Una delle storie che hanno caratterizzato l’ultima estate videoludica è stata quella dell’insuccesso commerciale di Arco, annunciato su X da Franek Nowotniak, responsabile della pixel art del gioco. «”Crea cose nuove” è un consiglio divertente finché non devi vendere il tuo gioco senza un pubblico di riferimento e hai da pagare l’affitto. Abbiamo creato qualcosa di nuovo. Il nostro gioco è stato ben valutato dalla critica e dai giocatori, ma ha venduto male. Avremmo venduto di più copiando un genere già consolidato», si legge nel messaggio.
Non possiamo sapere con quale spirito siano state scritte queste parole, ma a volte si tratta dell’ultima risorsa di una strategia di marketing: ammettere un insuccesso, ma presentarlo come immeritato, può servire a catturare l’attenzione e a portare, in extremis, a un successo. In parte ha funzionato, anche se con un esito paradossale: il post è stato ripreso da molte testate specializzate e, per un certo periodo, si è parlato più di questo che del gioco. Nel complesso, però, non è bastato: i quattro sviluppatori non potranno creare un nuovo titolo finanziati dalle entrate del precedente, ma dovranno cercarsi altri lavori.
Quel che rimane è un discorso intorno al gioco ormai indirizzato verso una spiegazione del suo fallimento. Posto che il riscontro da parte di critica—su Edge, per dire, ha preso un 9—e pubblico—su Steam la valutazione è “estremamente positiva”—è stato effettivamente ottimo, cosa ha portato Arco a vendere così poco? Sostenere che la colpa vada data alla sua troppa originalità è un esercizio retorico utile a conferire al gioco l’aura della “gemma nascosta”, ma facile da smontare; non mancano proprio i casi di giochi la cui originalità è stata premiata non solo con le recensioni, ma anche con le vendite.
Allo stesso modo, è ingenuo pensare che copiare formule consolidate sia una strada più sicura, e non solo più comoda, perché è difficile pure brillare di gloria riflessa: i cloni dei titoli di successo sono tantissimi, e non è per niente scontato diventare gli autori di quello capace di emergere sugli altri, affiancando l’originale. Resta in campo, invece, un’ipotesi così banale che non accontenterà nessuno, ma forse più vicina al vero: Arco è un gioco per pochi. È deliberatamente un gioco per pochi; e se fai un gioco per pochi, poi non puoi aspettarti di venderlo a molti.
Arco racconta una storia di vendetta che si dipana in un wild west mesoamericano un po’ più fantasy di come ve lo ricordate, ma non per questo meno cruento. Le primissime fasi di gioco sono lente e meditative, e nel primo atto seguono le vicende di una carovana che si dirige in pellegrinaggio verso un albero sacro. Arriverà il momento in cui verranno tutti colti di sorpresa e uccisi, tranne un bambino che ritroveremo adulto nel secondo atto, ancora desideroso di rintracciare i responsabili e fargliela pagare. Successivamente i protagonisti cambieranno, ma condivideranno comunque lo stesso obiettivo.
Il ritmo di Arco si fa presto molto più rapido, man mano che chi gioca prende confidenza con la principale caratteristica del gioco: il combattimento a turni in tempo reale, in cui prima si pianificano le proprie mosse (conoscendo le intenzioni dei nemici), e poi tutti i partecipanti allo scontro eseguono le proprie azioni, e così via, in un’alternanza tra tempo sospeso e tempo che riprende a scorrere, finché qualcuno non ha la peggio. È più semplice da sperimentare che da descrivere, ma il riferimento più immediato è naturalmente Superhot.
È una meccanica pensata e implementata in maniera perfetta, su cui si basa gran parte del gameplay di Arco: ogni scontro si consuma nel giro di pochi minuti, e poco più tardi ne inizierà un altro. La sconfitta non viene penalizzata in alcun modo, se non con la necessità di affrontare ancora gli stessi nemici, e questo favorisce la sperimentazione di approcci diversi. I punti esperienza si accumulano in fretta, e si sbloccano velocemente nuove abilità da usare su questi campi di battaglia che sembrano un po’ dei puzzle da risolvere, dove contano molto, oltre alle azioni, le scelte di posizionamento.
Qui gli sviluppatori hanno dovuto vedersela con una delle due trappole tipiche di ogni lavoro creativo: avere un’idea troppo buona, e non resistere alla tentazione di puntare tutto su di essa (l’altra è avere troppe idee, e non riuscire a scartarne abbastanza). I combattimenti in Arco sono originali e divertenti, ma occupano fin troppo spazio: non ci sono altri elementi di gameplay—nemmeno i più ovvi, come l’esplorazione—abbastanza sviluppati da poter fornire una significativa variazione nell’esperienza di gioco. Il primo atto contiene 16 scontri; il secondo 47, il terzo 64, il quarto 51 e il quinto 19. Sono 197 in totale, e appare già chiaro come Arco non sia per tutti, ma solo per quelli a cui questa meccanica piacerà davvero tanto.
Il sacrificio della componente esplorativa sembra frutto di un intento ben preciso, e si lega a un’altra cosa che colpisce subito di Arco: la veste grafica. Mentre si attraversa il mondo di gioco, i paesaggi vengono inquadrati in un campo lunghissimo che riduce ogni figura a un pugno di pixel; inoltre, se si immagina lo schermo diviso orizzontalmente in tre parti uguali, si noterà che i personaggi occupano sempre il terzo che si trova più in basso.
Prendete qualsiasi manuale di game design, e troverete immancabilmente la stessa indicazione: il personaggio controllato da chi gioca deve trovarsi al centro dello schermo. Si può pure controllare un’automobile, o un aereo, fa lo stesso: il suo posto sarà al centro dello schermo. Bisogna avere delle buone motivazioni per allontanarsi da questa regola, e in effetti gli sviluppatori di Arco lo fanno solamente durante le fasi di esplorazione, in cui la visuale è frontale e, come detto, lontanissima dai soggetti. Quando si combatte, invece, il punto di vista è dall’alto, e più ravvicinato. È come passare ripetutamente dal western contemplativo di L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford a quello sanguinolento di Django Unchained, ma non si tratta di una scelta meramente estetica.
Alle ridotte dimensioni dei personaggi sullo schermo corrisponde infatti la loro irrilevanza nel mondo in cui si muovono. Il cielo altissimo, le montagne lontane, gli orizzonti sconfinati esercitano un peso immateriale ma soverchiante, esprimendo una profonda indifferenza verso le motivazioni e le sorti di tutto ciò che si agita più in basso. Gli stessi personaggi non possono fare affidamento su nulla: si muovono in un ambiente ostile tanto a loro quanto ai nemici che combattono.
Sono in balìa del caso, dei dettagli, dei propri sensi di colpa, e in definitiva del mondo in cui vivono. «Siamo abituati a essere i personaggi più importanti del gioco, il protagonista, ma in questo mondo ci sono altri personaggi che sanno di essere più importanti di te e possono trattarti molto male. In generale, abbiamo preso molte decisioni per fare in modo che sia più difficile per il giocatore capire quali decisioni si concludano con un combattimento o con una ricompensa, quindi bisogna prestare molta attenzione ai personaggi e alle loro conversazioni», ha raccontato Antonio Uribe, uno degli sviluppatori, a Push To Talk.
È un modo strano di approcciare un medium basato sull’interazione e sul controllo, tanto del personaggio quanto della situazione in cui ci si trova; Arco propone una sorta di agency dimezzata, e questo non solo è molto interessante ma, insieme alla splendida colonna sonora realizzata da José Ramón García, contribuisce a rendere unica l’atmosfera western di questo gioco. A volte però sembra di essere uno di quei personaggi che nella trilogia del dollaro di Sergio Leone fanno la loro apparizione solo per essere traditi o morire in modo spettacolare nel giro di pochi minuti; e anche questo, non è per tutti. Alla fine, Arco è un gioco che può vantare entrambe le cose, sia le valutazioni positive sia le poche vendite. Gli sviluppatori non saranno contenti di aver lavorato tanto a lungo a un gioco per pochi, ma quei pochi saranno felicissimi di trovarsi di fronte a un’esperienza così particolare.