotidiana del pilota, piuttosto che alle corse?
Non so, penso che mi sono sempre piaciuti i dettagli di dating e life simulator, ma non sono sicuro del motivo per cui lo sviluppo di Desert Child è andato in questa direzione. Ma, ad esempio, se guardiamo serie televisive come Medarot o Zoids, la parte migliore è la preparazione dei combattimenti, che fa sembrare più interessanti le brevi scene di azione.
Durante lo sviluppo quale delle due parti è venuta per prima, e in che modo hai pianificato le varie attività della componente simulativa?
Ho iniziato dalle corse, ed è stato un mio amico a incoraggiarmi a espandere il gioco, così ho aggiunto la parte simulativa. Desert Child in un certo senso è venuto fuori da due giochi diversi, uno in cui camminavi in giro per una città collezionando battute per una stand-up comedy, e uno in cui un cacciatore di taglie poteva guadagnare un mucchio di soldi, ma doveva spenderli tutti in riparazioni e rifornimenti. Ho una lista di cose che non sono riuscito a inserire nel gioco, principalmente per via del modo in cui funzionano le inquadrature non era più possibile trovargli spazio.
Sulle inquadrature, e in generale sul magnifico stile visivo, che mi ricorda Another World e Prince of Persia, mi piacerebbe sapere di più.
Sono contento che ti sia piaciuto. Ho iniziato a disegnare e purtroppo non ho molto da dire in merito. La tavolozza di colori l’ho presa dal sequel di Flashback, si intitola Fade To Black e non è un gran gioco, ma ha un’ottima direzione artistica che ancora si difende bene.
Anche le musiche hanno un mood particolare. Come è nata la colonna sonora di Desert Child?
Adoro ascoltare pezzi lo-fi su Youtube e l’ho trovato un accostamento naturale, dato che stavo comunque ascoltando e producendo quel tipo di musica nel mio tempo libero. C’è qualcosa allo stesso tempo nostalgico e futuristico, e funziona nel gioco, dal momento che è in pixel art ma ambientato nel futuro. Volevo fare qualcosa di estraneo al genere cyberpunk e futuristico, senza ricorrere alle solite collaudate sonorità in stile Blade Runner.
Credi anche tu che avremmo bisogno di giochi con la portata e l’ambizione di Cyberpunk 2077, ma con un gameplay molto diverso? Cosa dovrebbe immaginare la fantascienza oggi?
Ho pensato esattamente la stessa cosa! Credo che le cose dovrebbero andare in quella direzione. Voglio dire, se guardi la fantascienza oggi è tutta post-apocalittica, e questo mi fa pensare che la gente cerchi una specie di “reset” per i problemi del mondo. Personalmente credo che il risultato di un lavoro sulle criticità attuali, come l’avidità delle multinazionali, la povertà o l’isolazionismo politico, dovrebbe essere uno scenario complesso, piuttosto che l’annientamento totale e un nuovo inizio. Mi è sempre piaciuto il modo in cui lo ha fatto Futurama, ad esempio parlando di riscaldamento globale.