Paradise Lost è un walking simulator ambientato in una dimensione storica alternativa in cui i nazisti hanno perso la guerra ma sono sopravvissuti in alcuni bunker sotterranei in Polonia. Alla fine delle circa quattro ore di gioco, ancora non è chiaro il collegamento con l’omonima opera di Milton, salvo una fugace apparizione del tomo nel filmato introduttivo. Quel che conta davvero, però, è che si tratta di un simulatore di camminata dal gameplay davvero minimale, più di quanto non avvenga normalmente con il genere che ha tra i suoi più illustri rappresentanti What Remains of Edith Finch.
A differenza dell’opera di Giant Sparrow, ad esempio, in cui la passeggiata della protagonista si arricchiva, ogni tanto, di qualche mini-gioco, Paradise Lost ha bisogno di due levette, due tasti e un grilletto per poter essere giocato dall’inizio alla fine. L’ultimo è addirittura un lusso, nel senso che funziona in combinazione con un tasto quando c’è da tirare una leva, in modo da riprodurre più fedelmente il movimento in due tempi: nel caso della leva, afferrare, tirare; nel caso del pad, schiacciare (il grilletto), schiacciare (il tasto).
Prevedibilmente questo aspetto ha suscitato riflessioni meta-videoludiche negli estensori delle recensioni apparse in rete. Paradise Lost è un videogioco? La risposta è sì. Ci si arriva anche attraverso un ragionamento inverso. Lo definireste una fotografia? Un libro? Un balletto? Un cesto di ciliegie? Potreste vederlo al cinema insieme ad altre persone? Dura un numero preciso di ore e minuti per tutti? Presenta una concatenazione di inquadrature collegate attraverso il montaggio?
Non credo sarebbe possibile assimilare Paradise Lost a un film o a una serie TV. E questo perché le definizioni, che andrebbero discusse in sede accademica, sono utili soprattutto quando lavorano sulle zone grigie. Per tutto il resto, ovvero quando non c’è pericolo sbagliarsi, funziona benissimo definire X quello che intuitivamente è X. E quindi un punto è un punto, una retta è una retta e Paradise Lost è un videogioco.
Il grado di interazione però è minimo. Per quasi tutto il tempo, ci si guarda intorno, leggendo tra le righe della scenografia, magari con l’ausilio di qualche documento, una storia declinata al tempo passato, perché è già finita nel momento in cui ci viene raccontata. Non abbiamo la possibilità di raccogliere armi, combattere i nazisti o potenziare il nostro equipaggiamento. Come lo spettatore di un film, siamo impotenti rispetto agli eventi e l’incedere lento e cadenzato dei passi del giovanissimo protagonista non viene interrotto neppure da un mini-gioco. E allora, per compensazione, quel che risalta è la storia: alla storia è asservito il gameplay. Scelta lecita per un videogioco? Certo. Si tratta di una bella storia? Ecco, qui la risposta è meno immediata.
Nel futuro alternativo di PolyAmorous i seguaci di Hitler hanno messo in pratica un piano da sciroccati, che però è esistito davvero, pur non essendo, nella realtà, mai decollato. Si tratta del cosiddetto Projekt Riese, consistente nella costruzione di una serie di tunnel sotterranei in Europa Orientale. Gli sviluppatori indipendenti di Varsavia hanno attinto alla vicenda, in un certo senso (anche) nazionale, per spostare i binari della Storia e dirottare il treno del nazismo, altrimenti prossimo al capolinea. Il “what if” ne ha consentito la sopravvivenza a medio termine: nei tunnel della Polonia, i tedeschi si stavano riorganizzando per un nuovo attacco, anche nucleare. Ma la Resistenza polacca ha portato a termine ciò che gli Alleati, a causa dell’intervento tardivo degli Usa, non sono riusciti a fare.
La tomba degli ultimi nazionalsocialisti resta isolata dal mondo finché Szymon non parte alla ricerca delle proprie origini. Il dodicenne si mette in moto attraverso la coltre dell’inverno nucleare scatenato dai tedeschi per “sigillare” l’accesso ai tunnel con la radioattività delle bombe. In mano ha una fotografia e alle spalle ha una madre morta e una casa rimasta deserta. Il suo destino sarà incontrarsi con l’unica altra entità senziente ancora rimasta nei bunker nazisti.
Per quanto la trama possa risultare allettante, a mio parere già in una sintesi di poche battute c’è abbastanza per storcere il naso. Analizzando le premesse sul piano della verosimiglianza, è chiaro che per nessun popolo sia (ancora oggi) possibile costruire opere ingegneristiche tali da consentire non soltanto il trasporto sotterraneo da una nazione all’altra (avete presente da quanto tempo stanno costruendo la metro a Roma?) ma anche la sopravvivenza di un’intera comunità all’ombra nella buia terra.
Come è possibile coltivare senza la luce del sole e le precipitazioni? Come fanno gli uomini a non impazzire? Ma soprattutto, dove prende le sue risorse una società che ha l’ambizione di superare tecnologicamente il resto del mondo da sotto terra? Si tratterebbe non soltanto di autarchia (sistema economico storicamente fallimentare) ma persino di autarchia sotterranea. Sono poche le civiltà in grado di prosperare in superficie, è assurdo pensare che ne esista soltanto una in grado di farlo sotto i nostri piedi, trasportando tutte in una volta le risorse di cui ha bisogno una società complessa.
Insomma, nonostante la sospensione dell’incredulità regali qualche margine, Paradise Lost va decisamente oltre, chiedendoci di credere a qualcosa che proprio non sta in piedi, da qualsiasi parte lo si guardi. E non basta il riferimento storico, perché il Projekt Riese non prevedeva un’opera di scavo così colossale e ambiziosa. Il problema, di ordine narrativo, riguarda tuttavia l’intero medium. Le trame nei videogiochi sono così: non suggeriscono, urlano, non picchiettano sulla spalla per attirare la tua attenzione, ma ti fanno girare con un ceffone sulla nuca. Nei videogiochi le cifre stilistiche della narrazione sono spesso esagerate. E naturalmente di eccezioni ne esistono, ma le conferme sono molte di più. E vale anche per un gioco che, come questo, non solo si rivolge alla nicchia, ma mette anche al centro dell’intera operazione la storia.
Si diceva delle eccezioni. Return of the Obra Dinn ci mette davanti una storia che non può prescindere da uno sforzo interpretativo del giocatore e che può cominciare dalla fine o dal bel mezzo, pur rimanendo in fin dei conti sempre la stessa. Tra i walking simulator c’è Virginia, bellissimo. Il gioiello di Variable State ha il coraggio di lasciare l’utente in uno stato di confusione che può essere fatto rientrare solo tramite una lettura critica di fatti, luoghi e personaggi. Tuttavia in Virginia c’è un convitato di pietra. L’opera si ispira così chiaramente a Twin Peaks che può far leva su un riferimento enorme per sollecitare lo stesso approccio critico-interpretativo necessario a capire la serie (e più in generale Lynch).
What Remains of Edith Finch, beh, non è un’eccezione. La narrazione dalla grana grossa tradisce un approccio sensazionalistico identico a Paradise Lost. Ci sono naturalmente tantissimi esempi che non ho fatto, e che sarebbero stati più problematici, ma persino un certo tipo di indie game, spesso considerato artisticamente elevato, tradisce una standardizzazione dei toni (incantati, fiabeschi, poetici, ecc.) e una mancanza di sfumature rispetto alle narrazioni che possiamo godere sul altri medium.
Per spiegare un po’ meglio cosa non va in Paradise Lost, ho pensato sarebbe stato bene partire da ciò che avrei voluto vedere: la scelta di alcuni circoli di potere che, in un regime totalitario, hanno progressivamente perso il contatto con la realtà. Projekt Riese non come un progetto fattibile e fallito per l’intervento della Resistenza polacca, ma un come progetto destinato a fallire dall’inizio, alimentato dalla follia visionaria del nazisti, che si sono creduti onnipotenti fino a un momento prima della sconfitta. Il protagonista si sarebbe potuto aggirare tra i resti di una civiltà mandata allo sbando con la promessa della sopravvivenza e della rinascita, finendo poi con il cannibalizzare se stessa una volta capito che non c’era nessuna speranza di realizzare i colossali bunker della ripartenza.
Oppure, se proprio tunnel dovevano essere, avrebbero dovuto essere stretti, angusti, finiti a metà. La comunità sarebbe dovuta degenerare e non prosperare. E avrebbero dovuto essere molto chiari i presupposti della sopravvivenza: da dove arrivavano le risorse? Quali erano i rapporti di potere tra le varie parti dell’organismo sociale? Quale impatto ha avuto la totale mancanza di luce sull’equilibrio mentale delle persone? Naturalmente non oso immaginare le difficoltà davanti alle quali si sono trovati gli sviluppatori di PolyAmorous, d’altra parte un articolo vale ben poco del lavoro di chi dà forma alla propria immaginazione tramite un videogioco. Però la questione resta: i videogiocatori sono pronti a narrazioni più sofisticate? E gli sviluppatori sono pronti a crearle?