L’esistenza di un autore è di primaria importanza quando si parla di opere di finzione. Quando ne interpretiamo una, come ad esempio un romanzo, lo facciamo in base a ciò che crediamo l’autore voglia dire o in base agli effetti che pensiamo l’autore voglia suscitare.
Le ipotesi di chi fruisce di un’opera di finzione sulle intenzioni degli autori non solo determinano come l’opera stessa verrà interpretata, ma sono fondamentali anche per capire il mondo che questa ci presenta, e per le nostre aspettative su quel mondo. È proprio perché pensiamo che un mondo di finzione ci sia presentato per un motivo preciso che anche il suo più piccolo dettaglio diventa significativo. Viceversa, tendiamo a escludere dal senso che attribuiamo a un’opera tutto quello che non ci sembra intenzionalmente offerto dall’autore (come errori di battitura, sviste, contraddizioni, e così via).
Questo non significa che sia necessario conoscere i propositi di un autore per capire la sua opera: di fatto, si possono apprezzare un romanzo o un film senza essere sicuri di quali siano le intenzioni dell’autore, o addirittura fraintendendole. Quando interpretiamo un’opera lo facciamo quindi in una maniera in qualche misura indipendente dalle aspirazioni e dai propositi reali del suo autore. Come possiamo dunque accordare questa irriducibile libertà interpretativa con il fatto che, altrettanto innegabilmente, veniamo guidati da quelle che pensiamo essere le intenzioni di chi sta dietro l’opera? Nel contesto della critica letteraria, per riconciliare queste due posizioni divergenti, viene usato il concetto di autore implicito. Wayne C. Booth lo spiega così:
Scrivendo, [l’autore reale presenta] una versione implicita di sé stesso che differisce sostanzialmente da quella che troviamo in opere altrui. […] L’immagine che si fa il lettore di questa entità è uno degli effetti più importanti che può avere un autore. Per quanto provi a essere impersonale, il suo lettore si costruirà inevitabilmente l’immagine di un [autore implicito]
Booth 1961, 70-71.
L’autore implicito non è determinato dal solo autore o dalle sue intenzioni: è chi fruisce l’opera che lo ‘costruisce’ dinamicamente durante la fruizione. Chi legge si fa un’idea dell’autore implicito sulla base della propria interpretazione, e al contempo interpreta il testo in base alle intenzioni attribuite a questo autore implicito. Il lettore ascrive, cioè, un certo significato agli oggetti, spazi, ed eventi descritti in un romanzo attribuendoli alle intenzioni di questa figura.
In questo articolo vogliamo proporre una definizione di ‘(game) designer implicito’ analoga a quella dell’autore implicito di Booth:
Il (game) designer implicito è l’idea che chi gioca si fa del designer sulla base della propria interpretazione dell’esperienza di gioco (in senso lato, includendo cioè elementi para-ludici e trovate di marketing). Chi gioca ascrive a questa figura tutte le intenzioni relative alla creazione del gioco.
Van de Mosselaer & Gualeni, 2020
Nei videogiochi, il designer implicito non solo influenza l’interpretazione dei mondi di gioco, ma anche come giocatrici e giocatori si pongono interattivamente rispetto a questi mondi (e gli obiettivi che si prefissano al loro interno).
In altre parole, le intenzioni che chi gioca riconosce essere alla base del funzionamento di un mondo di gioco determinano il modo in cui darà un senso alla propria esistenza al suo interno.
Come accennato prima, la costruzione di un designer implicito non avviene sulla base delle sole caratteristiche del gioco, ma anche in relazione alla conoscenza ludica pregressa, alla sensibilità, alle preferenze, e al contesto socioculturale di chi gioca. In questo senso, la nostra idea di designer implicito fa leva su un approccio al videogioco comprensivo, e che va oltre i limiti del gioco in questione come artefatto: come in ogni altra forma espressiva, anche nel videogioco il significato emerge dalla relazione dinamica tra opera, interprete, e contesto.
Costruire il designer implicito
Nel corso di ogni partita, chi gioca costruisce un (game) designer implicito interpretando elementi e caratteristiche del mondo di gioco. Alcune delle intenzioni del designer implicito possono essere chiaramente materializzate nel gioco, come ad esempio quando gli NPC (non playable characters—personaggi non giocanti) spiegano a chi gioca come usare il controller durante le fasi iniziali di un gioco, o quando pop-up di testo suggeriscono a chi gioca cosa fare o dove andare durante il gameplay.
Altre intenzioni possono manifestarsi in modi più sottili: tracce di sangue sul pavimento possono dare indizi su cosa sia accaduto in una stanza e consigliare il cammino da seguire per andare avanti. Allo stesso modo, un nemico troppo forte incontrato in una nuova area di gioco suggerisce di far salire il livello del proprio personaggio (o di visitare altre aree prima di questa), e ricompense opportune indicano quali azioni siano da considerare virtuose e quali no. Tutti questi indizi ci vengono offerti per raffinare la nostra comprensione del mondo di gioco e per darci un’idea di come sarebbe desiderabile comportarsi al suo interno, e questo avviene proprio perché percepiamo quegli elementi e indizi come intenzionali.
C’è poi da tenere in considerazione il ruolo che hanno i fattori soggettivi di chi gioca e interpreta durante la costruzione di un ‘designer implicito’. Nello specifico, visto che prendere in considerazione la vastissima gamma di fattori socioculturali in campo porterebbe troppo lontano, ci concentreremo in massima parte sull’influenza della cultura ludica pregressa. Possiamo osservare questa influenza con particolare evidenza nei casi in cui chi gioca non abbia sufficiente familiarità con certe convenzioni videoludiche, e quindi non riesca a ricostruire correttamente le intenzioni del designer durante una partita. Lo si vede bene in alcuni video sul canale Youtube REACT, che inquadra diversi giocatori e giocatrici mettendo in risalto le loro reazioni durante il gameplay.
In uno di questi, alcuni giocatori anziani sono alle prese con le prime fasi del videogioco The Last of Us (Naughty Dog, 2013). Quando il filmato introduttivo giunge al termine, la telecamera attraverso cui osserviamo il mondo di gioco si fissa poco dietro alle spalle della protagonista. È interessante osservare come i giocatori anziani non riescano a riconoscere questo movimento di camera come uno stimolo all’azione e come un’indicazione che il gioco è passato ad una fase interattiva. Uno degli utenti anziani mostrati nel video esprime disappunto perché la protagonista non sta facendo nulla, per quanto le sia stato appena detto di cercare suo padre. Di nuovo, non essendo dotati di sufficiente alfabetizzazione videoludica, gli anziani giocatori del video non riescono a capire che il movimento di camera e la richiesta di cercare il padre della protagonista siano indicazioni di cosa il designer vuole che si faccia in quel momento.
Succede qualcosa di simile quando gli stessi giocatori mettono le mani sul videogioco di azione Grand Theft Auto V (Rockstar North, 2013). Molti di loro guidano le macchine del gioco con grande attenzione, cercando di non investire nessuno e fermando il proprio veicolo a ogni semaforo rosso. Alla domanda “perché ti sei fermata così all’improvviso?” una signora esclama “c’era un segnale di stop!”. Vedendo lo stop nel gioco, la signora ha intuito di doversi fermare. Ha cioè costruito, come altri giocatori e altre giocatrici nello stesso video, un designer implicito molto diverso da quello che avrebbe costruito in possesso di una maggiore esperienza videoludica, o di una maggiore conoscenza della serie di Gran Theft Auto, nota per inseguimenti d’auto, sparatorie, e crimini di ogni tipo.
Altro elemento che contribuisce alla creazione più o meno accurata di un designer implicito è la conoscenza pregressa di specifiche convenzioni di genere. Videogiochi pubblicizzati come appartenenti al genere horror, per esempio, vengono giocati con l’aspettativa che il designer implicito vorrà indurre tensione in chi gioca, e spaventarlo. Un titolo abbastanza noto per avere fatto leva su questo aspetto è l’avventura in prima persona Gone Home (Gaynor 2013), videogioco che il materiale para-ludico (trailer, immagine di copertina, suoni e aspetto del menu) presenta come appartenente al genere horror, e ambientato in una casa isolata e misteriosa durante una notte tempestosa. Le fasi iniziali del gioco calcano la mano sulla tensione, accogliendo chi gioca con una nota sulla porta d’ingresso che dice di non addentrarsi e non cercare di scoprire cosa sia accaduto. Le aspettative vengono però sovvertite quanto ci si rende conto che Gone Home non è un horror, ma una sorta di romanzo di formazione interattivo.
Il (game) designer implicito è dunque un costrutto che emerge dal rapporto interpretativo e interattivo tra le caratteristiche del videogioco e quelle contestuali di chi gioca, che ovviamente includono anche livello di abilità, esperienza videoludica, e familiarità col genere o col franchise dell’opera in questione. Di conseguenza, è ragionevole supporre che se sufficientemente bene informati, diversi giocatori e giocatrici tenderanno a costruire designer impliciti molto simili tra loro.
Mondi di gioco e designer impliciti
La costruzione del designer implicito è un’attività che prelude ogni rapporto con i mondi di gioco digitali: chi gioca interpreta e reagisce agli eventi in quei mondi solo dopo aver costruito un (game) designer implicito.
Il mondo di gioco stesso e ogni oggetto o evento al suo interno vengono interpretati come se avessero un significato preciso proprio perché presentati intenzionalmente a chi gioca, analogamente a quanto avviene in qualsiasi altra opera di finzione. Quando leggiamo un romanzo, è ragionevole pensare che ogni elemento nel mondo narrativo venga descritto per un motivo specifico. La differenza tra un romanzo e un videogioco è che chi gioca non solo è consapevole dell’artificialità del mondo di finzione, ma è tenuto ad agire all’interno dello stesso.
Essere consapevoli dell’artificialità e intenzionalità dei mondi di gioco significa spesso essere guidati nel nostro essere-al-mondo-di-gioco da caratteristiche apparentemente banali. Cose che nella vita reale sarebbero del tutto normali diventano importanti indizi quando incontrati all’interno di mondi di gioco. Una pianta cresciuta in modo curiosamente contorto, un particolare riflesso della luce, la direzione in cui soffia il vento diventano tutti segnali significativi per chi gioca, che li interpreta come elementi realizzati e presentati nel mondo di gioco per un motivo preciso. Non è difficile trovare esempi di questo tipo di inferenza.
In The Legend of Zelda: The Wind Waker (Nintendo EAD, 2002), per esempio, chi gioca deve attraversare un labirinto infinito composto di stanze con quattro porte ciascuna. Ogni stanza di questo labirinto è abitata da un solo nemico armato di spada (Phantom Ganon). Per uscire, chi gioca deve sconfiggere Phantom Ganon e procedere poi passando dalla porta verso cui punterà la sua spada, caduta a terra dopo la sua sconfitta.
Il modo in cui si risolve il puzzle e si esce dal labirinto di The Wind Waker sarebbe del tutto insensato nella vita reale: si deve infatti fare attenzione alla porta che la spada di Phantom Ganon indica dopo la morte del suo proprietario, e aprire quella per proseguire. In un videogioco, scegliere una porta sulla base al modo in cui una spada cada a terra ha un senso preciso, che viene suggerito dall’attenta osservazione della situazione di gioco.
Non solo le stanze del labirinto sono del tutto vuote e le porte identiche tra loro, cosa che rende la spada a terra uno dei pochi elementi su cui basare la propria scelta, ma alla sconfitta di Phantom Ganon questa cade a terra in maniera enfatica, sottolineata da un effetto sonoro, e si allinea sempre curiosamente in direzione di una delle porte della stanza. Con attenzione e sufficiente esperienza si percepirà questo movimento della spada non come un mero evento, ma come una precisa scelta di design del (game) designer implicito.
Un altro chiaro esempio di un simile processo di inferenza avviene quando chi gioca incontra, nel mondo di gioco, grandi quantità di oggetti, armi o elementi in grado di risollevare l’energia del personaggio principale, o quando il gioco effettua un auto-salvataggio all’improvviso. Questi elementi suggeriscono l’approssimarsi di una sfida particolarmente ardua o un incontro pericoloso (come una boss fight).
Questo vale anche per videogiochi che non danno a chi gioca scopi espliciti da soddisfare. I videogiochi sandbox, per esempio, sono creati per offrire una gamma di possibilità più vasta di quelle offerte dai giochi narrativi, e per consentire a chi gioca di scegliere autonomamente cosa fare invece che imporgli obbiettivi e criteri di successo. Questo non significa però che in questo caso le esperienze di chi gioca siano indipendenti dal (game) designer implicito. Al contrario chi gioca esplora, sperimenta e conosce il mondo di gioco in modo creativo proprio perché pensa che il designer implicito abbia previsto esattamente questo tipo di attitudine e questo tipo di comportamento.
In generale, allora, chi gioca ascrive un certo significato al mondo di gioco indipendentemente dal suo carattere narrativo, e sulla base di un ampio spettro di canali espressivi. La barra degli HP (punti vita) in qualsiasi gioco, per esempio, indica che il designer implicito ha voluto rendere l’utenza vulnerabile al cospetto dell’ambiente o di qualche nemico. La mancanza di HP in giochi come Journey (Thatgamecompany, 2012) invita l’interpretazione opposta, ovvero che il gioco è pensato per la cooperazione e un’esplorazione pacifica e non per stimolare competizione e conflitti.
Anche certi oggetti o strumenti, come il piccone in Minecraft (Mojang, 2011), anticipano azioni che si potranno effettuare in gioco. Enormi specchi d’acqua, scogliere, e montagne scoscese stabiliscono tendenzialmente un confine per lo spazio di gioco, e sono chiare indicazioni che oltre con tutta probabilità non c’è nulla da esplorare al di là di questi.
Il comportamento di chi gioca nei confronti di creature ostili, ostacoli o puzzle, poi, fa spesso leva sulla convinzione che le sfide nel gioco possano essere superate e che si possa vincere, per quanto la situazione possa sembrare disperata. Percepire ogni problema come artificiale implica che quel problema sia stato creato per avere una soluzione. Se si trova una porta chiusa, per esempio, ragionevolmente si pensa che da qualche parte intorno ci sia una chiave per aprirla.
In conclusione, sapere che un mondo di gioco è artificiale influenza in maniera determinante come ci relazioniamo o comportiamo al suo interno. È proprio perché si costruisce un designer implicito che l’esperienza di questi mondi diventa significativa. Essendo le intenzioni del designer implicitamente presenti nel modo stesso in cui il mondo di gioco si presenta e risponde a chi gioca, ogni elemento viene percepito come pensato per essere appositamente lì, e quindi come foriero di certi significati e finalizzato a suggerire determinati comportamenti. In altre parole, potremmo dire che chi gioca ha un ‘bias di sensatezza’. Tende cioè a interpretare come importanti, sensati, e pertinenti anche i più banali elementi di questi mondi.
E questo vale per i mondi videoludici, ma più in generale per ogni mondo virtuale percepito come artificiale da chi vi fa ingresso.
Bibliografia
- Booth, W. C. 1983 [1961]. The Rhetoric of Fiction. Chicago (IL): Chicago University Press.
- Gaynor, S. 2013. Gone Home [Windows]. Videogioco sviluppato e pubblicato da The Fulbright Company.
- Mojang. 2011. Minecraft [Windows]. Videogioco diretto da Markus Persson e Jens Bergensten, e pubblicato da Mojang.
- Naughty Dog. 2013. The Last of Us [PlayStation 3]. Videogioco diretto da Straley, B. e Druckmann, N. e pubblicato da Sony Computer Entertainment.
- Nintendo EAD. 2002. The Legend of Zelda: The Wind Waker [Nintendo GameCube]. Videogioco diretto da Aonuma, E., e pubblicato da Nintendo.
- Rockstar North. 2013. Grand Theft Auto V [PlayStation 4]. Videogioco diretto da Benzies, L. e Sarwar, I., e pubblicato da Rockstar Games.
- Van de Mosselaer, N. and Gualeni, S. (2020). “The Implied Designer and the Experience of Gameworlds”. Proceedings of DiGRA 2020.