La prima cosa che impari dai videogiochi è che puoi morirci da un momento all’altro, e che ogni progresso coincide con l’approssimarsi alla conclusione del gioco a cui stai giocando. Come le parole di Shahrazād nelle Mille e una notte, le vite extra o la possibilità di rigiocare o esplorare all’infinito un mondo digitale servono a rimandare nel tempo quest’idea della fine. Ho l’impressione che prima o poi capiremo che tutto questo ha a che fare con l’affabulazione, col raccontare e ascoltare storie, più che con la tecnologia. Col mito, più che con la nostra abilità col controller o la qualità di una cutscene.
Finito God of War, possiamo riesplorarlo per un’altra ventina di ore. Possiamo sfidare—davvero all’infinito, dato il livello di difficoltà—le Valchirie o le nebbie di Niflheim, mentre continuiamo ad ascoltare le storie dell’onnisciente Mimir. Le storie di Mimir parlano di giganti, divinità particolarmente egotiche e vendicative, incesti, parricidi.
Certo, il mito è inaffidabile: così chi lo racconta. Chi lo racconta molto spesso lo agisce, manipolandolo, manipolando chi lo riceve. Ma funziona in questo modo con tutte le storie: ti portano a credere prima una certa cosa, poi un’altra, poi un’altra ancora. Lo stesso Mimir ha improvvisi vuoti di memoria, si contraddice (verrà il Ragnarǫk, no, c’è già stato), è smentito dai fatti. I fatti danno a Kratos la possibilità di smentire a sua volta Mimir, di ridurlo a quello che è: una testa senza più corpo, allacciata a una scarsella.
“Testa!” tuona Kratos quando vuole zittire Mimir, quando vuole confutare la tesi che il destino non si possa scansare. Eppure Kratos è tutto destino, da molto prima di Midgard. La sua storia è scolpita da sempre dietro un arazzo malconcio, sulle pareti di roccia ambrata del tempio dei Giganti. Questa storia, già trascritta e perciò già tradita, si conclude ancora una volta con la sua morte, che non arriva mai.
Ma com’era cominciata?
Nel sobrio inizio di God of War c’è un albero: va buttato giù a colpi d’ascia. Da quel tronco verranno le fiamme che bruceranno il corpo di Faye. Questa volta le ceneri non imbiancheranno la cute di Kratos, non ne faranno un fantasma, non segneranno a vista la colpa. Con l’albero e il corpo di Faye brucerà il passato recente e remoto (di God of War come di Kratos), ma anche il futuro: a ferro e fuoco verrà messa Midgard e così Yggdrasill, l’albero cosmico. Un altro albero, quello cui è imprigionato Mimir, conoscerà pure il ferro del Leviatano, che un tempo apparteneva alla stessa Faye. Faye: moglie di Kratos, madre di Atreus, gigante, guerriera. Manipolatrice.
Manipolare: lavorare una sostanza plasmabile—il mito come le sostanze informi dentro gli squarci di Midgard e degli altri regni—trattandola con le mani. L’impronta dorata della mano di Faye ha accarezzato il tronco che fa da pira per il suo corpo, e poi ogni passo del cammino di Kratos e Atreus. Quella che all’inizio sembrava una tossica avventura tra maschi, tutta battute di caccia e preparazione alla guerra, è l’esecuzione di un piano messo a punto da una donna. Il suo piano invisibile e già scritto per la pace dei regni. Ma può esserci pace se c’è Kratos in giro?
In punto di morte, Svartáljǫfurr, re degli elfi scuri, ammonisce Kratos e Atreus: avete commesso un grave errore, i cattivi erano gli altri, i bianchi. Tornando nel regno lisergico di Alfheim, dove ora trionfa la luce, Kratos suggerisce ad Atreus di non illudersi: luce e oscurità torneranno a combattere, lo faranno per sempre. È questa la natura degli elfi: è nella permanenza del conflitto, non nella sua fine, l’unico equilibrio possibile. Ma non è così anche per Vanir, Æsir e Giganti, ben oltre il disegno di Faye? Non è così anche per Kratos, da sempre? E non è a questo che mira Loki? La lotta per la lotta, l’impossibilità di mettere un punto, di dire fine una volta per tutte.
Se il mito stesso è ricorsivo, è anche instabile, pronto sempre a collassare in qualcos’altro. Ad ogni variante corrisponde anche una variazione interna, di tono e di registro: dalla tragedia di Kratos si passa con estrema disinvoltura alla comicità dei nani Brok e Sindri, dall’epica degli scontri coi draghi all’assurdo delle prove di Týr o dell’ingresso nella bocca e nello stomaco dell’enorme Serpente del Mondo. Il mito è umano, incoerente: se ha della magia, è nell’accordo di ciò che è apparentemente opposto, inconciliabile.
Incoerente è anche la natura di Atreus/Loki: dove Atreus è l’innocente replicarsi delle rovine di Sparta, Loki è il trickster, astuto, infantile e vendicativo, complice e nemico degli dei. Senza di lui le storie non conoscerebbero innesco né termine. Lo sconosciuto che bussa alla porta di Kratos resterebbe tale, se non fosse per il piano di Faye e l’emergere di Loki in Atreus. Ma lo sconosciuto è Baldur, e porta la guerra nel piccolo rifugio di legno dimenticato tra le nevi. L’unica patria—terra del padre—ancora possibile per Kratos.
Sia Baldur che Atena si manifestano sul ciglio di quella casetta. Oltre la soglia c’è la guerra, ancora una volta. Ma non è possibile restare, non attraversarla. Tra i tanti destini di Kratos c’è anche quello del senza patria, dell’apolide. Kratos è colui che va, che non può non andare: non abbastanza mortale per vivere tra i mortali, non abbastanza dio, o forse troppo, per essere tollerato dagli dei. In nessun posto sulle terre c’è spazio per lui. Ovunque metta piede si ripete la storia del conflitto permanente come unico ordine possibile.
Anche la storia di Kratos e Atreus è fatta di conflitto. Più dei dialoghi raccontano i mugugni del padre e i sospiri del figlio, i gesti mancati, i pochi riusciti. Più porosa che profonda, questa storia ci assorbe: come figli delusi dalla ricerca del divino in un padre troppo umano, come padri per tutte le carezze mancate al figlio che ci ha resi mortali. Di tanto in tanto la comunione, il ritrovarsi: nella paura della morte dell’altro, nella coordinazione perfetta dell’ultimo assalto a Baldur. Baldur, altra storia disperata, che taglia questa droga che è il sacro con l’umano, e per questo sopravvive alla morte dei corpi.
Nella versione di God of War, Baldur è anche il punto in cui si interrompe la scia di sangue che lega genitori e figli. Alla lunga, per Atreus il terrore non sono tanto gli scontri con troll o helwalker quanto l’idea che lui possa fare a Kratos ciò che Kratos ha fatto a Zeus, e che su questo schema si basi l’incedere delle vite di tutti. Anche Baldur è disposto a uccidere Freya: solo non per vivere, ma per poter morire—finalmente.
Freya, Freyja, Frigg. Strega dei boschi, Vanir, sposa di Odino. Persino valchiria o ninfomane. Il suo rapporto con Baldur ci ricorda che il mito pure è poroso, più che profondo. Non fa psicologia, piuttosto è simile alla superficie di un vecchio tavolo di legno su cui le carte vengono continuamente rimescolate, perché ognuno possa giocare le sue. Baldur è il più amato tra gli dei, no: il più temuto. È gioioso, ama far festa: no, è malinconico, masochista, depresso. Ma quale madre non vorrebbe un figlio infinito, amato o temuto che sia? Quale figlio non preferirebbe morire all’istante, pur di godere e soffrire sangue e vino da vivo?
Nell’innocenza fatale del vischio convergono le differenti versioni del mito di Baldur, del dolore di Freya. In God of War è Kratos ad appuntarne una foglia al petto di Atreus, perché la faretra del ragazzo regga meglio. In questo raro gesto d’attenzione paterna Baldur è già ferito a morte. Nella versione tradizionale Baldur è vittima di un trick, di una macchinazione di Loki che ha a che fare, anche qui, con la presunta innocenza del vischio. Ma il senso è lo stesso e sta tutto nella differenza tra le vicende materne di Faye e di Freya: se Faye si separa da Atreus perché, non più protetto, il figlio possa diventare adulto (cioè diventare Loki), Freya è punita per aver troppo e troppo a lungo protetto Baldur. La morte non deve trarre in inganno: l’inganno è la forma di Loki, quella di Baldur è il mito.
Nella forma fissa dell’immortale, Baldur era già morto. Per questo soffriva, disposto a farsi spezzare il collo da Kratos pur di tornare a sentire la vita. La morte può dar vita al mito se significa racconto, quindi cambiamento. Baldur vive, al di là delle versioni della sua vita, nella sua morte, quando cioè attraversa questo cambiamento: del resto è scritto che tornerà nel Ragnarǫk. La stessa storia di God of War e di Kratos, ridotta a puro elenco, ci dice lo stesso.
Generale e Fantasma di Sparta, semidio, mortale, Speranza. Strumento e motore del conflitto, che si illude di poter dominare. A seconda della versione più accreditata del mito, di chi lo canta, lo scrive o ne fa codice per una scatola nera prodotta in Oriente, Kratos è anche difensore e insieme assassino di Olimpi e Titani.
Codice, canone: anche questi vivono solo se stravolti, rielaborati. Fissare un canone equivale a neutralizzarlo.
Cristallizzato, il mito muore, come Baldur finché è fermo nella forma immortale. Il mito si trasmette solo se sottoposto a manipolazione costante, a metamorfosi—specie se la metamorfosi è percorribile a ritroso: nella forma non più reversibile del mezzo uomo e mezzo toro, il Minotauro nasce già sacrificato a Teseo. Zeus invece può tornare dalla forma dell’aquila, del cigno o del serpente, e così salvarsi e creare vita, anche mentre genera perdita e sofferenze. È in groppa al dio in forma di Toro bianco che una figlia di Agenore, principessa di Tiro, abbandona il Vicino Oriente per approdare sulle coste di Creta. Così, rapita da Zeus, l’inconsapevole Europa dà vita a un nuovo continente, a un’altra idea di umanità.
Hack’n’slash, avventura, esplorazione, dramma familiare e universale, commedia divina: God of War si è salvato cambiando, raccontando un’altra storia. Diventando un’altra storia.