Le game jam sono a mio parere una delle migliori iniziative mai create in ambito videoludico. Da una parte permettono a sviluppatori di ogni livello di conoscenza e abilità di mettersi alla prova su un progetto, stimolandone la creatività con il poco tempo a disposizione e una serie di restrizioni più o meno limitanti; dall’altra consentono ai giocatori di provare periodicamente un numero incredibile di nuovi brevissimi giochi e di apprezzarne anche solo per qualche minuto il gameplay e le idee di design. Senza contare l’enorme risorsa rappresentata dal fatto che solitamente di ogni gioco prodotto in una jam è pubblico anche il codice sorgente.
Si organizzano game jam di ogni genere in ogni parte del mondo, spesso in maniera estemporanea, in altri casi seguendo formule più strutturate. La Ludum Dare ad esempio si svolge due volte l’anno, ed è terminata da qualche settimana l’edizione numero 46—la prima del 2020, la prossima sarà a ottobre: in tre giorni, dal 18 al 21 aprile, i partecipanti si sono cimentati nella realizzazione di giochi aderenti al tema prescelto, “keep it alive”; mentre fino alla metà di maggio è stato possibile votare i 4959 progetti completati per eleggere il vincitore della competizione. Ne ho provati alcuni e questa è una mia breve selezione di sei titoli che è possibile giocare direttamente da un qualsiasi browser.
Keep It Alive
Keep It Alive di di Ismael Rodriguez, il gioco vincitore della Ludum Dare 46, è stato uno dei tanti ad adottare il tema della jam come titolo. La premessa da cui parte è il pericoloso risultato dell’incauto esperimento di uno scienziato pazzo, che è riuscito a separare la mente dal proprio corpo; di conseguenza quest’ultimo se ne va in giro per conto suo, tragicamente sprovvisto del minimo senso del pericolo, e alla prima allora non resta altro da fare se non cercare di tenerlo in vita come possibile, vale a dire agendo sull’ambiente circostante per neutralizzare ogni minaccia mortale. Ne esce fuori una specie di Lemmings al singolare, che conserva il geniale approccio indiretto da “platform senza controlli” e lo trasferisce nel contesto di in un atipico puzzle game. Paragonato al capolavoro pubblicato da Psygnosis risulta meno caotico ma anche decisamente più esigente in termini di precisione e di tempismo.
Keep It Ticking
Un titolo che invece punta moltissimo sul caos è Keep It Ticking di Krystian Slusarz, Sarin Suriya e Marcin Kurowski—un team che già con Little Shop of Junk aveva dimostrato di saperlo utilizzare bene sia come fonte di divertimento sia come ingrediente per le meccaniche di gioco. In quel caso si dovevano velocemente servire una serie di clienti con le giuste merci, un po’ come in Wilmot’s Warehouse ma senza alcuna possibilità di mettere in ordine il proprio magazzino—una versione ampliata del gioco è in arrivo il prossimo anno. In Keep It Ticking la lotta contro il tempo riguarda invece una bomba pronta a scoppiare nel giro di appena 10 secondi: occorre recuperare diversi codici per disinnescarla, e l’unico modo per farlo è tornare ripetutamente indietro nel tempo per trarre vantaggio non solo dai nuovi secondi a disposizione, ma anche dalle azioni passate e dalla stessa presenza fisica dei propri sé precedenti, che diventano presto decine e decine. Praticamente è Minit diviso per 6 unito a The Swapper moltiplicabile all’infinito.
Dunder
Dunder di Kyle Olsen, Jonathan Murphy, Dave Lloyd e Louis Meyer ha invece il principale punto di riferimento—molto più lontano nel tempo—in The Incredible Machine, che con la sua estetica clip art appare oggi uno dei giochi meglio capaci di restituirci gli anni Novanta. In quel fortunato puzzle game pubblicato da Sierra occorreva raggiungere l’obiettivo di ogni livello utilizzando oggetti come palloncini, ventilatori, forbici, candele, lenti, palle da bowling e quant’altro, e in maniera simile qui bisogna spianare la strada al nostro avventuriero piazzando gli elementi a disposizione all’interno delle varie stanze da attraversare. La difficoltà e la progressione non sono calibrate alla perfezione, ma per fortuna c’è sempre la possibilità di proseguire saltando il quadro che non si riesce a superare. I puzzle sono tutti molto ben pensati e sanno prima mettere in difficoltà il giocatore, poi renderlo orgoglioso della soluzione trovata. Anche qui l’influenza di Lemmings è evidente, ma il tema di questa Ludum Dare portava inevitabilmente in quella direzione.
Tower Defence of the Heart
Se Lemmings è il gioco, il genere per eccellenza in cui declinare il tema “keep it alive” è il tower defence, e questa è la strada che ha seguito uno sviluppatore indie ben noto come Terry Cavanagh. Le sue opere maggiori sembrano sempre essere ispirate da un “what if”: VVVVVV immaginava come potesse essere un platform se l’abilità di saltare fosse stata sostituita dalla capacità invertire la gravità, mentre Dicey Dungeons appariva ispirato dall’intuizione di rendere trasparente l’effetto dei famigerati random numbers generator—che tanto influenzano le sorti dei giocatori in RPG e roguelike—attraverso l’uso dei dadi. In controtendenza rispetto a tali brillanti trovate, Tower Defence of the Heart (che ha come colonna sonora una versione chiptune di “Total Eclipse of the Heart” di Bonnie Tyler) è un tower defence piuttosto tradizionale, semplice ma impegnativo: per arrestare l’avanzata dei diversi tipi di nemici sarà necessario adottare strategie sempre nuove con le poche difese a disposizione.
DEBUGGER
Un altro approccio naturale seguire, dato il tema della game jam, è quello che mette in discussione la stessa sopravvivenza del luogo in cui si svolge l’azione; e DEBUGGER di Ruari O’Sullivan è ambientato dentro un Game Boy, assalito da nemici che ne prendono di mira le varie componenti. Il giocatore deve fare in fretta a eliminarli, perché ogni volta che gli avversari prenderanno il sopravvento in una certa zona gli effetti riguarderanno quella parte del sistema, e diminuiranno la qualità e la stessa possibilità dell’interazione: se ad essere colpita sarà la batteria il Game Boy inizierà a spegnersi, se verranno bersagliati i pulsanti c’è il rischio di non potersi più muovere in alcune direzioni, mentre un attacco allo schermo provocherà la comparsa di alcune macchie e ridurrà la visibilità dell’area di gioco. Quando il game design deriva quasi automaticamente dal tema del gioco è impossibile non restare ammirati dalla naturalezza con cui il gameplay emerge dalle basi poste e trova presto il suo compimento.
It Lives
La contrapposizione tra bene e male è un topos classico in ogni medium, e quello videoludico non fa eccezione. In realtà agli scopi del gameplay cambia poco vestire i panni del mostro o dell’eroe—si tratta sempre di superare una serie di ostacoli e “battere” il gioco—e diversi titoli, a partire da Dungeon Keeper, hanno sfruttato questo parallelismo per ribaltare i ruoli (promuovendo non tanto il relativismo, quanto la tolleranza e l’empatia: se fossimo noi a mettere paura ai mostri, come accade nel film d’animazione Monsters & Co.?). Dalla Ludum Dare arriva invece It Lives di Riley Neville, in cui col male si deve trovare piuttosto il modo di convivere: il giocatore evoca un mostro e lo deve nutrire, ma la bestia più mangia e più diventa grossa, e più ha fame, e meno sarà propensa ad aspettare di essere condotta verso altro cibo invece di far del giocatore il proprio pasto. Nessun indicatore segnala il sopraggiungere di questa soglia: raramente ho visto creare tanta tensione con così poco—e con tanta eleganza.