Camminando lungo le sale del Museo Egizio di Torino può capitare di trovarsi di fronte a reperti che hanno più di cinquemila anni, come il telo di lino dipinto di Gebelein, il più antico mai rinvenuto. Anche opere relativamente più recenti, come le piramidi di Giza, per Cleopatra erano comunque più lontane nel tempo di quanto non lo sia per noi la sua relazione amorosa con Giulio Cesare. Fa una certa impressione pensare a quale enorme vastità di tempo ci separa da epoche lontane che però, a differenza della preistoria, appartengono a quella stessa storia della civiltà di cui facciamo parte. Mi riferisco a quella contiguità culturale che ci permette di godere ancora oggi delle riflessioni di Seneca o dei versi di Catullo, facendoci sembrare piccole anche distanze di tempo misurabili in migliaia di anni.
Trovo in questa doppia natura del passato la principale insidia per una sua narrazione: l’esistenza di una contiguità culturale ci fa apparire qualsiasi lasso di tempo come un contenitore di materiale che si trova nostra disponibilità, manipolabile agli scopi più diversi; ma basta fare pochi semplici calcoli per renderci conto di quante vite, quante generazioni, quanti accadimenti siano in gioco. I vari media hanno elaborato diverse strategie per gestire narrazioni di così ampio respiro: in letteratura la divisione del testo in parti e capitoli permette di minimizzare gli effetti negativi dell’inserimento di un’ellissi temporale, mentre nel cinema, in cui la posta in gioco è la stessa sospensione dell’incredulità, la medesima funzione è solitamente svolta dal montaggio. Forse però lo strumento migliore lo troviamo nei giochi, perché la divisione in turni riesce a rendere naturale e poco traumatica la rappresentazione del passaggio di qualsiasi quantità di tempo.
In questo modo un gioco come Civilization riesce a tracciare un percorso dell’intera storia della civiltà, con una sistematizzazione degli eventi che, al netto delle imprecisioni dovute ad alcuni bug—spesso divertenti, come sa bene chiunque abbia sperimentato l’aggressività e l’ossessione per le armi nucleari del Mahatma Gandhi in Civilization II, ormai divenute un meme—resta ancora un modello per chiunque. Altre serie come Crusader Kings o Europa Universalis hanno preso in considerazione e gestito con maggiore accuratezza e ricchezza di dettagli periodi storici più brevi. Ultimo arrivato in questo genere di videogiochi è At the Gates di Jon Shafer, già lead designer del quinto capitolo di Civilization. Il periodo storico in questo caso è la caduta dell’Impero Romano: il compito del giocatore, alla guida di uno dei tanti popoli barbari disponibili, è quello di acquisire risorse e competenze, organizzare il lavoro di vari clan e costruire una società florida, in modo da farsi trovare pronto nel momento decisivo, quello in cui la forza e l’autorità di Roma scenderanno ai minimi livelli.
La realizzazione di At the Gates è costata a Jon Shafer sette anni e un po’ di salute, sia fisica che mentale. Lo sviluppatore ha già raccontato la sua storia—vi rivestono un ruolo centrale l’abuso di medicinali per favorire la concentrazione, un’ossessione sempre meno sana per lo sviluppo del proprio gioco e la progressiva tendenza a un completo isolamento—in un lungo post, e lo ha fatto con rara onestà e dovizia di particolari, per cui non ho voluto tornare sull’argomento nell’intervista che segue. Ho parlato con lui di tutto il resto e ne è venuta fuori, credo, una bella chiacchierata tra due persone che amano molto i giochi di strategia.
Ciao Jon. Iniziamo con una presentazione ai nostri lettori. Come hai iniziato a lavorare nell’industria videoludica?
Ciao a tutti! Mi chiamo Jon Shafer e sono un game designer conosciuto principalmente per aver ricoperto il ruolo di lead designer in Civilization V. Ho da poco pubblicato un gioco intitolato At the Gates dove il giocatore costruisce un regno nei secoli bui in cui l’Impero Romano è in declino. Sono nel settore da circa 14 anni e in tutto questo tempo mi sono sempre concentrato in modo abbastanza esclusivo sui giochi strategici ambientati nel passato. Prima di diventare uno sviluppatore di professione ero solamente un membro molto attivo della community di Civilization, e passavo un sacco di tempo realizzando mod o dando una mano in qualità di beta tester. Partendo da questo ruolo mi è stato offerto un tirocinio come programmatore, e mi sono poi trovato a lavorare su scenari e altri semplici compiti di design per le espansioni di Civilization IV.
Vorrei farti qualche domanda sul tuo lavoro su Civilization V. Quali sono state le sfide più difficili, e di quali risultati sei più soddisfatto? In che modo questa esperienza ti ha arricchito, e cosa è finito di tutto questo in At the Gates?
La sfida più difficile è stata trovare un compromesso: da una parte conservare le caratteristiche di una serie così importante, in modo che i fan di lunga data potessero riconoscerle chiaramente; allo stesso tempo, inserire nuove idee per fare in modo che valesse la pena comprare un nuovo capitolo e ricominciare a giocarlo. È un equilibrio davvero difficile da ottenere, e io ho sempre avuto la tendenza a voler sperimentare il più possibile. La mia esperienza con Civilization V è stata la mia formazione di base come sviluppatore di videogiochi, e perciò è diventata il punto di partenza per tutto il mio lavoro da quel momento in poi. Quando è uscito Civilization V avevo ormai dedicato più di dieci anni alla serie ed ero pronto per qualcosa di nuovo. Per quanto ami Civilization, ci sono tante altre maniere possibili per rappresentare gli stessi concetti, e cambiare ambientazione mi ha permesso di provare meccaniche che non possono funzionare in Civilization, come il passare delle stagioni.
Il titolo completo è “Jon Shafer’s At The Gates”, e la scelta di inserire il tuo nome chiaramente non può che richiamare Sid Meier’s Civilization. È un tributo, un modo per conferire un certo senso di classicismo a un gioco appena uscito, oppure la volontà di affermare un’autorialità troppo spesso trascurata in ambito videoludico?
È principalmente un modo per permettere alle persone di sapere chi c’è dietro a un genere di giochi che a loro interessa. Molti sviluppatori indipendenti sono completamente sconosciuti ai giocatori, e ci rimettono entrambe le parti. Se i libri sfoggiano il nome degli autori a caratteri cubitali è anche perché per un lettore il fatto che un romanzo sia stato scritto da qualcuno come Stephen King o no fa la differenza. Con tutti i giochi che vengono sviluppati oggi potremmo fare molto di più per dare la possibilità di sapere chi li ha realizzati e se ci possono piacere o meno. Questo è piuttosto difficile per gli studi più grandi, dove a un gioco lavorano dozzine o centinaia di persone, ma con At the Gates non era un problema dato che è in larghissima parte frutto solamente del mio lavoro.
La premessa del gioco è affascinante: l’Impero Romano sta crollando, e i barbari devono farsi trovare pronti ad approfittarne. Anche se in fondo è, mutatis mutandis, il tema portante del Ciclo delle Fondazioni di Isaac Asimov, si tratta di uno scenario davvero poco sfruttato. Come ti è venuto in mente?
Ci sono due grandi fattori che mi hanno portato a scegliere questo scenario.
Per prima cosa, stavo ascoltando l’ottimo podcast History of Rome di Mike Duncan, perciò avevo in mente quell’epoca mentre stavo progettando prototipi per un nuovo gioco sul finire del 2012.
In secondo luogo, è uno dei pochi momenti della storia occidentale che si adatta bene al genere strategico 4X, in cui il gameplay si basa sull’esplorazione e l’espansione a partire da umili origini. Uno scenario perfettamente adatto è l’inizio stesso della civiltà, e anche la colonizzazione del Nuovo Mondo funziona bene, ma entrambi sono stati utilizzati negli strategici 4X fin dal 1994. Il periodo delle invasioni barbariche invece non è stato affrontato, nonostante sia un altro punto di partenza adeguato.
Una terza ragione è stata che ero davvero entusiasta dell’idea che la mappa si modificasse ciclicamente, per movimentare un po’ il gameplay tradizionale degli stategici 4X. Concentrarmi su questo periodo mi ha permesso di sviluppare una scala temporale nella quale si potesse rappresentare l’effetto del passare delle stagioni. In Civilization un singolo turno può coprire fino a 50 anni, perciò inserire le stagioni non avrebbe senso.
Ho letto con interesse i tuoi post settimanali in cui spieghi come funzionano la mappa, i clan e l’economia, e ho trovato spesso riferimenti a Imperialism. Mi piacerebbe sapere di più sulla tua fissazione per quel vecchio gioco.
La caratteristica che salta più all’occhio in quel gioco è l’economia centralizzata. In quasi tutti i giochi 4X il giocatore finisce con l’avere un mucchio di città e di unità, la maggior parte delle quali non ha più alcuna importanza verso la fine del gioco. Imperialism ha cambiato questo schema presentando tutte le decisioni sullo sviluppo economico in una singola schermata dedicata al capitale del giocatore, nel quale si possono allocare i lavoratori e migliorare le industrie. Non è necessariamente un modello che potrebbe funzionare in un gioco 4X più tradizionale, in cui non avrebbe alcun senso che tutte le produzioni siano centralizzate, ma è adatto per At the Gates, perché si gioca con una tribù centralizzata che non è ancora arrivata ad avere un grande stato e un’economia diversificata.
Un altro aspetto di Imperialism che mi è piaciuto molto e dal quale volevo prendere in prestito qualcosa è il modo in cui si scoprono le risorse. Per trovare del ferro, del carbone, etc, occorre mandare un esploratore in giro per le proprie terre a verificarne la presenza in ogni singola casella. Era un po’ noioso, ma aiutava a trasmettere un senso di esplorazione e di scoperta con un’efficacia di cui Civilization non era capace. Ho implementato quest’idea in modo più sofisticato in At the Gates, in cui si possono vedere le varie tipologie di risorse all’inizio del gioco, ma è necessario mandare un’unità per rivelare esattamente di cosa si tratta. È innanzitutto divertente scoprire la presenza di una risorsa misteriosa, ed è ancora meglio scoprire cos’è, soprattutto quando si rivela essere qualcosa di raro o di grande valore. Potrei continuare a parlare ancora a lungo di Imperialism, ma mi fermo prima di andare avanti!
Mi è piaciuta molto la lentezza di At the Gates. Non ricordo la fonte della citazione, ma qualcuno diceva: fai una cosa lenta, e sarà noiosa; falla più lenta, e diventerà interessante; falla ancora più lenta, e otterrai un modo completamente nuovo di percepirla.
At the Gates è stato un esperimento sin dal primo giorno. All’inizio non intendeva affatto essere un prodotto commerciale, ma solo un piccolo progetto che mi permettesse di sperimentare alcune idee. Sicuramente non è un gioco per tutti, nemmeno per un fan di Civilization, perché è piuttosto lento. Ma ai giocatori in cerca di qualcosa di nuovo può offrire un’esperienza unica nel genere strategico. Detto questo, non tutti i miei giochi saranno hardcore o di nicchia, e nei prossimi progetti approfondirò altri concetti e idee diverse.
Il fatto che non tutte le fazioni partano alla pari dà una grande atmosfera al gioco, insieme a una buona dose di realismo, ma deve aver complicato parecchio il bilanciamento del gioco.
Però il gioco ci ha messo sette anni a uscire! Questo ha aiutato. Sapevo dall’inizio di volere un gioco asimmetrico e diverso ogni volta, e ho deciso di restare fedele alle mie intenzioni. Non tutte le posizioni di partenza né tutti i set di clan sono equi, a volte è persino frustrante. Non a tutti piacerà, e quei giocatori vorranno probabilmente riavviare la partita fino a ottenere delle buone condizioni di partenza, oppure staranno alla larga dal gioco. Ma poter dire “ehi, il gioco è questo, prendere o lasciare” ti rende davvero libero di sperimentare nuove soluzioni. Alcuni elementi di At the Gates sono un po’ strani, ma molti altri secondo me sono rivoluzionari. Continuerò ad aggiornare il gioco per qualche tempo, è una formula che ho intenzione di migliorare ancora.
Infatti ho visto che hai già pubblicato una lunga roadmap con aggiornamenti almeno fino a ottobre. Cosa non funzionava come previsto?
Le caratteristiche ci sono tutte, ma non sono bilanciate o rifinite come potrebbero essere. Procurarsi il cibo necessario può rappresentare una bella sfida durante il primo anno, ma in seguito bisogna fare un errore madornale per trovarsi in pericolo [ehm, ndr], il che è abbastanza strano per un gioco con forti elementi survival. Perciò c’è sicuramente un lavoro di bilanciamento da fare su questo. La diplomazia è abbastanza basilare al momento, e nonostante il framework per un sistema piuttosto sofisticato sia già presente nel gioco, e pronto a essere utilizzato, non ho ancora avuto il tempo di aggiungere i contenuti che avrei voluto. Così questa è un’altra parte che voglio completare un po’.
Il 2019 con At the Gates inizia alla grande per i fan dei giochi di strategia a turni. Da appassionato, quali altri titoli in uscita attendi? Sicuramente uscirà entro la fine dell’anno Phoenix Point, il nuovo gioco di Julian Gollop, autore del primo X-COM.
Di sicuro non vedo l’ora di provare Phoenix Point e di vedere in che cosa differisce da X-COM. Thea 2 invece è un altro gioco 4X innovativo, ambientato in un scenario fantasy, che molti fan di At the Gates stanno apprezzando [è in Early Access, NDA], trovando alcune somiglianze. Questi sono i due titoli che aspetto di più. Una cosa è sicura, ed è che i giochi di strategia stanno andando alla grande. È bello da vedere, dato che c’è stato un periodo in cui non era chiaro se il genere avrebbe avuto un futuro, specialmente dopo il declino dei RTS più o meno un decennio fa. Da grande fan di questo genere mi sembra che i tempi migliori debbano ancora venire!