Un dialogo intorno al capitolo conclusivo della saga RPG di CD Projekt Red, pubblicato il 19 maggio 2015, che vede come protagonista Geralt di Rivia—strigo, witcher, cacciatore di mostri.
GN: Inizio a razzo facendoti questa domanda: è il miglior videogioco open world di sempre? È meglio di qualsiasi GTA, Red Dead Redemption, Assassin’s Creed? Ti dico intanto la mia risposta: sì. Lo è a tal punto che secondo me The Witcher 3, ancor prima che un capolavoro, è un problema per qualsiasi open world a venire, e lo si è visto bene con Cyberpunk 2077 prodotto dalla stessa CDRP. Non si tratta solo della grandiosità della trama, delle quest ramificate, delle side-quest così diverse tra loro e ugualmente profonde, di personaggi clamorosi come il Barone Sanguinario o Sigismund Dijkstra: è un intero mondo che parla. I profughi in coda per entrare a Novigrad, le bande criminali, i seguaci dei tanti culti, i druidi, le maghe, i guerrieri, persino i mostri, che spesso hanno una storia dietro. Non c’è nulla senza un preciso ruolo nel mondo di gioco, e relazioni coerenti e complesse con altri luoghi o personaggi. Non c’è un solo muretto sul ciglio di una strada che sembri messo lì a caso.
MM: Provo a dirla in questo modo: se The Witcher 3 è il miglior open world di sempre e se questo rappresenta un problema per tutto ciò che è venuto dopo, lo è nonostante non si degni di risolvere molti dei problemi tipici degli open world. Ad esempio RDR2 ha cercato di risolvere diverse sbavature sul lato della verosimiglianza e delle interazioni col mondo di gioco: penso ai movimenti dei personaggi apparentemente più realistici o ai personaggi non giocabili che non si ripetono mai, ad esempio. Ciononostante, sotto questo aspetto RDR2 mi ha procurato spesso un sentimento da uncanny valley, con tutti quei movimenti “naturali” in fondo non richiesti—Arthur che si abbassa lentamente per raccogliere un oggetto—e che invece hanno prodotto comandi abbastanza legnosi e difficili da memorizzare. E poi tutto sommato RDR2 resta un gioco abbastanza facile da “rompere” anche sul versante narrativo: è sufficiente andare a Saint Denis prima di una certa missione e poi tornarci con Dutch seguendo la storia principale, per vedere Arthur scoprire la “città elettrica” per la prima volta, come se non ci fosse mai stato prima. Al contrario The Witcher 3, magari anche perché all’epoca della sua uscita non si potevano risolvere da un punto di vista tecnico, i problemi di verosimiglianza se non li pone neppure (gli oggetti non si raccolgono, si aggiungono semplicemente all’inventario, gli NPC si ripetono abbastanza spesso così come i loro doppiatori), guadagnando però in dinamicità dell’esperienza di gioco; e pone sicuramente più attenzione all’incastro tra storia principale e qualsiasi attività secondaria, anche la più banale. Il fatto è che ogni attività produce racconto, come sottolineavi tu: anche il più blando collezionabile—si fa fatica persino a chiamarli così—è accompagnato da una lettera di un marinaio perduto o da un’iscrizione sul muro che rimanda a un’altra storia o più in generale alla complessità dell’universo narrativo. È come se The Witcher 3 ti dicesse: “Ok, sono pur sempre un videogioco, ma ti farò dimenticare di esserlo immergendoti in un mondo che vive di vita propria”. È anche il motivo per cui io, che sono abbastanza fissato con la “pulizia della mappa” pur riconoscendola come un’attività compulsiva e in un certo senso vuota, che non aggiunge nulla all’esperienza ludica, in questo caso non ho sofferto affatto nell’andarmene in giro a esplorare a casaccio, dimenticando per ore le quest principali e secondarie. Mi viene in mente ora, mentre lo scrivo: in The Witcher 3 siamo alla nobilitazione narrativa, per così dire, anche della più scontata delle fetch quest.
GN: A proposito di narrativa, mi viene in mente ciò che scriveva Alan Kirby nel suo libro Digimodernism, uscito nel 2009, riguardo alla endless narrative: una non finitezza non più metaforica, come quella a cui pensavano postmodernismo e post-strutturalismo riferendosi alle possibilità interpretative, ma quasi letterale. “Quasi” perché ovviamente ogni storia giunge a una fine; ma ciò di cui parla Kirby è un dispositivo narrativo che si presta comunque a un numero infinito di aggiunte, estensioni, riordinamenti. Un esempio sono sicuramente le serie TV in cui gli autori possono andare avanti a piacimento finché arriva l’ok per una nuova stagione; ma anche media non tipicamente seriali usano ormai le stesse forme di scrittura: Kirby faceva l’esempio di Star Wars, perfettamente autoconclusivo con il primo film del 1977 e poi continuamente esteso (e quando venne pubblicato il libro non era ancora uscita la terza trilogia), ma anche di Matrix come un’unica narrazione lunga sette ore. Senza contare le 3000 pagine di Harry Potter, e via dicendo. Secondo Kirby in parte si tratta di una forma completamente nuova (e aggiungo io: per niente scontata nell’epoca dell’economia dell’attenzione), perché si basa su quella che recentemente Bolter ha definito “Plenitudine digitale”, ma in parte è anche un ritorno alle narrazioni antiche (già l’Odissea funzionava così secondo Auerbach) e medievali trasmesse oralmente. Vale la pena allora notare come molti dei capisaldi del genere siano ambientati in universi fantasy legati a quel periodo storico: Il signore degli anelli, Il trono di Spade, e senz’altro The Witcher, già digitalmente in espansione tramite Netflix. Ma è soprattutto il DLC Hearts of Stone a farmi pensare alla endless narrative: una nuova lunga storia ambientata sempre sulla stessa mappa (al contrario di Blood & Wine), legata a luoghi e in parte a personaggi già conosciuti. Non è qualcosa che andrebbe esplorato ulteriormente? Rockstar usa i suoi mondi open world per anni facendoli diventare delle arene multiplayer con Red Dead Online o GTA Online, ma per quanto redditizio sembra un po’ uno spreco. Per non parlare dei tanti mondi enormi e mai più utilizzati di Assassin’s Creed e altri giochi. Continuare ad aggiungere storie a mondi già creati potrebbe essere una direzione interessante da seguire. L’idea di un The Witcher 3 che continua per anni a espandersi con DLC come Hearts of Stone mi sembra bellissima. Mi piace molto, intanto, come CDPR stia continuando a tener vivo, espandere e approfondire quell’universo narrativo con Gwent, nel quale ci sono moltissime carte con abilità lore-friendly (Dudu ad esempio, il mutaforma che Geralt prova a far uscire allo scoperto grazie a uno spettacolo teatrale—missione pazzesca—in Gwent è una carta che una volta messa in gioco si trasforma nella copia di un’unità nemica).
MM: Quella della narrativa infinita, che dà quasi l’impressione di autogenerarsi a partire da minuscoli frammenti di racconto che si staccano dalla trama principale, è un’opportunità che hanno colto molto bene anche Disney e Marvel. E che con le prime serie tratte dal Marvel Cinematic Universe sta dando ottimi frutti anche in termini di sperimentazione di linguaggi diversi. In fondo sì, credo che questo sia un ritorno al racconto popolare, anche epico e in certo senso orale, fatto di narrazioni e contronarrazioni “a voce”, se pensiamo ad esempio quanto poi i vari franchise ascoltino, nel bene e nel male, anche i fruitori del mito, accogliendo o meno nel canone le storie apocrife desiderate e in qualche caso persino prodotte dai fan. È una cosa che l’umanità ha sempre fatto: aggiungere, estendere, cambiare e aggiornare una storia “mitica” in base alle proprie esigenze culturali e sociali—i Vangeli sono uno spin-off della Bibbia, se vogliamo, oppure una sorta di reboot, e allo stesso modo Gesù è un personaggio condiviso dall’universo narrativo cristiano quanto islamico. Anche da questo punto di vista (così come in ambito di tecnica e effetti speciali), nel Novecento dobbiamo tantissimo a George Lucas e a Star Wars: ricorderai come per un certo, lungo periodo lo stesso Lucas abbia invitato i fan a scrivere le proprie storie ispirate ai film, fino a dare vita all’Universo Espanso, in cui sono nati romanzi, fumetti, videogiochi tuttora molto apprezzati. Poi con l’arrivo di Disney è stato fissato un nuovo canone, ma anche questa è una dinamica tipica di quando si generano storie collettivamente—a volte è una chiesa a stabilire cosa è canonico o meno, altre persino uno Stato, altre ancora un semplice consorzio di autori. Per il tipo di economia in cui viviamo, è interessante vedere quanto poi il marketing sia alla base di molto del racconto che generiamo: se Star Wars nasceva per vendere giocattoli—la regola lucasiana per continuare a scrivere storie con Luke, Han e Leia era che restassero “per bambini”—il crossover proposto oggi dal Marvel Cinematic Universe nasce in ambito comics, e lì era un’operazione di cross selling con l’obiettivo di far seguire più testate contemporaneamente ai lettori; allo stesso modo, la canonizzazione di certi personaggi—penso a come Sony e Disney debbano trattare sulle apparizioni di Spider-Man nel Marvel Cinematic Universe, o al fatto che in quest’ultimo siano ancora assenti i mutanti—è legata a questioni di accordi sullo sfruttamento dei diritti cinematografici stipulati anni fa. Per tornare al punto, The Witcher 3 funziona proprio per questo: perché ti immerge in un modo vivo, che vive da prima del tuo arrivo nei panni di Geralt—i romanzi di Sapkwoski—e che continuerà a vivere anche quando disinstallerai il gioco, attraverso una serie Netflix, un gioco di carte e perché no, anche attraverso le storie scritte dai fan su Wattpad o i gruppi Facebook in cui i cosplayer di Geralt, Ciri o Yennefer si scambiano le foto in costume dell’ultima fiera di comics & games frequentata prima della pandemia.
GN: Citi Sapkwoski e questo mi dà l’occasione per divagare su un altro tema. Quanti sanno che la serie si basa su quei romanzi? Quasi tutti coloro che ci hanno giocato, direi. Quanti sanno che Konrad Tomaszkiewicz è il game director di The Witcher 3 (quanti lo hanno mai sentito parlare, o sanno che faccia abbia)? Probabilmente una percentuale minima. È un po’ come se quasi tutti sapessero che Eyes Wide Shut è tratto da Doppio Sogno, romanzo breve—e bellissimo—di Arthur Schnitzler, ma ignorassero la figura e il ruolo di Stanley Kubrick. Per la maggior parte dei giocatori interessati a un discorso sull’autorialità, The Witcher 3 è al massimo un gioco di CDPR—che è un po’ come attribuire la paternità di Eyes Wide Shut alla Warner Bros., per rimanere sul paragone. È assurdo. Da una parte—concretamente—una bella fetta di responsabilità la hanno le stesse case di produzione, che una volta addirittura costringevano gli autori di un gioco ad apparire nei credits con un nickname anziché con il loro vero nome (una brutta abitudine di cui scrive anche Salvatore Pane a proposito di Mega Man). Da un’altra parte—stavolta speculando un po’—mi sembra perfettamente coerente con l’idea del videogioco come ultimo arrivato, come medium cioè nato in una fase avanzata del capitalismo, nella quale legare il concetto di autorialità a un’azienda quotata in borsa non sembra porre particolari problemi a nessuno. Esempi del genere mi fanno pensare a quanto sarebbe necessaria una rivoluzione nel modo di approcciare il medium, con una vera e propria “politica degli autori” videoludica.
MM: Sì, sicuramente c’è uno strano approccio all’autorialità in ambito videoludico. Però io penso che alla lunga le storie siano più importanti dei loro autori. Questo in generale. Ma sul punto, prendi lo stesso Sapkowski: quanto deve anche lui al folklore popolare europeo classico e moderno? E in quel campo non ci sono autori: ad esempio non sappiamo chi—ammesso che si tratti di una sola persona—ha inventato la figura del vampiro, del troll, del djinn o della sirena. Anzi, proprio in The Witcher 3 è interessante vedere come la raffigurazione delle sirene sia quella che col tempo è diventata in un certo senso minoritaria (una creatura alata, simile all’arpia), il che la dice lunga su quanto le storie siano poi rimasticate e tradite a prescindere dalla volontà di chi ha dato loro vita. Infatti bisognerebbe parlare di “scoperte” di qualcosa che spesso è già nell’aria, più che di “invenzioni” venute fuori dal nulla. Questo per dire che sul lungo periodo—visto che saremo tutti morti—autori e opere si perdono, confondono e ritrovano, perciò se fossi un autore scommetterei, borgesianamente, più sull’immortalità della mia opera e dei miei personaggi che sulla mia. (Chissà, magari un giorno anche lo strigo di Sapkwoski diventerà una figura classica che, al pari di quelle che ho elencato prima, ha smarrito il suo scopritore originale.) Anche se poi so perfettamente che quando si parla di un gioco come Death Stranding, l’impronta—è il caso di dire—di Kojima si sente tutta. Death Stranding che mi è rimasto addosso proprio perché ha le ambizioni, le storture e le aberrazioni (in senso positivo) del gesto intensamente autoriale, quasi da romanziere o da filosofo (dico di più: Death Stranding è il classico trattato filosofico in forma di romanzo/videogioco). E tuttavia, mettendo da parte campi complessi in termini di produzione industriale come quello videoludico (ma in fondo è lo stesso per cinema e musica), anche se parliamo di libri—in cui l’idea della creazione da parte del singolo è ancora forte—le cose non sono mica più semplici. Che ruolo ha l’editor, per dirne una? E il traduttore? Il direttore di collana di una casa editrice (penso a Roberto Calasso o a Bobi Bazlen, che per Adelphi sono stati ben più che semplici editori)? E quanto contano—e siamo di nuovo a Sapkwoski—le influenze di altri autori, delle tradizioni e delle atmosfere culturali in cui si cresce, ci si forma e si scrive? Nella migliore delle ipotesi si finisce tutti come Omero (ma anche come Shakespeare, per certi versi): se domani ci fosse un’estinzione di massa e restassero in vita pochissimi di noi, con pochissime fonti disponibili dal passato (tipo in Horizon Zero Dawn, poniamo), secondo me sorgerebbero molti dubbi—gli stessi che abbiamo appunto su Omero—su George Lucas e Walt Disney, per citarne due. Erano, rispettivamente, una sola persona, un solo autore? Delle istituzioni parareligiose da cui promanavano epiche e racconti esemplari? Oppure una sorta di scuola o collettivo, con tanto di squadre di giovani “tirocinanti” come per i pittori rinascimentali, che producevano anonimamente opere poi firmate dai maestri?
GN: Io andrei avanti a parlare di The Witcher 3 per sempre, ma prima che questo dialogo raggiunga una lunghezza scoraggiante mi fermerei di fronte a questa tua visione di uno scenario post-apocalittico in cui si dubita dell’esistenza storica di Walt Disney. Proprio perché di The Witcher 3 sembra sempre impossibile dire abbastanza, però, andrei a chiudere segnalando una lettura ulteriore: su PC Gamer c’è un approfondimento molto interessante dedicato alle religioni e ai culti presenti nel mondo di gioco—e tra l’altro questo secondo me dà un po’ il senso di ciò di cui parlavo in apertura, vale a dire The Witcher 3 come un bel problema per qualsiasi open world a venire. Il pezzo cita alcune missioni rimaste famose, come “Ladies of the Wood”, dalla storia principale, o “A Greedy God”, quest invece secondaria. Me ne sono persino venute in mente altre, sempre relative a questo tema, assenti nell’articolo, come “Forefathers’ Eve”, in cui Geralt aiuta un druido durante un rituale che rischia di attirare troppi drowner e si ritrova a fronteggiare (solo se vuole, come spesso accade nel gioco) alcuni cacciatori di streghe, seguaci del culto del Fuoco Eterno, intervenuti per punire quello che credono essere un atto di necromanzia. Naturalmente non ricordavo come si chiamasse la missione; l’ho potuta rintracciare solo andando a spulciare questa lista, ritrovando intanto diversi altri episodi memorabili di The Witcher 3. Mi ha fatto uno strano effetto: a distanza di tanto tempo è come se alcune di quelle avventure avessero trovato posto nella mia memoria accanto a eventi reali. Non credo di esagerare dicendo che le scorribande insieme a Keira Metz o Triss Merigold ora facciano parte dei miei ricordi tanto quanto quelle in compagnia di qualche amica che non vedo più da anni. Certo, con le dovute differenze: non ultima, sapere di aver condiviso certi momenti con milioni di persone anziché con due o tre. Non sono sicuro di cosa possa voler dire questo. Sono certo però che non mi è successo con nessun altro gioco.
MM: Sulle fedi religiose nel gioco si potrebbe dire tantissimo. A partire da come aspetti similari di uno stesso culto vengano declinati in maniera diversa da popolazioni geograficamente distanti: ad esempio l’apocalisse del Bianco Gelo del Velen diventa il Ragh nar Hoog (cioè il Ragnarok) nelle isole Skellige. E poi c’è l’elemento religioso che viene spesso subordinato e riletto in chiave politica, come nel caso della gestione della magia da parte di Radovid. Ancora, il modo in cui religione, magia e scienza si mescolano tra loro all’Accademia di Oxenfurt, ma anche nel caso degli stessi witcher che più che personaggi fantastici sono esperimenti di eugenetica, se vogliamo. Da ultimo, è interessante vedere come fede e magia raccontino spesso vicende che oggi spiegheremmo col disturbo mentale: penso alla quest secondaria “Possession” in cui Geralt affronta l’Hym, lo spirito “ombra” che porta Udalryk e chiunque ne sia posseduto a praticare atti di autolesionismo per espiare un senso di colpa e inadeguatezza; oppure alla stessa “Ladies of the Wood” che citavi prima: con la scusa delle streghe, ci racconta una storia di violenza domestica e conseguente depressione, quella della moglie del Barone Sanguinario. Depressione cui nulla, neppure la magia, potrà porre rimedio. Ma davvero potremmo andare avanti all’infinito. A proposito di compagnia femminile e necromanzia, invece, la parte di Shani in Hearts of Stone, soprattutto quella del matrimonio cui si partecipa da “posseduti”, è davvero indimenticabile. Ci si affeziona anche a Vlodomir, il terribile spirito che possiede il corpo di Geralt aiutandolo involontariamente a capire qualcosa di più sul suo rapporto con la stessa Shani. Sempre a proposito di compagnia ho percepito molto forte, soprattutto a Novigrad quando sei alle prese con la storia di Dandelion, Ciri e Dudu, la differenza tra i momenti in cui ti muovi in gruppo e quelli in cui ti allontani dal centro abitato in cerca di contratti e avventure solitarie. Anzi, in quella parte mi è capitata una cosa strana, che forse ha a che fare un po’ con come sono fatto io: quando ero in compagnia di tutte quelle persone rimpiangevo i momenti di solitudine, mentre quando tornavo da solo, nel silenzio dei paesaggi desolati del Velen, mi mancavano invece le richieste più improbabili di Dandelion, persino la sua logorrea. Ecco, provo a concludere su questo: The Witcher 3 è tra quei videogiochi che attraverso la gestione delle scelte e del rapporto con gli altri personaggi ti fa scoprire o quantomeno ricordare un po’ come sei fatto. E di conseguenza sì, come sottolineavi tu, ci ricorderemo a lungo di aver trascorso davvero molto tempo nel Velen, a Novigrad e nei freddi arcipelaghi di Skellige, e di aver passato momenti indimenticabili con Yennefer, Ciri, Vesemir e tutti gli altri.