Che tipo di gioco è Death Stranding? Forse, la domanda da porsi non è a quale genere appartenga bensì a quale autore. La risposta, naturalmente, sarebbe Hideo Kojima. Un nome che, oltre alla mera indicazione anagrafica, rappresenta la linea invisibile (eppure vigorosamente tracciata attraverso una brillante carriera) che collega tutti i punti di quell’enigmatico disegno chiamato Death Stranding.
Hideo Kojima, oltre a essere un nome, è anche uno stile, cioè un modo di fare. Invisibile come la materia oscura che sembra sostanziare le BT, le cosiddette beached things, questo tratto d’autore connette ogni significato al suo significante innescando così un ulteriore scoppio, un another bang, come direbbe la voce narrante: Death Stranding è un’opera di Hideo Kojima. A Hideo Kojima game, un meme.
Un’esplosione di scontatezza, una verità che da lapalissiana si fa però traumatica quando, dal cratere dell’ovvio, emerge un’altra verità meno scontata: un videogioco, se ha un autore, non può avere un genere. Per essere più precisi, anche qualora un videogioco d’autore avesse un genere di riferimento, la personalità del suo autore concorrerebbe a dare di quest’ultimo un’interpretazione quantomeno non canonica.
Naturalmente ogni videogioco è realizzato da qualcuno, ma non necessariamente questo qualcuno è al contempo un autore. Ma chi è, quindi, un autore? Un autore è chi, non limitandosi a concretizzare un progetto, ne condiziona lo sviluppo in maniera significativa attraverso la sua weltanschauung, ossia la sua specifica visione del mondo. Potremmo dire l’impronta della sua mano, per restare in tema con l’immaginario e la simbologia di Death Stranding. In altri termini, un autore è colui che realizza un’opera imprimendo su di essa, nel modo più determinante possibile, la propria peculiare sensibilità di essere umano.
Questa visione d’autore, come ogni personale sensibilità, è caratterizzata a sua volta da specifiche tensioni, ideali e, anche, ossessioni. Sono proprio queste inclinazioni a costituire quel marchio di riconoscibilità per il quale può essere facile, quando non immediato, associare un autore alla sua stessa opera. Un marchio che è formato da tutti gli elementi ricorsivi, da tutti gli stilemi, che proprio ritornando spontaneamente, opera dopo opera, vanno a cristallizzare quel concetto che chiamiamo stile.
Se ci bastano due figure eteree e un’ambientazione metafisica per riconoscere lo stile di Fumito Ueda, l’autore di Ico, per cogliere la mano di Jonathan Blow, l’autore di The Witness, ci è sufficiente individuare il suo personale metodo d’indagine, cervellotico eppure meditativo, con il quale indaga l’esperienza umana.
Quanto più è autoriale un approccio creativo, più diventa difficile replicarlo o falsificarlo, va da sé allora che per calcolare il peso di un autore basta sottrarlo alla sua opera e misurare cosa resta di quest’ultima: Metal Gear Survive, dell’opera di Hideo Kojima, può infatti vantare soltanto il nome e poco altro. Forse è possibile dire qualcosa di simile anche per Vane, titolo indie che pur inseguendo riferimenti alti (tra i quali lo stesso Fumito Ueda) non ha trovato il consenso della critica: attendo di giocarlo per stabilire se, aldilà della scarsa realizzazione tecnica, il gioco abbia qualcosa da dire sul piano stilistico ed estetico.
Tornando alla definizione di autorialità: per quanto sintetica, e forse anche irrispettosa delle molte problematiche legate alla nozione d’autore, la suddetta definizione aiuta a comprendere il motivo per il quale chiedersi a quale genere appartenga Death Stranding sia poco pertinente e poco utile, soprattutto per coloro che cercano un punto di riferimento per inquadrare l’ultima fatica del creatore della Metal Gear Saga.
Nel caso specifico di Hideo Kojima, parliamo di un approccio talmente autoriale da manifestarsi anche al di fuori del videogioco propriamente detto. Proprio per questa ragione, contestare il modo criptico con il quale l’autore ha deciso di introdurci alla sua visione significa pretendere che essa ci appartenga. Paradossalmente, non basta la tracotanza dello stile dell’autore di Death Stranding a rendere lampante il fatto che, nel bene e nel male, la sua impronta autoriale è l’unico punto di riferimento del quale abbiamo veramente bisogno. Se volete capire Death Stranding, cercate allora le impronte del suo stesso autore: come le tracce di mani sul corpo digitale di Norman Reedus, nell’ormai lontano reveal trailer, si trovano ovunque.