Spesso sono le persone che frequentiamo ed abbiamo intorno, le cose che ci piacciono, le tradizioni e il folklore del nostro popolo a riempire i cassetti della nostra personalità. Unici come sono, Tove e Lars si ritrovano a vivere in Röki di Polygon Treehouse un’avventura entusiasmante che rafforza il loro legame: sorella e fratello, orfani di madre, sono costretti ad affrontare un mondo di magia nera completamente soli e separati, dopo che un enorme mostro distrugge la loro casa e rapisce Lars. Tove è amorevole, attenta, fa di tutto per non far sentire a suo fratello il vuoto dell’assenza della madre; ed è ostinatamente tenace nella ricerca di Lars, anche quando incontra creature che le fanno dubitare che ciò che vede sia reale e non un sogno. Essendo un punta-e-clicca, l’unico modo per affrontare questi nemici immortali è tramite la nostra astuzia, con la risoluzione di puzzle e la combinazione di vari strumenti nel nostro inventario; Tove è minuziosa e curiosa, attenta agli oggetti sul suo cammino, ci richiede un’osservazione con un intenso backtracking e tocca a noi sfruttare tutti gli items al meglio per poter avanzare nella narrazione—una narrazione a metà tra fiaba ed incubo con espedienti surreali, in cui siamo calati nel personale processo di elaborazione dei dolorosi lutti della protagonista.
Röki si inserisce in modo pratico nello scenario di gamification educativa di cui abbiamo parlato in merito alla tutela delle minoranze culturali: conserva i termini linguistici relativi alle figure mitologiche scandinave presentate durante il viaggio della protagonista, spingendo così il giocatore a cercarne il significato per capire il senso nel contesto; inoltre, sin dai primi minuti, il gioco si ricollega ad un immaginario collettivo che pare essersi rafforzato nell’ultimo lustro, senza ricadere però in stereotipi (come quello puramente iconografico dei vichinghi e dei loro elmi cornuti) o scomodare dei e semidei del pantheon germanico (infatti Lars parla di “bestie terrificanti e creature mistiche”). La cura e l’attenzione ai dettagli è ineccepibile, come dimostra il nome stesso della protagonista: “Tove” deriva dal norreno “Tofa” oppure—secondo lo studio delle pietre runiche di Sønder Vissing—pare derivare da “Tyr”, il dio germanico del cielo, della giustizia e della guerra; ma il nome Tove è anche citato nell’Edda poetica, una raccolta di poemi di autore anonimo in norreno risalenti al tredicesimo secolo che, insieme all’Edda in prosa di Snorri Sturluson, costituisce il corpus da cui filologi e teologi hanno tratto le informazioni sulla mitologia e la religione dei popoli di Svezia, Norvegia, Danimarca e Islanda.
Ricordiamo che “vichingo” non è sinonimo di mitologia norrena: vediamo ritratto nei telefilm solitamente un lifestyle che si ispira all’era dei Vichinghi tra l’800 e il 1100, mentre la mitologia norrena è un ramo di quella germanica (la quale comprende anche la mitologia anglosassone), un panorama precristiano molto composito che ha radici nella mitologia indoeuropea, associata poi a quella vichinga perché in quel periodo venne trasmessa oralmente, fino a quando in epoca cristiana medievale non vennero riportate le informazioni nei testi scritti. Proprio in questi testi e manoscritti vengono citati numerosi personaggi che Tove incontra e con cui interagisce, come un “nokken”, uno spirito mutaforma d’acqua spesso rappresentato con tratti umani o come un “wyrm”; oppure un “tomte”, piccoli folletti benevoli e parenti scandinavi dei dispettosissimi “pixies”; e ancora, incontriamo un Fossegrim o “Strömkarlen”, uno spirito che col suono del proprio violino gestisce i flussi d’acqua. Anche i corvi di Rörka, l’antagonista che innesca la storia, ricordano Huginn e Muninn, i corvi informatori di Odino di cui si parla nel Grímnismál.
Polygon Treehouse non si limita ad utilizzare in maniera sterile pochi elementi del folklore scandinavo, ma gioca anche con temi “più importanti” e cosmologici: alla ricerca di suo fratello, la protagonista si ritrova sulle tracce anche degli Jǫtnar (plurale di “Jǫtunn”, titolo anche di un gioco della Thunder Lotus), giganti (in questo caso, probabilmente “Hrímþursar” o “giganti di brina”) dotati di incredibile forza e che si contrapponevano agli dei, fossero essi Vani (dei della ricchezza e della fecondità) o Asi (dei della sapienza, del diritto e della guerra). Mettendo da parte il Ragnarök, la battaglia finale tra la Luce e il Buio e la conseguente rigenerazione del mondo, Röki collega tutti i piani in cui è ambientata la storia con “the tree of many”, Yggdrasil o l’albero del mondo che unisce nella mitologia i nove mondi (e funge nel gioco da strumento per il fast travel): Midgard (centro dell’universo), Asaheimr (da dove provengono gli Asi), Vanaheimr (terra dei Vani), Jotunheimr (regno degli Jotnar), Alfheimr, Svartalfaheimr, Niflheimr, Muspellsheimr e Hel. Non manca un breve cenno alla bipartizione sia fisica che “comportamentale” tra Innangard (ciò che è ordinato e civilizzato) e Utangard, il “recinto esterno”, limite estremo dei confini del mondo, il regno del caos.
Questa divisione della realtà in nove parti riporterà alla mente l’ambientazione di God of War, mentre il panorama religioso composito sopracitato ci ricorderà Senua’s sacrifice, dove vi erano sia aspetti della mitologia norrena che della cultura celtica: il suo viaggio finisce in Hel, durante l’invasione dei nemici vichinghi il suo amato viene rapito, pietre runiche danno insight sulla mitologia e il folklore che caratterizzano il gioco (metodologia non utilizzata in Röki, lasciando così inalterata l’ambientazione fanciullesca del titolo). Più esplicitamente ricordiamo: Valravn, un mostro dalle sembianze di un corvo tipico del folklore danese, nato dai corvi che banchettano sui cadaveri dei re non sepolti sui campi di battaglia; il secondo boss, Surtr, un gigante dal regno di Muspell che ha un ruolo principale durante il Ragnarok, poiché dà fuoco al mondo; il terzo boss, Fenrir, un lupo gigante figlio di Loki e della gigantessa Angrboda; infine, Hela è la guardiana di Hel, regno dei morti per vecchiaia o malattia, a cui non è permesso entrare nel Valhalla.
Non è difficile supporre perché questo immaginario sia così calzante e adatto a diventare l’ambientazione di molti videogiochi, soprattutto di guerra: dei e semidei in continua lotta (come nel conflitto sempiterno tra Asi e Vani), numerosi personaggi secondari dai poteri sorprendenti, uno scenario enciclopedico da cui trarre ispirazione; diviene anche facile fare confusione, prendere in “prestito” elementi ancestrali di una religione che ormai, tranne che nella tradizione, non “appartiene a nessuno” (come la mitologia greca o quella egizia) e poter snaturarne i temi, collocando personaggi in altri spazi. Ma diventa interessante anche vedere come diversi giochi ritraggono i propri personaggi caratterizzati da tratti più o meno esasperati, stravolti o puri, capire il messaggio che tentano di trasmettere. In generale è facile con l’ambientazione della mitologia norrena ritrarre lotte tra dei potenti, inscenare conflitti tra uomini e divinità; meno facile in questo contesto veicolare il messaggio di Röki: lottare strenuamente per ciò che si desidera e restare fedeli a sé stessi, anche se quel “necessary evil” potrebbe comportare il proprio bene a discapito di quello altrui.