Il mondo di Baba Is You è fatto di oggetti. Chiavi, porte, statue, teschi, alberi… ma anche prati, pareti, blocchi di ghiaccio, fiumi di lava e nastri trasportatori scomponibili in singole unità solide, liquide o intangibili, ferme o in movimento, bollenti o gelide; e infine la stessa Baba che, come Keke o Me, altro non è che uno di questi oggetti, legata in maniera provvisoria—ed è qui che la cosa si fa interessante—al soggetto giocante. Perché Baba Is You è un gioco, un puzzle game per la precisione. Creato nel 2019 dal finlandese Arvi Teikari (che abbiamo intervistato su queste pagine) è stato subito ricoperto di premi ed elogi.
“Baba is you”. Baba sei tu. Nello spazio bidimensionale del gioco queste parole esistono in quanto oggetti manipolabili al pari degli altri. Combinate fra loro, le parole formano delle frasi che determinano le qualità e facoltà delle cose. Qui tocca essere precisi, perché si sta parlando di grammatica: le parole in questione possono essere sostantivi (come “Baba” o “stella”), operatori (come “è” o “contiene”) e infine proprietà (come “chiuso” o “scioglievole”). Questi elementi compongono un linguaggio formale molto semplice e non dissimile da quello che parliamo normalmente, il cosiddetto linguaggio naturale. Tuttavia il linguaggio del gioco è concreto e ha effetti immediati sulla realtà. “Baba is you” non è una constatazione bensì un’istruzione.
Ciò vuol dire che nulla mi impedisce di impersonare una pianta, o perché no, un intero edificio, oppure—e qui mi sale un po’ d’ansia—tutto ciò che è vuoto nel livello. O ancora, posso assumere—e qui l’ansia si fa panico—le sembianze delle stesse parole che dettano le regole. E in quanto pianta, edificio, vuoto o testo, riuscirò magari a toccare la bandierina che corrisponde alla vittoria; ammesso che vi sia una frase che ne dichiari la corrispondenza, perché anche un teschio o una medusa possono essere resi benigni.
Ovviamente le emozioni che descrivo sono fugaci e tutt’altro che spiacevoli. Anzi, sono ciò che rende il gioco affascinante: per procedere sono necessarie delle piccole destabilizzazioni della realtà. A prenderle sul serio, ovvero a coglierle prima che intervenga la ragione, queste destabilizzazioni fanno un po’ paura. C’è qualcosa di spaventoso nella possibilità di ridefinire la struttura, e dunque il senso, del mondo in cui si abita, tramutando il bene in male e viceversa. “Panico” mi pare la parola giusta. Il panico può essere inteso come uno stato d’animo che lega sgomento, stupore e pieno coinvolgimento verso ciò che ci circonda. Panico è ciò che si prova quando si sente che tutto è simile a tutto e che ogni cosa può diventarne un’altra.
La totalità è un tema costante nella storia dei videogiochi. Generalmente essa è legata a un desiderio di realismo che a volte si fa smania: muovere qualsiasi muscolo, entrare in ogni casa, guidare ogni veicolo, adoperare qualsiasi artefatto, dialogare con ciascun personaggio. Nella simulazione videoludica è reale ciò con cui si può interagire, la figura che funzionalmente si stacca dallo sfondo. Se esiste una tradizione di videogiochi del tutto, ovvero di giochi che si cimentano con la possibilità di interagire con ogni oggetto, Everything ne fa parte a pieno titolo.
Pubblicato nel 2017 da David OReilly (autore del celebre Mountain) si tratta di un simulation game in cui è possibile incarnare qualsiasi cosa a qualsiasi scala: una galassia, un atomo, una particella di polvere, una fetta di pizza, una piattaforma petrolifera, una squama di pesce, un branco di leoni delle nevi… Ogni cosa nel gioco è in grado di pensare e comunicare. Nuovi pensieri, più o meno intellegibili, emergono dall’ascolto di quelli degli altri esseri.
Il gioco non ha un preciso obiettivo oltre a quello di collezionare entità con cui creare un bond e reperire le clip audio del filosofo Alan Watts, esperto di buddismo e taoismo, sull’interdipendenza di ogni entità presente nel cosmo, esseri umani compresi. Il messaggio di fondo è questo: ogni cosa è collegata, ogni cosa è del mondo piuttosto che nel mondo.
Nessuna destabilizzazione questa volta. Nessun senso di ansia o panico. Il gioco è calmo e confortante. Oltre alla grafica elementare e alle stravaganti movenze degli oggetti, forse ciò lo si deve al fatto che si tratta di una simulazione tutto sommato tradizionale. Sul debole senso di interconnessione e di totalità prevalgono l’identificazione individuale e la variabilità del personaggio. In Everything non si può essere davvero tutto bensì ciascuna cosa, o al massimo un insieme di esse. Inoltre ciascuna cosa resta fedele a se stessa perché le sue qualità, a parte le dimensioni, rimangono inalterate.
Questo ci riporta a Baba Is You e al problema della realtà videoludica e del suo rapporto col tutto. Il gioco non fa sconti: qui la totalità è travolgente, faticosamente pensabile e spesso ingestibile. Baba Is You si può considerare un incrocio tra un puzzle game e un level maker. E cosa c’è di più reale in senso videoludico, o addirittura di più vero, del toolkit che serve a creare un gioco? Un armamentario che permette di commettere errori rivelatori: Baba Is You fa del glitch (il territorio che diventa soggetto, lo sfondo che si fa figura) una meccanica di gioco. Questa volta il messaggio di fondo è un altro: ogni cosa è uno sprite.
Se il panico è il genere di turbamento che caratterizza l’atto del giocare, ce n’è un altro che scaturisce quando il gioco si interrompe. Nei videogiochi è normale morire, ovvero assistere alla sconfitta del personaggio che si controlla. In Baba Is You la morte videoludica può assumere una forma diversa. Morire può voler dire che il blocco “tu” sia staccato dagli altri blocchi linguistici (“Baba”, “granchio”) e dunque da ciò che questi oggetti rappresentano. La morte coincide con la rottura del link che lega il giocatore alla sintassi e perciò al mondo del gioco. Quando si “muore” il mondo resta lì, persistente e logico, mentre l’io giocante scompare, invisibile all’algoritmo. Allora più che di morte dovremmo parlare di annientamento o annichilimento. Baba Is You permette di provare, sempre per un attimo, uno sgomento radicale: lo spavento supremo della morte come sparizione dal mondo. Questo nulla negativo accompagna il timore panico del poter essere tutto.
In verità, ciò che permette al giocatore di esperire la persistenza del mondo anche dopo la sua scomparsa è il fatto che questi non controlla soltanto i movimenti degli oggetti a cui è legato, ma anche il tempo, che può essere riavvolto. Come lo spazio, il tempo di Baba Is You è un tempo discreto: è una sequenza di passi. Persino dopo la scomparsa del giocatore, il tempo può continuare a scorrere, sia indietro che in avanti. Ciò lo si deduce, per esempio, da un nastro trasportatore ancora in funzione o da un robot collegato a una proprietà (“muove”) che lo costringe a procedere senza sosta. È dunque il tempo la forza primigenia che attiva il gioco? È il tempo ciò che infonde vitalità in Baba Is You?
Interrompo la partita per articolare queste intuizioni. Le reazioni emotive già si affievoliscono e sento che presto scompariranno del tutto. Butto giù qualche riga e poi decido di fare una passeggiata per ripercorrere mentalmente gli step di un livello particolarmente difficile. Nelle piastrelle del marciapiede ravviso la griglia bidimensionale del gioco e immagino di inciampare nei blocchi linguistici che mi legano a questo corpo e a questo mondo. Provo a concepirmi come un lago o un cumulo di terra. Faticosamente tento di dissociarmi da ogni cosa fisica. Immagino poi il Giocatore. Egli è alle prese con delle associazioni provvisorie, funzionali a finalità oscure a tutti e a tutto eccetto che a lui. Alzo lo sguardo, in cerca di una bandierina.