Quando la gente dice di ricordare perfettamente la propria infanzia io credo sempre che stia mentendo, o nella migliore delle ipotesi sia convinta di ricordare cose in realtà raccontate da genitori, nonni, zii, eccetera. Nessuno ricorda perfettamente la propria infanzia, ma forse è proprio questa memoria frammentata che permette ad alcuni eventi di riaffiorare in modo talmente nitido da poterli ancora toccare, talvolta di sentirne l’odore. È il Natale del 1997, come da tradizione si aspetta che scocchi la mezzanotte per aprire i regali posizionati sotto l’albero. Mia madre mi ha ripetuto un paio di volte a cena che questo è un regalo grosso, che vale anche per il compleanno. Sfigato io che sono nato i primi di gennaio. E però il regalo è grosso. Il regalo è grossissimo. Strappo via la carta rossa e ruvida, a pattern di triangoli rettangoli, e tra le mie mani, in tutta la sua maestosità, c’è una PlayStation.
Ci sono infiniti aspetti che rendono la prima PlayStation di Sony un punto fermo per il mondo dei videogiochi e dell’intrattenimento, ma in retrospettiva mi sento di dire che il più importante sia l’idea di futuro che portava con sé. Una certa idea di futuro che era ovunque: nella forma dalla console, nelle vibrazioni del dualshock, nei poligoni di Tekken e di Gran Turismo e nei loro CD con il retro nero. Nel groviglio di fasci luminosi che si affastellavano a ritmo di beat elettronici quando avviavi la psichedelica Demo 1, nella dashboard (la si poteva già chiamare così?) con quello sfondo violaceo con le sfere, i blocchi della memory card e i tasti colorati del CD Player. Era tutto studiato, tutto coerente. Sony era riuscita a creare un’identità molto forte per il suo brand, che all’epoca entrava a gamba tesa nella competizione tra Nintendo e Sega. L’antifona era: non sono giochetti elettronici, sono una finestra sul futuro, sono magia. PlayStation aveva diversi assi nella manica per imporsi sul mercato. Primo fra tutti la grafica 3D.
Negli anni Ottanta il Giappone aveva fatto enormi passi in avanti nell’industria elettronica, introducendo novità nel mercato consumer come il Walkman di Sony, il VHS e anche le prime console da gioco. Già all’epoca diverse aziende si stavano approcciando al 3D, tra queste anche Sony che creò il System G, un computer originariamente utilizzato per produrre grafica tridimensionale in tempo reale per le trasmissioni televisive nipponiche. L’intuizione di sfruttare quella tecnologia per una console di videogiochi venne a un giovane ingegnere di Sony, Ken Kutaragi, già nel 1984. Ma il System G era ancora troppo costoso per essere impiegato in un prodotto consumer. Intanto, verso la fine del decennio, iniziava a farsi strada l’idea di utilizzare la tecnologia CD-ROM in ambito videoludico: Sega era al lavoro sul Mega CD, una periferica per il Mega Drive che sarebbe arrivata sul mercato nel 1991, mentre Nintendo aveva stipulato con Sony un accordo per la creazione di un chip sonoro per il Super Nintendo e di uno per l’implementazione dei CD. La partnership prevedeva la realizzazione di un lettore CD per il Super Nintendo e un’unità combinata a marchio Sony che avrebbe letto sia cartucce Nintendo che dischi, nome in codice PlayStation.
A lavorare su questi progetti c’era proprio Kutaragi, e negli accordi era previsto che Sony producesse i supporti CD curandone anche la distribuzione. Questo avrebbe rappresentato una perdita di guadagni per Nintendo, che non era ancora del tutto convinta del supporto ottico, ritenendolo troppo facile da copiare e a rischio smagnetizzazione. Così la casa di Kyoto si rivolse in segreto anche a Philips, diretta rivale di Sony, creando una situazione davvero imbarazzante per aziende di quel calibro (giapponesi, tra l’altro). Infatti, mentre Kutaragi annunciava la collaborazione con Nintendo all’International Consumer Electronics Show del 1991, Nintendo ufficializzava la nuova partnership con Philips per lo sviluppo di un progetto legato al supporto CD. Dopo quell’affronto Kutaragi si impuntò sulla realizzazione di una console a marchio Sony che implementasse la tecnologia del System G. Ci furono parecchie resistenze interne, ma alla fine si convinse anche l’allora CEO di Sony, Norio Ohga, e i lavori iniziarono orientandosi verso un sistema di intrattenimento informatico associato anche con Sony Music.
Nell’ottobre del 1993 la società annunciò di essere al lavoro su una sua console a 32 bit. Restava però un nodo fondamentale da sciogliere: i giochi. Nintendo poteva contare su esclusive iconiche come Super Mario, Sega sulla conversione dei titoli arcade, ed entrambe su una vasta gamma di produzioni third party. Così Sony iniziò ad acquisire studi di sviluppo e aprì le porte a più attori third party rispetto ai rivali, spingendo naturalmente per l’utilizzo del 3D sui giochi PlayStation. Alcune software house erano ancora scettiche, ma ogni dubbio sparì dopo il clamoroso successo di Virtua Fighter, il primo picchiaduro arcade in grafica poligonale 3D lanciato da Sega nel dicembre del 1993. A quel punto furono le stesse software house, come Konami e Namco, a chiedere a Kutaragi se fosse possibile riprodurre qualcosa del genere su PlayStation. Ovviamente lo era, e Sony reclutò in pochi mesi oltre 250 compagnie third party solo in Giappone. Masanori Yamada, chief engineer che ha lavorato ai primi titoli della serie Tekken, ha dichiarato di aver sentito che il mondo stava per cambiare la prima volta che ha toccato una PlayStation.
Il resto è storia: rilasciata nel dicembre del 1994, la console vendette più di 300.000 unità nel primo mese in Giappone e superò i 100.000 preordini al lancio negli Stati Uniti a settembre del 1995. Alla fine del 1996, Sony aveva venduto sette milioni di unità in tutto il mondo. Lo slogan pubblicitario con cui si presentò sul nostro mercato era “Non sottovalutare la potenza di PlayStation”. PlayStation ha inaugurato un periodo d’oro per l’industria videoludica, regalandoci perle del calibro di Metal Gear Solid e Crash Bandicoot, i vari capitoli di Resident Evil e Tomb Raider, i Final Fantasy dal VII al IX e moltissimi altri titoli iconici. Ma ha stimolato anche i competitor, portandoli sul terreno di scontro del 3D dove si impose contro il notevole ma tardivo Nintendo 64 e contro il disastroso Saturn di Sega. Ed era un terreno fertile, i cui frutti arrivarono con la generazione successiva.
Nel settembre del 1999 Sony svelò la sua nuova console al Tokyo Game Show. PlayStation 2 era un monolite nero che permetteva anche di riprodurre DVD e connettersi a internet, e a gestire il tutto c’era una sofisticata CPU a 128 bit chiamata Emotion Engine (perché Kutaragi immaginava sarebbe stata in grado di elaborare calcoli tali da simulare le emozioni, how romantic). Sony stava perfezionando il percorso evolutivo delle console videoludiche da giocattoli elettronici a media center da salotto. Non si trattava più di prodotti per bambini, grazie a PlayStation negli anni Novanta i videogiochi erano diventati un fenomeno pop. C’era persino uno spot pubblicitario realizzato da David Lynch. Quando PlayStation 2 arrivò sul mercato nel 2000 piazzò 500.000 unità nel solo giorno di lancio e avrebbe continuato a macinare numeri impressionanti. Non solo grazie alla fidelizzazione degli utenti con il brand (in Italia in modo eclatante), ma anche per la qualità di titoli third party in esclusiva come i due nuovi capitoli di Metal Gear Solid ma anche la serie Devil May Cry, e produzioni first party del calibro della serie God of War e di ICO e Shadow of the Colossus.
Se lasciamo un attimo da parte l’esito stabilito dal mercato, come anche le sfortunate dinamiche che hanno portato alla débacle di Sega, notiamo che non c’è mai stata una generazione più ricca e varia della sesta. Né prima, né dopo. Il denominatore comune di PlayStation 2, GameCube, Dreamcast e Xbox, della filosofia e dei giochi che le hanno animate, era quell’idea di futuro sempre più incalzante. Forse perché eravamo all’inizio del nuovo millennio e c’era ancora voglia di immaginarlo, il futuro. I giochi volevano essere giochi al massimo del potenziale, e le console alimentavano e arricchivano quella visione, tanto da aver spinto un colosso come Microsoft a investirci (cosa per niente scontata). Un po’ annacquata, quella visione esisteva ancora nei primi anni di vita di PlayStation 3 (stramba fin da subito, sia dentro che fuori, con quel prototipo di controller a forma di boomerang) di Xbox 360 e Wii. Poi è successo che tutto si è appiattito sul presente, dove i giochi sono sempre meno giochi e sempre più realistici, con tutta la noia che la realtà comporta. Sterminati mondi aperti pieni di missioni secondarie sempre uguali fra loro. Ma quand’è che la longevità è diventata un valore? E le console non vogliono più essere una finestra sul futuro, ma solo l’ennesimo device del presente.
Con Nintendo che si è messa a giocare in un campionato tutto suo, il duopolio Sony/Microsoft ha smesso di innovare da un bel po’. Si dirà che lo scarto tecnologico raggiungibile è stato raggiunto, che ormai l’innovazione si misura sui servizi più che sui giochi, ed è tutto vero. Ma è anche un po’ triste. PlayStation 4 e Xbox One sono state le console più conservatrici mai realizzate, quasi un timido upgrade delle macchine precedenti, cui è seguito un ulteriore timido upgrade che ha inaugurato le cosiddette mid-gen. PlayStation 5 e Xbox Series X|S stanno facendo anche peggio. Neanche più le fanfare degli annunci e degli show, e un lancio piuttosto disastroso con l’impossibilità di reperire le macchine nei negozi (certo complice la pandemia). Per certi aspetti non c’è mai stato un periodo migliore per essere un videogiocatore, le nuove console sono retrocompatibili, servizi come il Game Pass di Microsoft erano impensabili fino a qualche anno fa e si può ben sperare che in futuro arriveranno tante esclusive di livello su entrambe le macchine. Ma qual è l’idea di futuro che queste console vogliono comunicare? Forse dovremmo tornare a chiedercelo. Perché a me sembrano quasi un’estensione di smartphone e social network, dove il mondo è bidimensionale. A volte persino monodimensionale. Sto generalizzando, lo so. Il problema è che forse sono stato troppo fortunato. Perché una volta, quando accendevo una console, mi preparavo a una magia. Oggi invece mi preparo al check del wi-fi.