Negli ultimi venti anni la Simulation Theory, vale a dire l’idea che la nostra realtà sia una simulazione generata da qualcun altro, non ha mai smesso di essere dibattuta e di guadagnare popolarità. Il regista americano Rodney Ascher, da sempre attento alle ossessioni della contemporaneità—non a caso deve la sua fama soprattutto a Room 237, un documentario sui presunti messaggi nascosti da Kubrick all’interno di Shining—ha dedicato proprio a questa teoria la sua nuova opera, A Glitch In The Matrix, presentata all’ultimo Sundance Festival. Per offrire un quadro il più possibile completo, Ascher si muove in due direzioni; gli interessa mostrare qual è la visione del mondo di chi crede in questa teoria, ma anche spiegare le ragioni del suo successo. Il punto di partenza sono sicuramente i videogiochi, perché se con grandi produzioni come Grand Theft Auto V o Cyberpunk 2077 siamo già oggi in grado di simulare mondi estremamente vasti e complessi, a distanza di appena quarant’anni da titoli molto elementari come Pong o Space Invaders, cosa ci consentirà di fare la tecnologia tra qualche altro decennio?
È l’argomento usato in più occasioni da Elon Musk, che molto ha contribuito a far circolare l’idea, ma A Glitch In The Matrix propone per la Simulation Theory origini più profonde e persino più antiche. Più profonde perché, a ben vedere, il nostro cervello fa da sempre quello che farebbe la macchina che ci simula: nel sonno crea dei mondi che ci sembrano del tutto credibili mentre dormiamo, salvo poi scoprire al risveglio che si trattava di un sogno e non della realtà; sono migliaia di anni che questo genere di illusioni fa parte della nostra esperienza. Più antiche perché la Simulation Theory potrebbe essere considerata una versione del mito della caverna di Platone aggiornata all’epoca di internet, dei videogiochi e dei tanti dispositivi tecnologici connessi alla rete. Cosa sono le ombre osservate dagli uomini incatenati e tenuti prigionieri nella caverna, se non il primo rudimentale esempio di simulazione a cui poteva pensare un uomo dell’antica Grecia? Da quella fondamentale allegoria in poi, le costruzioni si sono fatte allo stesso tempo più cervellotiche e più futuristiche.
Baba is Free
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Nel tracciare una mappa delle recenti tappe più significative, si può senz’altro partire dalla famosa conferenza a Metz del 1977 in cui Philip Dick chiama forse per la prima volta in causa l’informatica: «we are living in a computer programmed reality», dichiara testualmente e in largo anticipo sui tempi. La registrazione completa del suo intervento si trova su YouTube e diversi spezzoni sono stati ripresi da Ascher nel suo documentario, compresa la frase appena citata. Inoltre occorre sicuramente tenere nella giusta considerazione l’enorme fenomeno rappresentato dal film Matrix, nonché la sua perdurante influenza; infine, prima di tornare al presente, appare altresì necessario fermarsi a esaminare le argomentazioni del filosofo Nick Bostrom, che nel 2003 con il suo articolo intitolato “Are You Living in a Computer Simulation?”, pubblicato su Philosophical Quarterly, ha posto le più solide basi di cui la Simulation Theory disponga.
Bostrom insinua il dubbio usando i semplici strumenti della logica e del calcolo delle probabilità: il suo studio “sostiene che almeno una di queste frasi sia vera: (1) la specie umana molto probabilmente si estinguerà prima di aver raggiunto una fase “post-umana”; (2) ogni civiltà post-umana molto difficilmente produrrà un significativo numero di simulazioni della sua storia evolutiva (o di variazioni della stessa); (3) viviamo quasi certamente in una realtà simulata. Ne segue che la convinzione che l’umanità abbia buone possibilità di raggiungere una fase post-umana in cui crea simulazioni dei propri antenati è falsa, a meno che non viviamo in una simulazione”. (E quando si parla di simulare i propri antenati, non si può fare a meno di pensare di avere già Ancestors o Civilization.)
Bostrom espone le sue idee anche in A Glitch In The Matrix, comparendo di persona, mentre alcuni degli altri individui intervistati da Ascher appaiono sotto forma di avatar per raccontare le esperienze che li hanno convinti di vivere in una simulazione; una scelta bizzarra che ben si sposa con le sequenze in computer grafica a corredo delle loro storie, come pure con il montaggio forsennato di frammenti di decine e decine di videogiochi, film e serie TV—si va da Doom a Fallout 4, da Minority Report a Essi vivono, da Adventure Time a Rick & Morty—grazie ai quali il documentario si mantiene vivace e appassionante a livello visivo. I contributi di questi partecipanti non aggiungono molto all’argomento e si basano principalmente su episodi di vita particolari e deliranti teorie del complotto, ma anche da loro arriva qualche potente suggestione, come il parallelismo tra l’unità minima rappresentata dal pixel in un videogioco e l’unità minima rappresentata dalle particelle subatomiche nella nostra realtà.
Ad Ascher però la loro presenza serve soprattutto a introdurre la questione etica: se per Ivan Karamazov è sufficiente l’inesistenza di Dio perché tutto sia permesso, a cosa si può arrivare pensando che il prossimo non sia nemmeno una persona, bensì un avatar? Chi pensa di vivere in una simulazione coltiva un pensiero pericoloso che può condurre al solipsismo, alla paranoia, alla psicosi; andando ben oltre l’esse est percipi di George Berkley, potrebbe iniziare a mettere in discussione persino l’esistenza di coloro che ha davanti ai suoi occhi. La Simulation Theory si presta insomma a un’interpretazione radicale e fanatica che porta ad arrogarsi il diritto di decidere se considerarsi soli o in compagnia di qualcuno all’interno della simulazione, e di stabilire lo statuto ontologico di chiunque altro. “NPC”, acronimo per personaggio non giocante, ovvero controllato dal computer all’interno di un videogioco, è già diventato un meme e un insulto usato dall’alt-right americana—per molti versi collegata alla cultura gamer, come mostra bene il libro Game Over curato da Matteo Bittanti—per dire che una persona, spesso un avversario politico, non è in grado di ragionare con la propria testa.
Logging out
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Più in generale, l’approccio fanatico si lega alle narrazioni della fiction di riferimento, in cui il protagonista si trova al centro del suo mondo, è l’unico o uno dei pochi ad aver coscienza della vera natura delle cose, e cerca un modo per fuggire dalla simulazione e accedere finalmente alla realtà: come il prigioniero liberato di Platone esce dalla caverna e si abitua alla luce del giorno, come Dick inizia a vedere nei suoi romanzi non più opere di finzione ma reportage da mondi alternativi, come Neo in Matrix sceglie la pillola rossa e si risveglia in una vasca, allo stesso modo il seguace della Simulation Theory cerca nella realtà una prova della simulazione, A Glitch In The Matrix, e crede magari di trovarla nell’effetto Mandela. Alla fine, poiché in un certo senso qui si parla di domande fondamentali—“chi ci sta simulando” non è forse la versione tech-savvy di “chi ci ha creato”?—è improbabile che la risposta rientri nell’ambito del conoscibile; le simulazioni che ci sono più familiari suggeriscono anzi il contrario, perché se il nostro universo si trovasse nell’hard-disk di qualcuno, la possibilità di venirlo a sapere e uscirne fuori sarebbero le stesse che ha un personaggio di No Man’s Sky di saltare improvvisamente fuori da un computer o da una PlayStation.
Poco male, perché la parte davvero interessante della Simulation Theory non sta nello sciogliere il dubbio ma nel materiale che offre per speculazioni e riflessioni sulla natura e le potenzialità dei mondi simulati. Si schiudono le porte per associazioni e accostamenti a cui è difficile resistere. Quando ad esempio il fisico Roger Penrose osserva che a essere strana è la fisica classica, nella quale non c’è spazio né spiegazione per la coscienza, e non la fisica quantistica, dove la presenza di un osservatore è fondamentale perché si passi dal campo delle probabilità a un esito registrabile, si fa fatica a non notare quanto sia sospetta—e simile al risultato di una generazione procedurale—una realtà che resta indeterminata finché non arriva qualcuno a dare un’occhiata. Il fumettista Chris Ware, anch’egli ospite di A Glitch In The Matrix, traccia la direzione giusta descrivendo Minecraft, a cui gioca con sua figlia, come la cosa più vicina all’esperienza di una coscienza disincarnata che riesca a immaginare: sarà interessante capire non tanto se ci troviamo in una simulazione, ma come vorremo usare e interpretare i mondi virtuali sempre più complessi che siamo capaci di creare.