Cos’è un videogioco di culto? Cosa sono un libro, un film, un disco di culto? Credo che una buona definizione potrebbe essere questa: è di culto un’opera caratterizzata da un elevato livello qualitativo, tale da renderla accostabile ai capolavori più acclamati, rispetto ai quali però essa si distingue proprio per non aver mai raggiunto un pubblico altrettanto vasto. Chi l’ha conosciuta, allora, fa dell’opera di culto una causa da supportare; e il legame diventa tanto più stretto quanto più risulta evidente la cattiva sorte, quanto più forte avvertiamo l’ingiustizia del destino: aveva tutti i numeri per farcela, eppure non ha ricevuto l’accoglienza che avrebbe meritato. Horace di Paul Helman e Sean Scaplehorn rientra in pieno in questa descrizione: uscito l’estate scorsa, nonostante sia finito in alcune classifiche di fine anno stilate da testate di grande prestigio non è mai diventato una hit da milioni di copie, uno di quei giochi indie che in un dato periodo entrano nel radar—vale a dire nel feed—di tutti.
È spesso vana la ricerca della causa che ha frenato o impedito il pieno successo di un oggetto di culto; nel caso di Horace, però, potremmo azzardare una tara ereditaria. Il personaggio di Horace, un robot a cui i componenti della famiglia che lo ha acquistato assegnano il compito di raccogliere tutti i rifiuti sparsi nella loro casa, è dichiaratamente ispirato al Willy di Jet Set Willy, al quale toccava sistemare la sua abitazione dopo aver dato un party selvaggio. La principale fonte di ispirazione per Horace è dunque a sua volta un titolo di culto: quel gioco, uscito nel 1984, non è infatti mai rimasto nell’immaginario collettivo come altri successi dell’epoca (è dello stesso anno Tetris, quello dopo arrivò Super Mario Bros., quello dopo ancora Out Run); i relativi diritti di proprietà intellettuale sono tuttora materia di disputa legale, e il suo autore, Matthew Smith, è arrivato ormai a odiare Jet Set Willy1Retro Gamer n° 200, pp. 40-43, che in effetti oggi appare un vero campione di sfortuna. Horace però ha anche un altro punto di riferimento.
Ben presto nella storia, infatti, Horace a differenza di Willy abbandona la villa in cui ha sempre vissuto, e si ritrova solo in un mondo totalmente nuovo per lui, ma anche per il giocatore. Qui il pensiero inevitabilmente va al Chance Giardiniere interpretato da Peter Sellers in Oltre il giardino; ma di riferimenti alla cultura pop Horace è pieno, rispecchiando il gusto onnivoro del suo principale creatore, Paul Helman, un veterano del settore che a questo gioco ha dato una forte impronta autoriale: sia con un’impressionante quantità di mini giochi capaci di spiazzare il giocatore e di portare il gameplay in direzioni sempre diverse, sia con la ricercatezza della grafica in pixel art, sia con la progressione dall’andamento squisitamente cinematografico della lunga storia, che si alimenta di cutscene in cui oltretutto i primissimi piani dei personaggi, in virtù dello stile prescelto, diventano quadratoni monocromatici che riempiono buone porzioni di schermo. Di Horace ho amato ognuna di queste cose e molte altre ancora, e ne ho parlato con Paul Helman nell’intervista che segue.
Come hai iniziato a lavorare nel settore videoludico?
Ho voluto realizzare videogiochi per tutta la mia vita, o almeno da quanto a lungo riesco a ricordare. Perciò, precisamente due decenni e mezzo fa (nel 1994 per l’esattezza), mandai il mio curriculum e il mio portfolio al maggior numero possibile di studi di sviluppo di videogiochi. Era più facile dirlo che farlo all’epoca, ma riuscii a trovare vari indirizzi in riviste come CTW ed Edge. Tuttavia, dato che avevo appena compiuto solo 17 anni, quasi tutti mi risposero dicendo che apprezzavano i miei lavori ed ero all’altezza degli standard professionali, ma avevo troppa poca esperienza perché mi prendessero con loro. Ovviamente era frustrante, come avrei potuto accumulare esperienza se nessuno mi dava la possibilità di mostrare ciò che sapevo fare? Alla fine però mi contattò Probe Entertainment per un colloquio e un giorno di prova, che andò talmente bene che mi offrirono un posto di lavoro già alle 11 del mattino! Così, all’inizio del gennaio del 1995, iniziai a lavorare a Die Hard Trilogy.
Cosa conservi di quelle prime esperienze?
Sono essenzialmente un autodidatta, perciò la buona cosa in Probe fu che loro mi lasciarono subito fare, al punto che quando iniziai conoscevo già Deluxe Paint ma avevo poca familiarità con Photoshop, così mi diedero una copia e mi permisero di imparare come creare le texture per Die Hard. Insomma, in sostanza lavorare alla Probe mi ha permesso di sporcarmi le mani e provare qualsiasi cosa volessi, dalla grafica 2D a quella 3D a pillole di game design, più o meno quasi tutti gli aspetti dello sviluppo dei videogiochi. Sono state delle ottime basi su cui costruire la mia carriera.
Ci sono giochi a cui hai lavorato ma che non sono mai usciti, come Lemmings per PlayStation 2 e Boom TV.
Lemmings era praticamente finito quando, per qualche ragione, Sony decise di cancellare il progetto. Avevamo più di 80 livelli, tutti in 2.5D, un sacco di tipi di lemming diversi, sia classici che originali, era la PlayStation 2 ma riuscimmo a trovare il modo per averne davvero tanti a correre in giro. Era letteralmente il frutto di due anni di lavoro, ma questo è il modo in cui spesso vanno le cose nello sviluppo dei videogiochi. La storia della cancellazione di Boom TV invece è molto meno misteriosa. Il gioco fondamentalmente era uno strampalato “game show” con strani personaggi simili a cartoni animati e ambientazioni in stile Disney. Il problema venne fuori perché la premessa del gioco era far esplodere le cose. Di conseguenza avevamo un sacco di luoghi presi dal mondo reale in cui il giocatore doveva recarsi, piazzando bombe in posti strategici con l’obiettivo di distruggere tutto! Nel caso non si capisca ancora dove sto andando a parare, questo accadeva a metà 2001, e avevo appena riprodotto il World Trade Center! Non c’è bisogno di dire che un paio di mesi dopo il progetto venne chiuso, provammo a cambiare qualcosa negli scenari ma, probabilmente a ragione, Sony davvero non aveva intenzione di pubblicare un gioco pieno di bombe.
Hai rivelato più volte (di recente in un AMA su Reddit) quali sono le due principali fonti di ispirazione del gioco; ma mentre appare abbastanza chiaro in che modo Horace possa essere considerato una versione moderna di Jet Set Willy, mi incuriosisce il collegamento con Oltre il giardino. A parte il mettersi per la prima volta alle spalle l’unica casa in cui abbiano mai vissuto, Horace e Chance Giardiniere hanno in comune l’aver ricoperto nella vita un unico ruolo, che non hanno potuto scegliere, e in base al quale si determinano le loro relazioni sociali.
Come dici sia in Horace che in Oltre il giardino i rispettivi protagonisti vengono accolti in modo diverso dalle altre persone, che poi si rapportano con loro in maniera differente in base a chi sono. Entrambi i personaggi sembrano una pagina bianca su cui gli altri possono leggere tratti caratteriali molto diversi. Al tempo stesso, questa personalità da “pagina bianca” gli permette di assumere vari ruoli che all’inizio non ti aspetteresti da loro. Filosoficamente parlando, questo in sostanza rappresenta le maschere che indossiamo per “inserirci”, per “avere successo”, e così via. Inoltre, amo personaggi perdenti che vanno davvero al di là delle proprie possibilità come protagonisti, e ho molto poco interesse per uomini con la barba armati di pistola che vengono “spinti ai limiti” dagli zombie o da qualsiasi altra cosa. Una delle mie protagoniste preferite è Brisby del film Brisby e il segreto di NIMH, una vedova di mezza età, madre di tre figli, che è costretta ad affrontare ogni sorta di pericolo per salvare i suoi topolini. Questa tipologia di “altro” eroe è qualcosa che ci tenevo molto a rappresentare in Horace.
Un altro aspetto che vorrei approfondire riguarda una cosa che hai detto qualche tempo fa intervistato su Eurogamer: “I giochi spesso scelgono un genere e si attengono a quello. […] Io mi chiedo, perché? Perché deve essere o una cosa o l’altra? Prendiamo e mettiamo tutto insieme. Questa è la mia linea di pensiero”. Ho l’impressione che questo abbia a che fare con l’interazione nei videogiochi. Nel medium cinematografico ad esempio una mescolanza di troppi elementi non funzionerebbe, lo spettatore è passivo e la sua sospensione dell’incredulità dipende da una certa linearità visiva, tematica, narrativa; il giocatore invece è attivo e si presta maggiormente a essere distratto, e quindi recepisce meglio improvvisi cambiamenti di direzione, come in Horace. Sotto questo aspetto il linguaggio videoludico forse non si è ancora affrancato da quello filmico.
Sì, sono completamente d’accordo. Quando guarda un film, oppure la televisione, o sta leggendo un libro, il pubblico deve ricevere una spiegazione per ogni cosa, esplicitamente o in altri modi, affinché possa capire le situazioni in cui si trovano i vari personaggi. Invece nei videogiochi puoi lasciare più buchi e permettere al giocatore di scoprire cosa sta accadendo sperimentando con il gameplay. Questo permette ogni sorta di cambiamento, perché credo che i giocatori siano più abituati a lasciare che sia il gameplay a parlare. Perciò, venendo ai tanti cambiamenti di gameplay e ai mini giochi in Horace, spesso ho preferito non dare alcuna istruzione, né indicare i comandi, sapendo che la prima cosa che avrebbe fatto il giocatore sarebbe stata trovare il modo di giocare. Praticamente chiunque sa come funziona un gioco di guida o uno shooter in prima persona, per cui aveva più senso lasciare che il giocatore andasse avanti da solo. Anche la meccanica principale in cui si inverte la gravità non ha istruzioni, solamente una serie di stanze che il giocatore impara ad attraversare man mano che comprende il modo in cui funzionano le scarpe in Horace.
Di quale delle meccaniche di gioco di Horace sei più soddisfatto?
La meccanica innescata dalle scarpe che permettono l’inversione della gravità è stata già usata altrove nei videogiochi, ma volevo portarla il più lontano possibile. Si può dire che sia ancora come l’avevo progettata all’inizio, Sean in sostanza l’ha riprogrammata da capo ma tutto funziona esattamente come nella demo originale che avevo realizzato. Sono anche molto soddisfatto dei vari mini giochi musicali, ho suonato la batteria per più di 25 anni perciò volevo che una buona parte del gameplay fosse basata su variazioni di ritmo e azioni di ripetizione. Anche qui sono davvero contento di come pur non essendoci praticamente istruzioni quasi tutti i giocatori capiscano in che modo giocare nel giro di pochi secondi.
Mi piacerebbe sapere se c’è una regola di game design a cui tieni particolarmente, e come l’hai applicata in Horace.
In realtà non so se è un vecchio adagio o se l’ho reso tale io, ma mi capita spesso di pensare a questa frase, “nulla invecchia peggio della grafica dei giochi tripla A”. Per cui personalmente preferisco una pixel art ben fatta a scenari composti da milioni, miliardi, triliardi di poligoni. A essere onesti, voglio che i miei giochi non siano neanche lontanamente “realistici”, ho visto abbastanza realtà nel mondo, e non sempre è così bella. Credo piuttosto che un mondo semplice e ben progettato, specialmente in pixel art, possa apparire più coerente e uniforme di tanti giochi “realistici”. Inoltre posso disegnare la pixel art molto velocemente, e dato che volevo che Horace fosse più cinematografico possibile avevo deciso di produrre molte animazioni e ambientazioni in breve tempo. Questo è il motivo per cui tutto quanto nel gioco ha una sola risoluzione, e spiega anche perché nei primi piani le cose sono molto “quadrettose”.
Definiresti Horace un gioco di culto?
Non saprei, da una parte Horace è finito in parecchie classifiche di fine anno, compresa quella del Guardian, e tra le menzioni d’onore del New Yorker, ma è vero pure che non ha venduto tantissime copie. Quando mi ha intervistato per Eurogamer, Martin Robinson è stato tanto gentile da dirmi che pensava che Horace sarebbe stato considerato un classico nel giro di vent’anni, ma come gli ho risposto allora, questo non mi pagherà il mutuo! Sono abbastanza felice di essere l’autore di un gioco di culto comunque, di solito preferisco i film e i dischi “strani”. Credo che molte di queste influenze siano finite in Horace, portandomi a fare un gioco di culto senza volerlo. È divertente essere il “segreto” che alcune persone davvero capiscono e “afferrano”, è fantastico specialmente vedere gente su Twitch che lo gioca per la prima volta senza conoscerlo, e dopo le prime ore di gioco scopre quanto è vasto. Di certo mi piacerebbe che il gioco vendesse milioni di copie, così potrei comprarmi una casa dorata o qualsiasi altra cosa, ma il consenso della critica è comunque prezioso.
Lo sviluppo di Horace ha richiesto sette anni. Quali difficoltà hai incontrato?
Probabilmente direi “restare sano di mente”! Mi risulta molto facile lavorare senza sosta, il che spesso mi portava a restare seduto alla mia scrivania per 20 ore e passa, ma purtroppo questo ha avuto i suoi effetti sulla mia salute mentale, dato che a malapena uscivo di casa o incontravo qualcuno. Col senno di poi è piuttosto ovvio che mi ero caricato di troppo lavoro, già era eccessivo provare a occuparmi di grafica, design, cutscene, musica etc. da solo, figurarsi combinare tutte queste cose in un videogioco. Tutto ciò non mi impedirà di provare a fare esattamente la stessa cosa con il mio prossimo progetto!
Quale sarà il tuo prossimo progetto? Sarà un seguito di Horace?
Ho in programma sia un altro gioco che un seguito di Horace! Non ho ancora deciso su quale lavorare però, una parte di me vuole prendersi una pausa dal “mondo di Horace”, ma è anche vero che ormai sento di essere legato a quei personaggi.