Il rituale viene officiato di notte. Al riparo dagli sguardi indiscreti. In un crocicchio, all’imbocco di una silenziosa sorgente, a scendere giù nel ventre nero del suolo. Qui, un fiume carsico di significati nascosti e imprevisti si rivela a chi non ha paura di confrontarsi con il profondo. È la terra dei morti e dell’Ombra, quella di cui senti il richiamo.
L’aria è ferma e fredda, fradicia dell’umidore senza luce degli intestini della Terra. Il silenzio viene spezzato solo da qualche occasionale rintocco d’acqua che stilla lungo la roccia, o il battito rarefatto del cuore primigenio del mondo. Le voci dei morti non hanno voce e vestono l’attesa infinita che li attende con abiti macilenti di desolazione. Non è un luogo adatto ai viventi, questo.
La notte eterna accoglie solo le ombre, è ricettacolo di tombe, polvere e sepoltura. Nient’altro. Eppure, tutto quello che inizia altrove è qui che deve tornare, prima o poi. Nessuno ha scampo. Il ritorno nel grembo oscuro della Madre aspetta chiunque e ogni cosa alla fine del suo percorso, universo compreso, come una nuova venuta al mondo. È la sostanza dell’attributo ctonio: il sotterraneo.
Nella mitologia, classica e non, il culto del sotterraneo è la connessione stessa che si ha tra il divino e l’essenza della vita terrestre e riveste un’importanza fondamentale. Perché è dal sottosuolo profondo che veniamo e procediamo. Una chiave di potenza che non ha eguali.
Dite, Ade, Persefone, Ecate, Proserpina, Thanatos, Nyx, Caronte, il Tartaro, lo Stige sono tutti elementi normalmente collocati in questa sfera, più o meno spirituale, degnamente mitologizzata. Grandi classici quali la vicenda di Orfeo e Euridice o il Ratto di Proserpina (di cui ricordiamo in un fiotto d’amore il gruppo scultoreo del Bernini), o l’odissea agli inferi di Inanna, in mitologie ulteriori, sono lì a testimoniare l’importanza assoluta che l’attributo riveste per l’immaginario collettivo.
Così come lo ricordano le entità tremende, divinità terrificanti e assortite che sono state collocate nel fondo della terra, da sempre e per sempre. Tanto per dire di un esempio significativo: Cthulhu, l’amabile tentacolare orrore cosmico assopitosi in attesa di frantumare l’anima del mondo, non è per niente improbabile derivi il suo nome proprio dall’aggettivo ctonio.
Allo stesso modo, se pensiamo ai recessi della terra, evochiamo immediatamente una moltitudine di ferocia tetra e oscura pronta a smangiucchiarci le viscere tra le ombre. Pensiamo alla morte, alle tenebre della mente e del corpo. Nel buio ctonio si muovono i Balrog fuggitivi, gli angeli caduti e reietti, le mostruosità prive di vista e pigmento di The Descent (2005, di N. Marshall), le fognature dove sgambetta il rapace IT e tutto il resto della nera combriccola.
E tuttavia, forte anche di una profondità letterale di tutt’altra portata, il sotterraneo conduce in ambienti ricchi di segni e simboli, se lo si segue fino al fondo del fondo. Una grande caverna dove la vita è un’altra, aliena e quasi insondabile, e tuttavia piena di significato.
Se pensiamo alla variante esclusivamente psicologica, si spalancano interi orizzonti di senso. Jung, e Hillman con lui e con tutte le indubbie differenze del caso, individuano da subito nel sotterraneo la spregiudicata ricchezza dell’inconscio, personale e collettivo. Il luogo dell’anima dove incontrare lo spirito ctonio, il drago, il demonio, la nerezza, dove operare sulla nigredo, come la chiamavano gli alchimisti, e cadere o sfuggire alla malinconia nella lotta con l’Ombra. Un agente psichico e, insieme, il luogo dove quelle forze agiscono.
Una descrizione impareggiabile, chiara e oltremodo pop, godibilissima per il suo puro fascino letterario e narrativo, è data dalla penna della mai troppo compianta Ursula K. Le Guin. In particolare, nel secondo volume della sua saga di Terramare, Le tombe di Atuan. Nel libro seguiamo la vita di Tenar, una giovane donna consacrata come alta sacerdotessa di un culto antico e devoto a entità senza nome. Una religione, appunto, ctonia.
L’autrice, tra le pagine, sposta intelligentemente il focus della storia verso il femminino sacro, e non solo il femminile, e restituisce l’ineguagliata profonda ambiguità che sta al fondo del discorso: non tutto ciò che è sacro è degno d’invocazione, non tutto ciò che è lecito deve essere giusto, non è necessariamente vero che bisogna nutrire l’oscurità e le sue forme. La protagonista, e lo straniero che si è intrufolato nei domini dei suoi dèi, dovranno pagarne il prezzo.
Di questa stessa preghiera laica si fanno carico Kris Piotrowski, creative director di Capybara Games, e i suoi, usciti pochi mesi fa con Below. Progetto a lungo atteso, il cui nome rimanda alla materia centrale del gioco, Below è sulla carta nient’altro che un roguelite a discesa nel sottosuolo, di matrice pseudo-fantasy e impianto semi-procedurale.
Noi giocatori interpretiamo dei signori nessuno che naufragano su un’isola. L’unica via per la “salvezza”, scopriremo presto, sta nello sprofondamento. Attraverso un periglioso e progressivo collasso nelle viscere dell’isola e della sua struttura, ci troveremo dunque al cospetto di pericoli e mostri, trappole e scontri all’arma bianca da cui cercare di uscire interi. Nient’altro.
Intervistato a proposito del lungo, lunghissimo, processo di sviluppo del gioco, Piotrowski si è lasciato andare a paragoni tanto attesi quanto drammatici. I problemi da affrontare durante l’iter, le complicazioni, il suo stato psichico e lo stato del mondo in generale lo hanno spinto a confrontarsi con il progetto fino a scavare una domanda ben precisa: quando arriva il fondo del baratro?
Intorno a questa domanda si sviluppa anche l’esperienza del gioco in sé. Che è brutale, fastidiosa, a tratti macchinosa e noiosa e impalpabile nel suo muro di difficoltà e dolore. Non un Dark Souls, bensì l’esperienza frustrante di una discesa agli inferi. Un cammino da cui hai ben poche possibilità di sfuggire e sai che molto probabilmente ti porterà alla morte.
L’estetica del gioco, superba e minimale, non fa niente per far fuggire la sensazione. La fotografia è quella di un mondo in miniatura. Il nostro avatar è minuscolo e gli spazi, invece, le caverne dentro alle quali ci muoviamo, sono spesse di nebbia, rintocchi, corpi che sgusciano, trappole infami e nugoli di nemici sconosciuti. È lo spazio sotto alla terra che si rivela una minaccia titanica in quanto pura espressione del suo essere. Nuovamente, nient’altro. L’attributo ctonio del mondo svetta con tutta la sua prepotente bellezza.
Noialtri, invece: piccoli, fragili, inutili. Quasi che affrontando Below ci si trovi a dover fare i conti con una questione di dimensioni e scale, da ogni punto di vista. Da una parte, l’intrico eterno, informe e mastodontico del buio sotterraneo e della sua foschia, le cavità nere del cosmo, le schermate inquietanti di field recordings e suoni cavi, dall’altra noi e i nostri personaggi, minuscoli e mortali e soli.
Proprio come nel bel libro di LeGuin, inoltre, chi valica la soglia degli spazi sacri sotterranei deve fare i conti con le sue risorse e la sua forza di volontà. Così i personaggi e così noi. Il protagonista, se disidrato o senza cibo o risorse, muore. Noi, se sprovvisti della voglia di andare avanti, moriremo e falliremo ancora ancora, sino a stancarci.
Lo stesso vale per lo studio che ha creato l’esperienza. Durante il 2016, dopo l’ennesimo rinvio, i Capybara scelsero di comunicare al mondo la loro situazione e i passi successivi in programma. In un comunicato, furono espliciti a riguardo: avevano ancora da scavare. Per questo si ritirarono nell’oscurità, come la carta dei tarocchi dell’Eremita provvede a ricordare. Per covare il futuro bisogna smettere di comunicare con l’esterno.
Non solo. Dimostrando una grande dose di coraggio e attitudine controcorrente, gli sviluppatori hanno infine fabbricato un gioco che non ha paura di sbatterti sul grugno elementi scarsamente ricercati nella frenesia videoludica odierna. Non è difatti improbabile che, oltre alla frustrazione del buio e dello smarrimento, il giocatore si trovi a fare i conti con momenti dove non succede praticamente niente oltre allo stillicidio dei rumori ambientali delle grotte.
È, Below, un gioco contemplativo. Mancano testi, dialoghi, spiegazioni di alcun tipo che vadano oltre l’icona grafica, più simile al pittogramma primitivo, in realtà, che a un indicatore di comandi o gameplay. È, di fatto, un invito alla resistenza del tempo presente e a conoscere se stessi nell’oscurità più nera. Un sacrificio come si era soliti organizzarne per le divinità ctonie, una storia di formazione e psicanalisi notturna nell’Ombra di Jung. È, insomma, il gioco che dovreste provare se non volete essere divorati da chi vi aspetta nell’oscurità.