Poche software house sono oggetto di amore e odio da parte della propria fanbase al pari di Firefly Studios. Lo studio inglese ha avuto il grande merito—per certi versi la grande colpa—di aver prodotto, con Stronghold, l’ultima vera innovazione nel genere degli strategici in tempo reale. Si tratta di un tipo di videogiochi ai quali sono particolarmente affezionato, avendo potuto iniziare a giocarli proprio con il titolo con cui sono nati, Dune II (1992) di Westwood Studios. Quell’opera seminale poneva già tutte le fondamenta che avrebbero continuato a definire il gameplay dei giochi RTS: raccogliere risorse, costruire una base, produrre unità, formare un esercito in grado di prevalere su quello nemico. La formula negli anni Novanta ebbe un tale successo da essere riproposta innumerevoli volte con altri titoli, a volte in grado di raffinarla con l’introduzione di elementi originali.
Command & Conquer (1995-2003), ancora di Westwood Studios, aggiungeva maggiore varietà alle unità a disposizione, con fanteria, veicoli, veivoli e persino imbarcazioni; Age of Empires (1997-), di Ensemble Studios, con cui una Microsoft ancora ben lontana dall’idea di fabbricare console iniziava a imporsi sul mercato videoludico, includeva ben dodici civiltà diverse, caratterizzate da unità uniche e differenti stili nelle costruzioni, laddove Command & Conquer presentava appena due fazioni, e Dune II tre casate; Starcraft (1998-) di Blizzard aveva sempre tre razze, ma non se ne erano mai viste di così diverse sotto ogni punto di vista, dall’aspetto allo stile di gioco. Per ultimo arrivò come anticipato Stronghold (2001-) a proporre un gameplay basato su fortificazioni e assedi; se la possibilità di difendersi con mura di cinta e torrette era già presente in Age of Empires e addirittura in Dune II, con i giochi di Firefly Studios diventava il fulcro del gioco e conosceva una profondità inedita, con meccaniche peculiari in grado di premiare sia la resistenza (olio bollente da gettare sul nemico che scala le mura) sia la perseveranza (mucche infette da catapultare nel castello avversario per diffondere un’epidemia).
A distanza di vent’anni—e spesso più—da quei titoli, è impossibile fare a meno di notare come il genere si sia presto scontrato con “un muro fatto di perfezione e poca perfettibilità”, per citare uno dei primi articoli apparsi su queste pagine. Arrivati al punto in cui non c’era più molto da aggiungere o da migliorare, i titoli più amati sono sopravvissuti nella memoria collettiva e, nell’atto pratico di continuare a giocarli, in un’infinita serie di remake ufficiali e non. Oggi è possibile rivivere gli scontri dei classici di Westwood Studios, da Dune 2000 ai vari Command & Conquer, grazie al progetto OpenRA; persino un titolo ormai quasi dimenticato—ma tuttora di culto per chi lo ricorda—come Z di Bitmap Brothers continua a essere disponibile sia su Steam nella versione originale sia nella ricreazione di The Zod Engine; Starcraft è fermo al sequel del 2010, che gode di grande popolarità in ambito esport; di Age of Empires sono disponibili le “definitive edition” dei primi tre giochi mentre si attende in autunno l’arrivo del quarto capitolo.
In un contesto simile, in cui la fa da padrone la nostalgia, è quasi comprensibile che, agli occhi di alcuni, la principale colpa di Firefly Studios sia in buona sostanza ostinarsi a fare nuovi giochi non all’altezza dei classici invece di produrre i remake dei primi due amatissimi capitoli, Strongold e Stronghold: Crusader. Adottando il punto di vista degli sviluppatori, però, è altrettanto facile capire perché vogliano portare avanti la serie invece di guardare al passato: è la loro passione e il loro mestiere, in fin dei conti. Preparandomi a scrivere questo pezzo ho a lungo accarezzato l’idea che la cosa più interessante da fare non fosse tanto giocare il nuovo Stronghold: Warlords, quanto approfondire questo complicato rapporto tra sviluppatori e fanbase seguendo ogni discussione su r/stronghold. Alla fine però l’ho giocato per un discreto numero di ore e—indovinate?—ho iniziato anch’io a provare un micidiale mix di entusiasmo e delusione.
A questo punto è doveroso premettere che Stronghold: Warlords è per molti versi un gran gioco. A chi non fosse disposto a fare i conti con le limitazioni dei primi titoli, che hanno ormai due decenni alle spalle, lo si potrebbe segnalare persino come il miglior capitolo della serie; a tutti gli altri, come lo Stronghold in 3D più riuscito. Cattura pienamente lo spirito degli strategici della vecchia guardia, ha un’immediatezza e una fluidità invidiabili, sa benissimo come coinvolgere chi gioca, come dosare il numero di attività di cui occuparsi e il ritmo con cui l’azione di svolge, e un approccio molto empirico e per nulla analitico al game design dice che è sempre un buon segno se sono le due di notte e devi andare a dormire ma ti sembra di aver giocato pochissimo. Sono cose di cui occorre tener conto. L’ambientazione orientale appare poi una scelta indovinata: ha con ogni evidenza uno scopo commerciale, e non a caso anche Total War ha guardato alla storia della Cina di recente; ma è anche coerente con il tema, perché quando si parla di costruire mura imponenti i cinesi possono senz’altro dire la loro; si accompagna inoltre a una splendida direzione artistica, e così i castelli che si costruiscono qui sono i più belli da vedere dell’intera storia degli strategici. Detto questo, Stronghold: Warlords avrebbe potuto essere con facilità un gioco migliore. Sono tanti e gravi i piccoli difetti riscontrabili qua e là, a partire dalle campagne.
Ce ne sono cinque, quattro di tipo militare e una economica. In quelle militari alcune missioni, sulla scia degli strategici classici, mettono chi gioca alla guida di un manipolo di unità con cui raggiungere l’obiettivo, senza alcuna possibilità di raccogliere risorse, costruire una base o produrre rinforzi. In Command & Conquer: Red Alert missioni di questo tipo avevano il compito di diversificare il gameplay, e inoltre erano giustificate a livello di trama—si trattava ad esempio di infiltrarsi all’interno di una struttura nemica, dov’è naturale non aspettarsi di avere una propria base. Inserendo missioni di questo tipo in Stronghold: Warlords gli sviluppatori sembrano non avvedersi in primo luogo del fatto che il gameplay del loro gioco viene già reso sufficientemente vario dall’alternanza tra scenari di attacco e di difesa, ulteriormente differenziati dalla disponibilità di materiali, unità e costruzioni diverse—le campagne sono in larga misura un lungo tutorial in cui le novità si sbloccano un poco alla volta; in secondo luogo, sembrano non vedere come questo tipo di missioni allontani il gameplay da quelli che sono i punti di forza di Stronghold, e mi riferisco qui non solo alla costruzione del proprio castello ma anche alla scelta dei modi e dei tempi con cui approcciare quello nemico. Si tratta di una scelta non necessaria e nemmeno giustificata dalla trama e/o dal level design. Tale arbitrarietà dimostra quanto sia stato dato poco valore alla trasparenza del game design, e nella campagna economica ciò risulta ancora più evidente.
Organizzare in maniera efficace la produzione è molto utile in Stronghold: più beni verranno distribuiti alla popolazione, più questa aumenterà e sarà propensa ad accettare tasse alte, innescando il circolo virtuoso che porta a espandere il castello e l’esercito e a vedere aumentate le possibilità di vittoria. La campagna economica esplora a fondo le meccaniche di produzione, ma per far fronte alla quasi totale assenza di nemici da cui difendersi gli sviluppatori hanno deciso di tenere alto il livello di sfida mediante un limite temporale: gli obiettivi di ogni missione vanno quasi sempre raggiunti prima che finisca un conto alla rovescia. Avere un countdown in sovraimpressione sullo schermo però non solo rappresenta una rinuncia definitiva a qualsiasi principio di trasparenza del game design, ma appare ancora una volta una soluzione tutt’altro che necessaria e in aperta contraddizione con lo spirito degli strategici. Invece di stimolare un processo adattivo in cui chi gioca viene invitato a reagire a ogni circostanza avversa, il gioco incoraggia solamente il completamento meccanico di queste missioni a un secondo tentativo, dopo aver capito quale ordine di costruzione ottimizza i tempi e permette di anticipare lo scadere del conto alla rovescia. Eppure c’è una missione molto bella che, nonostante sia anch’essa afflitta dal countdown, mostra quale fosse l’alternativa: l’insediamento da costruire in quel caso è nella foresta pluviale, le piogge monsoniche allagano periodicamente gran parte della mappa, dalla selva sbucano fuori tigri pronte a pasteggiare con i sudditi, e tutto ciò non solo aumenta l’atmosfera e l’immersione ma prova che un certo grado di sfida può emergere anche lavorando bene sul level design.
L’abbaglio più incredibile è però un altro ancora, che va a influenzare non solo le campagne ma anche la modalità skirmish, peraltro abbastanza povera di mappe giocabili. Si tratta della novità più rilevante introdotta in questo nuovo capitolo di Stronghold, strettamente legata ai “warlords” che danno il titolo al gioco: in tutte le mappe ci sono degli insediamenti neutrali di signori della guerra che possono essere convinti a diventare dei preziosi alleati o con la forza o spendendo dei punti diplomazia—dopodiché è possibile richiedere loro rifornimenti di materiali, cibo o truppe. Sulla carta sarebbe una ventata di freschezza, ma nella pratica l’effetto della presenza di questi insediamenti neutrali è quello di allontanare l’azione dai castelli: è strategicamente troppo conveniente difendere gli alleati, e sul loro territorio non è possibile costruire liberamente; di conseguenza per la maggior parte del tempo il gameplay non consisterà in fasi di assedio, ma in battaglie in campo aperto molto simili a quelle di un qualsiasi generico titolo RTS. Non arriva a snaturare il gioco, ma resta comunque un autogol clamoroso. In tutti questi casi, quanto sarebbe stato facile fare scelte diverse e rendere Stronghold: Warlords uno strategico migliore? Se non altro, com’è purtroppo ormai abitudine, l’opera completa si vedrà solo dopo una cospicua serie di aggiornamenti già programmati: la post-launch roadmap è ricca di caratteristiche—la modalità “free build invasion”, trasformando il gameplay in una sorta di ibrido tra gestionale e tower defense, appare particolarmente interessante—che potrebbero finalmente far riappacificare con Firefly Studios e con la serie qualsiasi amante dei giochi di strategia.