Nata per contrastare nepotismo, lobbismo, clientelismo e discriminazioni varie, fatta propria di sicuro in buona fede da molta gente a cui non dispiacerebbe un mondo di pari opportunità per tutti, la meritocrazia ha completamente fallito il suo compito, o forse si è semplicemente rivelata per ciò che è sempre stata: una sbornia ideologica collettiva. I più accorti ne avevano dubitato fin dal principio, perché si può abbracciare l’idea di dare a ciascuno secondo il suo merito solo se si è convinti di avere a che fare con un parametro misurabile con precisione e secondo criteri ampiamente condivisi.
Il merito invece è un contenitore vuoto, una parola senza significato, un tappeto sotto cui nascondere tutto ciò che in teoria avrebbe dovuto smettere di contare: il luogo di nascita, la disponibilità economica, i contatti e gli agganci giusti, e via dicendo. Di conseguenza il concetto è diventato micidiale non tanto per conservare lo status quo, che si perpetuava benissimo già da solo, quanto per giustificarlo—anche perché alla meritocrazia intesa così, per funzionare, è sufficiente fare esattamente l’opposto del diavolo: convincere tutti della sua esistenza. Tanto basta affinché, grazie ad essa, i privilegiati possano riconoscere nei vantaggi e nelle posizioni acquisite i riconoscimenti che semplicemente gli spettavano, e i disagiati siano in grado di trovare una spiegazione per la loro emarginazione, capace oltretutto di colpevolizzarli—non sono stati bravi abbastanza, ecco tutto.
Fortunatamente i suoi giorni migliori la meritocrazia li ha ormai alle spalle, criticata com’è oggi da più parti; per sfortuna ha avuto comunque alcuni decenni a disposizione per fare danni in abbondanza. Lo si vede bene anche nei videogiochi, e in particolar modo nei titoli multi-player, soprattutto quelli più competitivi. I giocatori sono a dir poco ossessionati dall’idea che il gioco debba essere perfettamente bilanciato, e inseguono gli sviluppatori su forum e social network reclamando buff e nerf per qualsiasi cosa sia, a loro giudizio, troppo debole o troppo forte, e dunque inutile oppure capace di rompere gli equilibri. L’illusione naturalmente è che, una volta adottati gli aggiustamenti e gli accorgimenti del caso, il gioco potrà dare a tutti pari opportunità, premiando solo le abilità, le skill—insomma, il merito.
Gli sviluppatori dal canto loro hanno sempre incoraggiato o se non altro assecondato questo indirizzo, restando costantemente al lavoro sui loro giochi per dare maggiore equilibrio a qualsiasi elemento del gameplay, senza però mai riuscire a venirne a capo: una mappa di Counter-Strike a qualcuno sembrerà comunque troppo sbilanciata a favore dei terroristi o degli anti-terroristi, e una fazione di Gwent sarà in ogni caso giudicata da qualcun altro troppo forte rispetto alle altre. A volte lo squilibrio è reale, altre volte solamente percepito, ma in ogni caso nemmeno nei videogiochi la meritocrazia funziona; finisce anzi con il consolidare come sempre lo status quo, a cui corrisponde, in ambito videoludico, il vantaggio dei giocatori che hanno più tempo libero per giocare e dunque più ore di gioco, o sono stati early-adopter, o hanno accumulato maggiore esperienza con altri titoli dello stesso tipo.
Se dare pari opportunità ai membri di una comunità nel mondo reale è una questione complessa, esiste invece una soluzione efficace per farlo con i giocatori, ed è tutto il contrario della meritocrazia: basta premiare la fortuna almeno quanto l’abilità, se non di più. Non si capisce allora il motivo per cui i videogiochi facciano tanto affidamento sulla meritocrazia, né perché la fortuna venga giudicata tanto severamente. “Gwent is a card game of choices and consequences, where skill, not luck, is your greatest weapon”, recita ad esempio la presentazione ufficiale del gioco di CD Project Red. Si può concordare o meno, ma non si capisce esattamente dove starebbe il vantaggio. Premiare le skill appare comunque un’opzione quasi obbligata, perché sono sempre pronte critiche bestiali da rivolgere agli sviluppatori che facessero una scelta diversa. Un esempio di una certa caratura è Mario Kart, a proposito del quale è interessante quanto scrive Cristopher A. Paul in un libro la cui tesi è piuttosto chiara fin dal titolo: The Toxic Meritocracy of Video Games. Non essendo mai stato pubblicato in Italia, ne traduco io qui un passaggio:
Mario Kart è un titolo abbastanza controverso tra i giocatori più accaniti, principalmente per via dei cubi che solitamente danno ai giocatori un oggetto di qualità inversamente proporzionale alla loro posizione nella gara. Il più famigerato di questi oggetti è forse il “guscio blu”, conosciuto anche come “guscio spinoso”. Fa la sua prima apparizione in Mario Kart 64 e ha come bersaglio chi si trova in testa, fermandolo e riducendone il vantaggio. Il guscio blu inoltre viene dato solo a chi, nel momento in cui apre il cubo, si trova in ultima posizione. Chris Kohler, su Wired, applica le istanze meritocratiche al guscio blu scrivendo: «è risaputo che l’oggetto peggiore e più stupido di Mario Kart è il guscio blu. Quando lo lanci vola sopra il tracciato, raggiungendo il pilota in prima posizione e abbattendosi su di lui facendolo esplodere e rallentandolo considerevolmente. Ciò non procura alcun vantaggio alla persona che lancia il guscio blu, che si troverà comunque in ultima posizione. Aiuterà invece molto chi in quel momento è secondo, perché gli darà la possibilità di diventare primo».
L’obiezione di Kohler ruota attorno all’idea che un oggetto come il guscio blu permette ai giocatori meno abili di punire coloro che si trovano in testa. Una lista di rimostranze riguardo Mario Kart vede il guscio blu come la parte del gioco più discutibile in assoluto, definita «socialismo applicato», «il male», e «ciò che rende Mario Kart Wii un gioco basato sulla fortuna». Mario Kart però è stato progettato secondo un approccio diverso alle abilità e al merito. Uno dei principali designer della serie, Hideki Konno, riferisce che gli viene richiesta regolarmente una versione del gioco senza oggetti, ma secondo lui sono proprio loro a caratterizzare la serie, e il guscio blu serve a tenere in gara tutti fino alla fine della corsa. Konno fa riferimento a un diverso tipo di bilanciamento, mirato a rendere il gioco competitivo e interessante per tutti, piuttosto che ad assicurarsi che vinca il più meritevole.
Questa era la situazione fino a poco tempo fa: una meritocrazia talmente radicata da far per così dire rivoltare i suoi schiavi contro chi voleva liberarli dalle loro stesse catene. Adesso però c’è un nuovo gioco che utilizza “un approccio diverso alle abilità e al merito”, e sta riscuotendo un enorme successo: si tratta di Fall Guys, due milioni di copie vendute su Steam in una settimana appena—e una quantità di giocatori ancora maggiore, considerato che il titolo è gratuito su PlayStation 4 per gli iscritti a PS Plus—tanto da mettere in seria difficoltà i server, inizialmente calibrati su aspettative decisamente più modeste. Fall Guys, di cui avevamo già parlato qualche tempo fa a proposito delle formule più innovative per i nuovi battle-royale, si ispira a show televisivi come Takeshi’s Castle—o, volendo, come Giochi senza frontiere—in cui un gruppo di concorrenti, al massimo 60, una prova dopo l’altra viene ridotto di numero, a suon di eliminazioni, finché è possibile incoronare un unico vincitore.
Le prove sono molto diverse tra loro. A volte bisogna semplicemente arrivare primi, altre volte i giocatori vengono divisi in squadre e devono raggiungere alcuni obiettivi, altre ancora la gara è di resistenza. Le costanti sono solamente due: tutti gli stage sono coloratissimi e pieni di insidie, e in ogni caso la fortuna, il caso e il suo anagramma, il caos, hanno un ruolo preponderante. Tra finte porte che non si aprono e labirintici percorsi invisibili di piastrelle che non fanno cadere nel vuoto, in Fall Guys qualche furbizia (e qualche cattiveria) è concessa, ma l’unico vero merito è avere la buona sorte dalla propria parte—ed è divertente. Fun è la parola che ricorre più spesso nei commenti e negli articoli apparsi in queste prime settimane di vita del gioco; il divertimento è di certo una sensazione soggettiva, così come pure l’impressione di avere sempre una possibilità di vincere, o almeno di poter restare o rientrare in gara fino all’ultimo, in ogni round, ma sono pronto a scommettere che questa sia l’esperienza di quasi tutti i giocatori di Fall Guys, e sia anche il segreto del suo successo, al di là dell’adorabile estetica e di tutti i bellissimi costumini sbloccabili.
Non so se il genere battle-royale ne uscirà cambiato, o se il successo di Fall Guys sarà in grado di dare il colpo di grazia definitivo alla meritocrazia nei videogiochi, riabilitando la fortuna agli occhi degli appassionati dei titoli multi-player. Non so nemmeno se il gameplay del gioco sviluppato da Mediatonic riuscirà a non stancare nel lungo periodo, né se la sua playerbase continuerà ad avere numeri così importanti, anche se un lancio del genere fa ben sperare. Di sicuro me lo auguro, perché Fall Guys è un gioco con una missione da compiere.