Non ho mai amato guardare altri utenti alle prese coi videogiochi. Ogni volta che capito su YouTube, rimango stupito dalla quantità ingente di let’s play caricati ogni giorno—mi chiedo come facciano i loro creatori a trovare il tempo di generare tutto quel contenuto. Ammetterò, ad ogni modo, che questi video possono rivelarsi pratiche guide a un videogioco, molto più facili da consultare di qualunque soluzione scritta rintracciabile su siti come GameFAQs, dal momento che queste sono spesso inficiate da un layout disordinato e da un linguaggio impreciso che sembra mostrare ben poco riguardo per la percezione del lettore.
Quelli tra di noi che sono del tutto incapaci di fornire indicazioni stradali conoscono bene il disagio che si prova quando si cerca di verbalizzare anche il più quotidiano dei percorsi a una persona terza; l’itinerario rimane una realtà puramente mentale, non ancora rivestita di linguaggio, e se proviamo a trasformarla in parole ci ritroviamo spesso a balbettare cose senza senso, del tipo, “La fermata del bus è sullo sbocco nord dell’incrocio, dove si trovava quella videoteca che adesso è solo un lotto vuoto, o almeno dovrebbe essere così venendo dal lato sud, e ora non posso assicurarle che sarà questo il caso”. La tipica walkthrough scritta è l’equivalente videoludico di quello che gente come noi produrrebbe se provasse a compilare uno stradario.
È per questo motivo che i let’s play sono così pratici: almeno l’utente può vedere cosa deve fare per andare avanti. Al di là dei risvolti meramente pratici, inoltre, un let’s play può essere il canale più immediato per soddisfare la propria nostalgia videoludica.
Certo, il mercato videoludico odierno è ormai saturo di remake, port, “successori spirituali” di vecchi titoli, in modo da capitalizzare i ricordi di giocatori che all’epoca (da fine anni Ottanta ai primi Duemila) erano bambini o al massimo adolescenti. Non tutto, però, viene rispolverato e rimesso sugli scaffali; rimane sempre un grande parco di titoli che restano solo cartucce o dischi che prendono polvere nello sgabuzzino o in fondo a un armadio. Tra di essi, tuttavia, ve ne sono alcuni che trovano comunque un modo di vivere una seconda vita su Internet—principalmente come rom per emulatori o file su siti abandonware.
Io stesso ho avuto modo di recuperare alcune vecchie gemme che avevano occupato i miei pomeriggi di bambino delle scuole elementari e medie; molti di essi erano vecchi platform 2D per Sega Mega Drive, l’unica console che nostro padre—strenuo sostenitore del gaming per PC—aveva concesso a me e mio fratello un Natale di metà anni ’90 (si trattava del famoso bundle che comprendeva il sistema e Sonic The Hedgehog 2). Non ostante abbia finito per interessarmi, col tempo, anche a generi del tutto diversi, il platform 2D mi rimarrà sempre in testa come il “videogioco” per antonomasia, l’associazione più immediata che offrirei a un alieno che mi chiedesse di spiegargli cos’è un gioco elettronico. Il mondo perennemente orizzontale e coloratissimo di quei vecchi titoli, strapieno di ninnoli e oggettini da collezionare e nemici, ostacoli da scavalcare o schivare con un miscuglio di strategia e rapidità epilettica—tutto questo mi sembrerà sempre la quintessenza del “videogioco”.
Buona parte di quei titoli non avevano un sistema di salvataggio comodo e più o meno onnipresente; il checkpoint regnava sovrano, e il game over era per lo più uno stadio permanente che implicava dover ricominciare da capo. I giocatori che volevano arrivare fino alla fine dovevano memorizzare la drammaturgia di un livello—entrate e uscite dei nemici, ubicazione dei segreti e delle vie di fuga, sequenze di salti particolarmente rischiose—per rispondere ad essa come per un riflesso pavloviano. Alcuni miei compagni di classe erano maestri di quest’arte, che fruttava loro una certa notorietà nella scuola; durante la pausa in cortile, dopo la mensa, tenevano piccole conferenze per un pubblico di giocatori meno esperti. Quanto a me, avevo buona familiarità con una moltitudine di schermi del game over; eppure mi divertivo lo stesso. Finire un gioco era un evento piuttosto raro, e le poche volte che succedeva aveva un carattere così vivido da sembrare quasi un evento reale.
Per giocatori come me, l’emulatore è un prezioso alleato—principalmente per via del salvataggio libero, che consente di non dover sottostare ai checkpoint o alla limitata scorta di vite che i titoli più vecchi concedevano al giocatore. Questo ha significato poter recuperare i giochi della mia infanzia senza le frustrazioni originali.
Va detto: l’emulatore elimina molti problemi, ma ne crea anche di nuovi—nel mio caso, la tendenza a un certo “perfezionismo da platform”; trovo inconcepibile perdere anche solo una vita e finire il livello senza aver trovato tutti i segreti che vi sono nascosti. Mi diverto molto in ogni caso; ma ben poco è rimasto dell’abbandono con cui da piccolo iniziavo e finivo una partita come capitava. Ora mi innervosisco anche se capitombolo una volta di troppo nello stesso dirupo, sebbene mi basti premere F5 per riprovarci in un batter d’occhio (cosa che anzi comporta che, nel momento in cui c’è una minima possibilità di sbagliare un passaggio particolarmente delicato, sicuramente finirò per sbagliarlo. Poca responsabilità, poca attenzione).
Uno dei platform che meglio ricordo da quell’epoca era un’esclusiva PC—o meglio, lo era per me e mio fratello: avevamo solo l’edizione Windows, poco c’importava sapere che ne esistessero anche altre edizioni. Si trattava di Maui Mallard in Cold Shadow, un gioco su licenza Disney che vedeva protagonista una bizzarra versione di Paperino dal nome e look hawaiiano (con tanto di proverbiale camicia floreale), investito del potere di trasformarsi in un ninja (il “cold shadow” del titolo) alternando così due stili di gioco: uno più classico basato sull’uso di una pistola spara-insetti, l’altro incentrato su velocissime acrobazie e duelli a base di bastone da ninja.
Passavo molto tempo a ponderare se esistesse una qualche relazione identitaria tra Paperino e Maui Mallard, esponendo—senza molto successo—le mie teorie ai miei compagni di classe. Il gioco, peraltro, ci era stato regalato a Natale da uno zio in forma di copia masterizzata, corredato da un’elegante fotocopia colorata della copertina ma senza manuale, e a quanto pare la storia era illustrata per esteso nelle pagine di quel libretto che a noi mancava; il (poco) testo contenuto nel gioco era in inglese e né io né mio fratello eravamo ancora in grado di capirci granché.
Ma la cosa più importante di Maui Mallard era il fatto che mi divertiva incredibilmente, persino più dell’amatissimo QuackShot per Sega Mega Drive, dove Paperino era invece un esploratore che viaggiava da un angolo all’altro del globo. Maui Mallard era più adrenalinico, più concentrato e più indulgente.
Nei primi anni dell’università scoprii gli emulatori e recuperai così buona parte dei giochi della mia infanzia, oltre a molti altri titoli di quegli anni che avrebbero potuto farne parte, ma non avevo mai giocato—in particolar modo quelli provenienti dalla famiglia Nintendo, che mio padre era solito liquidare beffardamente. Eppure, Maui Mallard fu l’ultimo titolo che mi venne in mente di rispolverare. Il suo collega QuackShot lo precedette: ebbi persino modo di finirlo, facendomi strada attraverso livelli che da piccolo non avevo mai neppure visto, stilizzate versioni di paesi e culture remote i cui abitanti erano per lo più ostili nei confronti delle invasive escursioni archeologiche di Paperino.
Era naturale che recuperassi prima quel titolo: lo avevo giocato su Mega Drive, avevo trovato l’emulatore e funzionava perfettamente. Per far girare Maui Mallard, invece, mi sarei dovuto inventare qualche diavoleria per far retrocedere il mio computer, ormai troppo avanzato, a una configurazione a lui adatta. L’idea che potessi semplicemente scaricare una rom per uno degli emulatori a mio disposizione mi venne in mente solo alcuni anni dopo, quando—in un momento di noia—diedi la voce “Maui Mallard” in pasto a Google. Scorsi pigramente qualche riga di Wikipedia sullo sviluppo del gioco, guardai un po’ di screenshot, registrai con lieve sorpresa il fatto che ne fossero uscite anche versioni per Mega Drive, SNES e persino GameBoy.
Per curiosità, provai quindi a scaricare la rom del gioco per il mio emulatore del Sega Mega Drive. Il primo livello, Maui’s Mansion, si apriva sullo scenario di una villa spettrale che ricordavo praticamente a memoria; i principali antagonisti erano ragni meccanici e inquietanti maggiordomi ricurvi che si avvicinavano in punta di piedi al giocatore per torturarlo con mostri che sbucavano dai loro vassoi. Tutto molto divertente, ma c’era qualcosa di irritante che mi impediva di godere pienamente il revival. Mi ricordavo il gioco come completamente privo di musica; ho un certo apprezzamento per le narrazioni filmiche e videoludiche che usano pochissima o nessuna musica non diegetica, e l’assenza di una colonna sonora aveva reso i livelli di Maui Mallard più minacciosi e immersivi nella mia memoria.
Non avevo alcun ricordo dell’irritante muzak pseudo-hawaiiana che cominciava a diffondersi ancora prima che il giocatore potesse muoversi e continuava per l’intera durata del livello. Era un’incarnazione perfetta di tutti i tremendi accompagnamenti musicali che avevo sentito nella mia carriera da videogiocatore, brani fatti di continui picchi acuti, quasi mai discreti o piatti, apparentemente usciti da un sintetizzatore giocattolo; composti da poche figure musicali sfrigolanti come carne da barbecue pixelata, condannate a tornare potenzialmente all’infinito, o almeno per tutto il tempo che il giocatore avrebbe impiegato per finire il livello. Al confronto, il silenzio di Maui Mallard mi era parso, da piccolo, una soluzione ben più adatta.
Abbandonai il mio tentativo di rigiocare Maui Mallard dopo appena qualche minuto; avevo già una lunga lista di altri giochi da riprovare o sperimentare per la prima volta. Resettai l’emulatore e, mentre scorrevo le altre rom, mi chiesi se non fossi stato io stesso a trarmi in inganno: forse anche la copia che avevo da piccolo era provvista di accompagnamento musicale, ma me n’ero semplicemente dimenticato; oppure ancora, il cd-rom masterizzato che ci aveva portato nostro zio era difettoso. Dieci minuti di Rocket Knight Adventures furono tuttavia sufficienti a farmi dimenticare la questione, almeno per il momento.
Ho ripensato a Maui Mallard qualche settimana fa, leggendo in Internet di un aneddoto su uno strano fenomeno osservabile in Super Mario Galaxy 2, per Nintendo Wii. A quanto pare, uno dei livelli del gioco conteneva una chicca nascosta: se il giocatore effettuava uno zoom verso i limiti esterni dello scenario—segnati da un enorme muro, probabilmente un ghiacciaio—era possibile scorgere delle strane ombre statiche appostate agli argini della montagna, simili ad alberi contorti o a figure aliene.
I siti a tema erano pieni di speculazioni sulla possibile natura di questi inquietanti intrusi, il che non stupisce, considerando come i giocatori amino rivestire di una patina orrorifica titoli come Super Mario che, in realtà, sono per lo più innocui e colorati, apparentemente scissi tanto dalla nostra realtà quanto da derive disturbanti che potrebbero spaventare gli utenti più piccoli. Si tratta forse di una strategia, da parte dei giocatori più cresciutelli, per legittimare la loro immutata passione nei confronti di titoli che li avevano avvicinati ai videogiochi da piccoli, ma per i quali sono apparentemente troppo “vecchi”; i videogiocatori più “macho”, alla loro età, sono ormai passati a una dieta di sparatutto, strategici e azione.
Per alcuni risulta più facile rimanere attaccati a certi giochi—per lo più Nintendo: molto giapponesi, molto frivoli, molto cartoonish—se possono giustificare la loro scelta con una storiella dell’orrore che renda il tutto più cool e “adulto”, sia essa basata su occorrenze effettivamente bizzarre all’interno del titolo (minacciosi nemici zombi o duelli con un doppelgänger oscuro del protagonista in The Legend Of Zelda: Ocarina Of Time), fantasiose messe in discussione delle premesse assurde dietro l’universo di gioco (l’eterno avvicendarsi di stagioni, concittadini e bizzarri eventi nelle piccole città abitate da bestiole antropomorfe della serie Animal Crossing), o ancora glitch o elementi voluti che non sembrano avere spiegazioni logiche (le strane ombre in lontananza nel livello di Super Mario Galaxy 2).
Non nego che l’abbondante dose di speculazioni e creepypasta intorno ai videogiochi possegga il proprio fascino di leggenda urbana per l’era di Internet; ma non era stato solo questo a interessarmi nella storia delle figure nascoste sui ghiacciai di Super Mario Galaxy 2. L’episodio mi aveva piuttosto ricordato quanto possa essere evocativo uno degli elementi di contorno del videogioco: la sua “cornice”, ciò che delimita il livello, l’orizzonte finto che il giocatore non può raggiungere e che dovrebbe dare l’impressione che il mondo fittizio in cui si trova si estenda a perdita d’occhio, come un paesaggio reale.
Gli sfondi, gli skybox, gli scenari in lontananza mi avevano spesso affascinato in maniera quasi ossessiva. Uno dei trucchi che sfruttavo più spesso nei giochi 3D era il cosiddetto noclip, che permetteva al giocatore di muovere il suo personaggio liberamente attraverso i muri e, di converso, i limiti del livello; se si andava troppo avanti, lo skybox mostrava la sua vera natura di “scatola” oltre la quale non esisteva nulla, se non una striscia di cielo pixelato statico e senza vita; sotto di esso un abisso nero fatto di puro niente, sopra di esso nient’altro che cielo dappertutto. Allontanandomi dall’architettura del livello lo vedevo rimpicciolirsi man mano fino a diventare un modellino Playmobil in cui la vita dei PNG andava avanti senza di me.
Li vedevo muoversi come formichine in un labirinto che ora si rivelava in tutto il suo essere “costruito”, un marchingegno fatto per essere risolto e concluso dal giocatore. Se mi addentravo troppo in basso—verso la voragine nera—capitava che il mio personaggio si distorcesse in una scia di doppioni che lo seguivano ovunque, copie difettose che vibravano a battiti serratissimi. E c’erano momenti, poi, in cui mi bastava osservare questo “panorama” fittizio per lanciarmi in catene di associazioni e fantasie molto vivide, che impegnavano la mia immaginazione per lunghi periodi.
Ricordo di essermi soffermato davanti a una finestra nel livello del manicomio che costituiva la demo di Blood 2. L’istituzione era popolata da creature orrorifiche, probabilmente ex-pazienti la cui malattia mentale si era manifestata in maniera mostruosa; si aggiravano per le sale e le celle imbottite, arrancando come se gli mancasse l’equilibrio, i corpi avvolti in camice di forza che non gli impedivano comunque di attaccare ferocemente il giocatore e persino i suoi altri nemici. La finestra che aveva attirato la mia attenzione sembrava dare sulla skyline di una metropoli, ma si riusciva a scorgerne solo uno spiraglio.
Un giro di noclip mi permise di uscire fuori e osservare lo skybox completo: grattacieli neri dalle finestre illuminate, accatastati ordinatamente l’uno accanto all’altro. Comunicavano una straordinaria sensazione di pace. Pensai alle vite delle persone che vivevano e lavoravano in quei palazzi, apparentemente ignare del bagno di sangue che si stava consumando fra le mura del manicomio, o forse rintanante in case e uffici per proteggere le loro esistenze virtuali da qualunque forza oscura si fosse messa comoda da queste parti. “O forse sono tutti morti, e quei palazzi sono vuoti come edifici dipinti su uno sfondo di carta”. Ma quest’ultima ipotesi sembrava molto meno appetibile, troppo greve per essere suggestiva – greve, a ben vedere, quanto lo stesso Blood 2.
Ricordo un livello con ambientazione romana in Tomb Raider Chronicles. Lara Croft stava camminando in equilibrio su una fune sospesa su un volo di due piani, guidata dai miei comandi maldestri. Probabilmente avevo premuto un tasto sbagliato, perché invece di fare un passo in avanti, l’eroina perse per un attimo l’equilibrio e alzò lo sguardo verso il soffitto aperto del palazzo; il cielo era rosso chiaro, come un tramonto d’estate. Più tardi—quello stesso pomeriggio, o un qualunque giorno nelle settimane successive—vidi lo stesso cielo dai vetri di un LIDL, mentre aspettavo che mio padre finisse di pagare alla cassa. Sembrava quasi che i programmatori di Core Design lo avessero ritagliato e incollato nel gioco—o viceversa.
Ricordo un livello di Rocket Knight Adventures dove il cavaliere opossum protagonista del gioco si lanciava in una corsa con jet-pack attraverso i cieli di una città dall’atmosfera steampunk, avvolta nel fumo nero di fabbriche e industrie sfruttate all’eccesso e deturpata da effigi del malvagio Re Maiale (reo, se non erro, di aver commissionato il rapimento della consueta principessa per mano di un traditore, un cavaliere opossum un tempo amico del protagonista—smilzo e darkettone laddove Rocket Knight era pacioccone e sorridente). I tetti delle case (in primo piano) e le ciminiere delle industrie (più lontane) infestavano ogni millimetro dello sfondo, tranne per una striscia di cielo terso all’orizzonte, occasionalmente illuminata da tuoni che scendevano da un vasto assembramento di nuvole nere.
Non posso dire con certezza se i miei mi avessero già portato a Milano; tuttavia, ricordo che gli edifici in centro, d’autunno, mi sembravano imparentati con quelli del gioco—la città era un posto suggestivo ma minaccioso dove dominavano scale di grigi e marroncini, i palazzi erano così alti da schiacciare i passanti, e pioveva sempre. Anni e anni più tardi, l’ascolto del pezzo In the Kingdom of the Blind the One-Eyed are Kings dei Dead Can Dance (per niente simile alla colonna sonora del gioco, ma collegato all’atmosfera del livello per via del suo incedere magniloquente e “piovoso”; musica da acciottolato bagnato e vecchi palazzi in una vecchia città) riporterà nuovamente alle memoria il fossile di quell’associazione per restaurarne altri frammenti: il senso di solennità e malinconia che attribuivo all’impresa disperata del cavaliere opossum (in una terra ostile, tradito dal suo migliore amico e deprivato della sua fidanzata) e che, per interposta persona, provavo anch’io come piccolo videogiocatore.
Questo ci riporta a Maui Mallard. Le avventure del papero ninja erano senz’altro spassose, ma non esattamente colme di “epifanie da skybox” – per forza di cose, quest’ultime sono abbastanza rare nei platform 2D. La città industriale di Rocket Knight Adventures è una delle possibili eccezioni; un’altra è Ninja Training Grounds, il secondo livello di Maui Mallard.
Si trattava del primo stadio del gioco in cui Paperino/Maui assumeva la forma di ninja. Raccogliendo una serie di luccicanti monetine yin yang e premendo un tasto apposito, Maui veniva risucchiato in un vortice dal quale usciva trasfigurato, indossando un kimono da karate nero e una benda rossa che gli copriva gli occhi. L’immaginario del livello, a sua volta, aveva un che di solenne; ricordava l’architettura di un tempio buddista, una rovina antica e maestosa popolata da statue inquietanti. Il “tempio” era aperto verso l’esterno; un altro cielo grigio e piovoso, sotto di esso un oceano scurissimo. A cadenza regolare, i lampi illuminavano gruppuscoli di isole lontane.
L’orizzonte oceanico di Ninja Training Grounds avrebbe riempito molte delle mie fantasie da bambino nei mesi successivi. Un fattore importante era sicuramente l’idea di apertura e movimento verso l’esterno: l’oceano implicava l’esistenza di un mondo oltre a quello dov’era ambientato un gioco, anche se questo mondo non era necessariamente il mio o quello dell’universo Disney da cui veniva il personaggio di Paperino. Volendo essere pigro, potevo tranquillamente immaginare che oltre l’oceano si trovasse Paperopoli; magari Paperina lo aspettava lì, come una Penelope pennuta, tenendo nelle mani il consueto mattarello da dare in testa al fidanzato irresponsabile. E magari Paperino pensava a lei, desiderava smettere camicia a fiori e kimono per tornare a essere il solito adorabile sfigato con casacca da marinaio, lievi difetti di pronuncia e un certo bisogno di frequentare un corso di anger management.
Oppure niente di tutto questo. In quasi tutte le mie fantasie, Paperino/Maui Mallard era più che contento di continuare la sua carriera di ninja. Lo immaginavo in situazioni e scene modellate sulle storie incasinate e fumettose che consumavo quotidianamente: cartoni animati del sabato mattina, altri videogiochi, gli anime del pomeriggio su Italia 1. I dettagli erano per lo più vaghi; non mi interessava poi così tanto rivestire di storie e ambientazioni quelle terre incognite, era più l’idea della loro presenza ad affascinarmi, il fatto che ci fosse qualcosa di non esplorato che la mia immaginazione poteva toccare, pur senza approfondire, come rigirare un regalo di Natale che sapevo contenere un oggetto che mi avrebbe appassionato, senza poterlo ancora aprire.
Ho ripensato a quelle isole leggendo degli alberi-alieni in Super Mario Galaxy 2. Non si può certo dire che avessero la stessa carica disturbante di quelle figure oblique, ma le consideravo in una categoria molto simile: elementi esterni, “altri”, che si affacciavano sulla realtà del livello e ne spalancavano i confini, additavano a un surplus non colonizzato di discorso e immaginazione intorno al gioco.
Andai su YouTube e digitai “Maui Mallard second level”, ottenendo una lunga sfilza di risultati. Nei thumbnail c’erano solo fotogrammi del livello, il che mi rincuorò: significava che i video che avevo trovato erano “puliti”, opera di giocatori silenziosi che volevano semplicemente rendere disponibile la loro esperienza con il titolo. Selezionai il primo risultato della lista e mi misi a guardare il video, in attesa di ritrovare i dettagli che mi avevano affascinato da piccolo. Il cielo era inizialmente di un azzurro purissimo; stesso valeva per le acque che si muovevano gentilmente sotto di esso. Maui Mallard ancora incamiciato s’imbatteva, dopo appena qualche passo, in uno sciamano che lo bloccava in aria con un incantesimo, mentre saltava; il papero volteggiava su sé stesso, e medaglioni yin yang uscivano dal suo corpo volando via in ogni direzione. Mentre l’avatar era sospeso a mezz’aria e si trasformava gradualmente in un ninja, riuscii finalmente ad ottenere una visione indisturbata del paesaggio con oceano, improvvisamente stravolto da un temporale.
La pozza d’acqua occupava solo una minima parte del fondale; s’interrompeva al punto estremo dell’orizzonte lasciando spazio a una strisciolina di cielo nebbioso. Il panorama era dominato da enormi nuvole nere che sovrastavano ogni cosa; il loro corpo enorme era attraversato da buchi che lasciavano intravedere un cielo dal colore stranissimo. I lampi duravano pochissimo ed erano giusto un flebile flash di luce bianca. Non illuminavano nessuna isola in lontananza; l’unica cosa che mi sembrava di scorgere era un’ininterrotta catena di montagne—o era soltanto una striscia di cielo?
La musichetta robotica e i rumori del bastone del ninja che cozzava contro nemici e pareti mi risuonavano nelle auricolari. Lo schema di colori, completamente sfasato, mi presentava un cielo violaceo come quello di un tramonto su un altro pianeta—un pianeta di alieni che sembrano alberi (o alberi che sembrano vivi), oceani neri e isole che appaiono e scompaiono.