Giocando The Entropy Centre è inevitabile avere l’impressione di trovarsi di fronte al perfetto complemento di Portal. Se nel gioco di Valve ci si trovava in una serie di camere di test a usar cubi impugnando una pistola che permetteva di manipolare lo spazio, creando contiguità tra due superfici lontane, nell’opera prima di Stubby Games, vale a dire dello sviluppatore Daniel Stubbington, ci sono ancora camere di test, ancora cubi e ancora una pistola, con la quale si manipola però il tempo. Trasportiamo un cubo da una posizione a un’altra, poi lo colpiamo con un raggio, e quello comincia a viaggiare a ritroso, ripercorrendo lo spazio che aveva appena attraversato. È facile immaginare, allora, come si risolvano i puzzle: prima la pianificazione, durante la quale facciamo passare i cubi sopra tutti gli interruttori che dobbiamo attivare, seguendo un certo ordine, e poi l’esecuzione, per mezzo dell’utilissima pistola. Più facile a dirsi che a farsi, anche se i rompicapo in realtà non sono mai troppo cervellotici. Per variare il gameplay, poi, cubi di tutti i tipi: semplici, per saltare, per creare ponti e via dicendo, oltre a sporadiche sezioni action in cui il ritmo accelera.
Nonostante la pregevole fattura dei puzzle, però, l’aspetto più interessante di The Entropy Centre è la cornice narrativa: «Ciò che mi ha ispirato maggiormente di Portal è il rapporto tra il susseguirsi dei puzzle e l’avventura del gioco», ha raccontato Daniel Stubbington a TechRadar. La struttura in cui ci troviamo è una gigantesca stazione in orbita attorno alla Terra, e il motivo per cui passeremo parecchio tempo a risolvere i rompicapo delle camere di test è che, beh, il pianeta è stato distrutto. Ora, non si può dire che la distruzione dell’unico luogo in cui sappiamo di poter vivere nell’intero universo sia un tabù: sugli schermi cinematografici è stata rappresentata più volte e agli scopi più disparati, dalla metafora per la depressione (Melancholia di Lars Von Trier) al commento sulle storture della società contemporanea (Don’t Look Up di Adam McKay); resta in ogni caso un evento-limite, un evento-ultimo—un evento che, come scrive Slavoj Zizek in Evento, “non è più un semplice mutamento di frame, ma è la distruzione del frame in quanto tale, ossia la scomparsa dell’umanità, il supporto materiale di ogni frame”. Insomma, bisogna sempre avere una buona ragione per mostrare la Terra distrutta, e The Entropy Centre ne ha una piuttosto affascinante.
Risolvere puzzle nelle camere di test, nel mondo del gioco, è un lavoro: significa produrre ordine a partire dal disordine, cioè vincere l’entropia, cioè poter invertire il corso del tempo; e qui si entra nell’ordine di idee di una fantascienza con apprezzabili basi scientifiche. L’entropia può infatti essere pensata come una misura del disordine: per utilizzare un esempio ludico, prendiamo il caso di un mazzo di carte. Immaginatevelo appena comprato, con le carte in ordine per seme e per valore. È una configurazione unica, la più ordinata possibile, in altre parole quella caratterizzata dall’entropia più bassa. Cominciando a mischiarlo, aumenta il disordine—che è come dire: aumenta l’entropia—del mazzo, e si producono configurazioni sostanzialmente indistinguibili in cui le carte sono variamente scompaginate. Quante possibilità ci sono, continuando a mischiare il mazzo, di tornare alla configurazione iniziale? Qualcuno l’ha calcolato: circa le stesse di vincere alla lotteria nove volte consecutive.
Cosa ha a che fare questo con il tempo? Dire che il tempo scorre dal passato verso il futuro presuppone l’essere umano, o comunque un essere pensante, dotato di coscienza: non esiste passato senza memoria, senza ricordi o esperienza. Una definizione più rigorosa e non soggettiva del tempo è invece proprio questa: il tempo scorre nella direzione in cui l’entropia cresce. Nel mondo di The Entropy Centre, allora, i puzzle vengono risolti per ottenere energia entropica, accumularla, e poi usarla per invertire il corso del tempo: all’interno della stazione è presente un dispositivo che è in sostanza un gigantesco cannone, una versione parecchio più grande e più potente della pistola in uso nelle camere di test, puntato verso la Terra. Se sul pianeta accade qualcosa di spiacevole, il cannone spara e lo riavvolge indietro nel tempo, permettendo così all’umanità di ripartire da un momento che precede una catastrofe, e di innescare un corso degli eventi più favorevole, di allinearsi a una cronologia maggiormente desiderabile.
Un asteroide colpisce la Terra? Viene fuori che—ops—una specie si è appena estinta? Apocalisse nucleare? Rivolta delle intelligenze artificiali? Niente paura, ci pensa l’Entropy Centre. È la gamification del destino del genere umano. Un servizio senz’altro utile, forse deresponsabilizzante; di certo non infallibile, perché qualcosa è evidentemente andato storto. Nel corso del gioco sarà possibile farsi un’idea abbastanza precisa sia di cosa non abbia funzionato, sia di quali possibilità abbia la Terra di essere salvata, ma anticipare qualcosa qui aggiungerebbe poco a quanto detto finora e rovinerebbe il gusto di scoprire poco a poco un titolo che forse non ha goduto della giusta considerazione. Pesa, di certo, la vicinanza con Portal, e la sensazione che l’opera di Daniel Stubbington non soltanto gli somigli, ma non sarebbe stata possibile senza il capolavoro di Valve.
Nell’intervista già citata, lo sviluppatore affronta direttamente la questione: «Durante lo sviluppo ero davvero preoccupato per gli inevitabili paragoni con Portal. Credo che la serie Portal sia stata il coronamento del genere in prima persona. Ciò rende molto difficile inserirsi senza essere etichettati come imitatori, indipendentemente dal fatto che il proprio gioco abbia o meno dei puzzle con meccaniche legate ai portali. Per me il genere comunque aveva ancora un potenziale inespresso». Le cose, in effetti, stanno esattamente così: alla luce di quanto detto a proposito del collegamento tra la trama e le meccaniche legate alla manipolazione del tempo, The Entropy Centre sembra davvero mostrare potenzialità inedite per i rompicapo in prima persona. Nonostante sia un gioco derivativo, si dimostra in grado di aggiornare il genere, avvicinandolo a quella sensibilità da fine dei tempi che, a torto o a ragione, è maturata negli ultimi anni tanto nelle arti—e negli stessi videogiochi: basti pensare a The Talos Principle—quanto nella speculazione scientifica e filosofica. Poi, è chiaro, Portal ormai non è solo storia, ma mitologia dei videogiochi. È “the cake is a lie”, è la voce e la personalità di GlaDOS, è l’arancione e il blu dei portali, è un meme—è, in una parola, inavvicinabile. Sarebbe ingiusto, e non si farà certo qui un simile torto a Daniel Stubbington, proporre un confronto; al contrario, vedere un singolo sviluppatore accostarsi con idee così buone e così chiare all’apice creativo di uno degli studi più acclamati di sempre non può che suscitare ammirazione.