A ripercorrerla oggi, la storia del grande successo del Game Boy sembra costellata soprattutto da una serie di decisioni indovinate, frutto di una lungimiranza tanto lucida da somigliare alla chiaroveggenza. Nintendo, in realtà, aveva solamente una profonda conoscenza dei propri prodotti e del settore, oltre a un organico ricco di menti brillanti in grado di fare quasi sempre la scelta giusta.
La meno scontata e più vincente in assoluto, nel caso del Game Boy, fu quella di produrre una console più arretrata rispetto alle possibilità tecnologiche dell’epoca. A prenderla fu Gunpei Yokoi, che a Nintendo aveva inventato il D-Pad e creato la serie Game & Watch, per la quale aveva già avuto l’intuizione di sfruttare componenti economiche e largamente disponibili: in quegli anni, in cui aziende come Sharp e Casio inondavano il mercato di calcolatrici, era infatti molto semplice rifornirsi di schermi LCD a prezzi contenuti.
Il Game Boy allora sarebbe stato rivoluzionario nel riprendere dal NES l’uso delle cartucce in una console portatile, ma sarebbe anche stato familiare ereditando dal controller del NES, con un’altra preziosa intuizione, lo schema dei comandi, uguale persino nella disposizione, nel colore e nel nome dei tasti; e pur non avendo le figure già impresse dentro lo schermo come i Game & Watch, proprio perché avrebbe letto i dati dalle cartucce, si sarebbe comunque presentato con un LCD monocromatico, nonostante la facilità con cui se ne sarebbe potuto produrre uno a colori. Il guadagno stava tutto nell’autonomia: con quattro pile stilo si poteva giocare fino a quindici ore.
Si narra che nel 1989, poco dopo il lancio del Game Boy, alcuni dipendenti entrarono preoccupati nell’ufficio di Yokoi, annunciandogli l’arrivo di una console portatile concorrente, l’Atari Lynx. Yokoi si limitò a chiedere se fosse a colori o no. Quando gli venne risposto che era a colori, li rassicurò: non c’era alcun problema. L’Atari Lynx, infatti, di pile ne consumava sei, e in appena cinque ore. Vero o falso che sia, questo aneddoto ci racconta con quale convinzione Yokoi puntò non sull’hardware migliore possibile, ma su quello in grado di esaltare la principale caratteristica del Game Boy, vale a dire la portabilità.
Lo stesso problema dell’Atari Lynx lo avrebbero avuto più tardi altre due console portatili come il Game Gear di Sega e il PC Engine GT di NEC, che oltre alla scelta dello schermo a colori pagavano anche il ritardo con cui uscivano: nel frattempo Nintendo aveva già costruito una solida line-up per il Game Boy. La bontà dei giochi in catalogo la si poteva intuire già al momento dell’acquisto: in Occidente il Game Boy venne proposto in bundle con Tetris, preferito all’ultimo momento a Super Mario Land, e fu ancora una volta una decisione vincente.
Tetris non solo era—e resta—forse il miglior rompicapo mai creato, ma contribuiva a ovviare all’unico errore fatto da Nintendo con il Game Boy. Perché in mezzo a tante decisioni impeccabili spicca una scelta discutibile: è forse l’unica console mai prodotta il cui nome suggerisca subito un target demografico. Perché quel “boy”? Stava a indicare un prodotto più adatto ai maschietti che alle bambine? Si dava per scontato che per un adulto sarebbe stato un oggetto privo di qualsivoglia interesse?
Il puzzle game ideato dal programmatore russo Aleksej Leonidovič Pažitnov iniziava a risolvere il problema perché era davvero godibile da chiunque. Anzi, essendo un gioco in cui i successi svaniscono in un attimo mentre gli errori si accumulano inesorabili sullo schermo, Tetris appare un’opera contrassegnata da un pessimismo degno della terra che ha dato i natali a Turgenev, Tolstoj e Dostoevskij, e perciò apprezzabile soprattutto da un pubblico maturo.
A correre ai ripari ci pensò anche il packaging: distribuire il Game Boy dentro una scatola con un’illustrazione futuristica, con le mani robotizzate di un giocatore a reggere la console in uno spazio virtuale, mirava senz’altro a raggiungere un pubblico il più vasto possibile. L’importanza del packaging però non si limitava alle console; la box art di ogni singolo gioco svolgeva in quell’epoca un altro fondamentale ruolo—si tratta di un aspetto affrontato in modo esaustivo negli otto episodi della serie Video Game Box Art: The Stories Behind the Covers di Robert McCallum.
Oggi da un videogioco è possibile sapere cosa aspettarsi persino senza volerlo: il volume del materiale prodotto da studi di sviluppo, publisher e giocatori è tale che, anche senza effettuare una ricerca, senza avere alcun particolare interesse nei confronti di certi titoli, è facile imbattersi in una gif animata su Twitter, in un trailer su Youtube, in un let’s play o in un walkthrough su Twitch e farsi un’idea piuttosto buona del loro aspetto grafico. Una volta non era così, e il ruolo della box art consisteva proprio nel trasmettere l’atmosfera e i temi di ogni videogioco al potenziale acquirente, che per il resto poteva fare affidamento giusto sulle immagini a corredo di qualche articolo su una rivista specializzata.
Luigi Ghirri—lo riporta Joan Fontcuberta nel suo saggio La furia delle immagini—descrisse la famosa fotografia The Blue Marble, realizzata dagli astronauti dell’Apollo 17, come lo scatto che conteneva tutti gli altri; in una box art, non troppo diversamente, l’immagine è chiamata a riassumere in sé ogni schermata di un gioco. Deve essere veloce a catturare l’attenzione del giocatore, e costante nello stimolarne l’immaginazione e la fantasia fino al momento dell’acquisto e, nel caso di grafiche povere di dettagli come quelle dei videogiochi sulle console portatili, magari anche dopo.
Nell’approcciare Game Boy: The Box Art Collection, la nuova pubblicazione di Bitmap Books che raccoglie una serie di copertine di giochi usciti per la console portatile di Nintendo, appare importante allora sottolineare questo aspetto: non è solo un catalogo di immagini; è un catalogo di desideri, aspettative, proiezioni. Ogni box art è un viaggio negli strumenti utilizzati dall’artista per approssimare al meglio l’idea di certo titolo, e allo stesso tempo è un’immersione nella testa dei giocatori, o di chi si preparava a scegliere un regalo; è sempre, insomma, la figura dell’anticipazione di un’esperienza di gioco. Scorrendo le immagini con questo spirito, Game Boy: The Box Art Collection si rivela un libro affascinante come pochi.
Anche dal punto di vista informativo non mancano i contenuti: per ogni titolo viene sia descritto a grandi linee il gioco, sia commentata brevemente la box art, con eventuali riferimenti alle differenze tra la versione occidentale e quella giapponese; sei schermate scelte consentono poi di confrontare presentazione e realtà. Per quanto riguarda il volume in sé, lungo 372 pagine, generoso nelle dimensioni e quadrato come le box art che raccoglie, vale quanto già detto più volte a proposito dell’editore: i libri di Bitmap Books sono sempre caratterizzati da una cura maniacale nell’impaginazione, nella scelta dei materiali e persino nell’imballaggio usato per la spedizione: la passione di chi li produce è pari a quella del pubblico a cui sono rivolti.