Ogni biblioteca traduce il caos della scoperta e della creazione in un sistema strutturato di gerarchie o in una frenesia di libere associazioni.
Alberto Manguel
Che rapporto intercorre tra le biblioteche, gli zombie, la sopravvivenza e la cultura? Come viene raffigurato il libro, pietra angolare dell’infrastruttura culturale della società, all’interno delle narrazioni apocalittiche? Parlo del libro partendo dalla sua materialità e degli atti della lettura e della scrittura ricondotti al loro minimo comune denominatore, come ad esempio la scrittura diaristica ed epistolare, e infine di quel luogo vivo e in continuo cambiamento, ma anche addormentato e immobile non morto che è la biblioteca, soprattutto una abbandonata. Un luogo dal forte potere simbolico, che produce identità. Un marcatore referenziale, immediatamente riconoscibile e nel quale ci si può facilmente (ri)conoscere, vocato a un’identità apotropaica, metaletterario per sua stessa natura, più antico, ha scritto qualcuno, degli stessi libri.
La biblioteca è un cronotopo del mondo reale, è in relazione continua con il nostro immaginario, con tutte le storie che abbiamo letto. Dalle biblioteche storiche e i loro roghi leggendari a quelle luccicanti che compaiono come sfondo a milioni di foto tutti i giorni. La materialità dei nostri artefatti culturali, libri, opere d’arte, disegni, fumetti, videogame, dischi, ma anche fanzine, sticker e action figure, delimita i confini della cittadella della nostra anima di lettori, spettatori, ascoltatori, gamer. Attorno a quegli scaffali prende forma la nostra tana di cacciatori di storie. Perché è questo in fondo che siamo in quanto lettori: cacciatori di paradisi perduti.
Parlo di biblioteche nel loro aspetto minimo, come raccolte di testi, soffermandomi sulle differenze e il rapporto di scambio immaginifico che intercorre tra gli scaffali di una biblioteca istituzionale e una sedia con sopra qualche libro, dei vestiti e una copia di The Last of Us magari. Una copia di The Last of Us come livre de chevet.
La forza narrativa del figlio prediletto di Neil Druckmann ha fatto entrare, a gamba tesa e definitivamente con tante scuse per il ritardo, i videogiochi nel dibattito culturale alto. Uno dei maggiori punti di forza della premiata storia, oltre a dimostrare che un videogioco può al pari di letteratura e cinema essere un’esperienza estetica ed artistica unica e farsi portatore della stessa letterarietà di un classico, è quello di aver fatto emergere, a livelli di complessità esperienziale mai visti, una particolare tipologia di lettura, una lettura ergodica e cinematografica, che sfrutta il topos del frammento, delle scritture ultime e private all’interno di un mondo virtuale.
Un open world, pur se su binari, dove muovendoci tra i detriti della società possiamo, non è obbligatorio al fine di proseguire la storia, recuperare i frammenti delle storie delle persone che lo abitavano, foglietti, appunti, scritte sui muri, che annotiamo e raccogliamo nel diario della protagonista Ellie, tra poesie, pensieri e versi cancellati, disegni e informazioni per sopravvivere. Un diario immerso nella semiotica dell’abbandono, del distrutto, di cui è impregnato il mondo di gioco, che ci offre un ulteriore esempio della potenza di fuoco dei taccuini all’interno dei videogiochi, da Return of the Obra Inn, fino a Red Dead Redemption 2, passando per Life is Strange. “I diari danno forma all’intangibile, sono una tecnologia, l’istanza più ordinaria e non spettacolare di potenziamento cyborg, un’estensione dei nostri ricordi”, scrive Paul Walker-Emig su The Guardian. È questo il non detto narrativo di The Last of Us, è da qui che passa una delle rivelazioni diegetiche che il gioco porta con sé. – “Cosa stai leggendo?” – “Sto leggendo The Last of Us” – “Intendi il fumetto?” – “No, no, sto leggendo proprio il videogame”.
Attraversare città in rovina, raccogliere le ultime lettere dell’umanità, osservare un tavolo dove poco prima che finisse il mondo qualcuno stava facendo una partita a Dungeons and Dragons. Un tavolo da dove, nonostante l’apocalisse zombie, non è caduto nemmeno un dado. Non è un dettaglio secondario. Quello scenario è lì per essere ammirato. Chi ha giocato a Left Behind sa di cosa parlo: l’avventura bonus sbloccabile terminando il primo capitolo del gioco di Naughty Dog, uscito per Playstation 3, contiene uno dei più grandi omaggi all’interno di un videogioco alla cultura pop e videoludica e rappresenta un’esperienza unica di quella particolare myse en abyme della cultura all’interno delle narrazioni zombie apocalittiche, nel suo permettere, attraverso il racconto di una giornata particolare di spensieratezza adolescenziale, una lettura ergodica e nostalgica del relitto dell’ingegno umano, proiettandoci all’interno del relitto, ovvero il mondo di gioco di The Last of Us.
– “Che cos’è Facebook” – “Forse… stampa le nostre foto in un libro?” si chiede Ellie in Left Behind, mentre lei e la sua amica Sarah si scattano delle foto in una di quelle macchine che si trovano, o si trovavano fino a pochi anni fa, nei centri commerciali, quelle che ti facevano fare delle foto buffe con i filtri. Dopo la foto un messaggio ci chiede se vogliamo caricarla sui social, esattamente come avverrebbe schiacciando il tasto share dal controller. Ma la rete naturalmente non c’è. “La macchina è rotta, esclamano le ragazze, torniamo ad esplorare”.
Un gameplay che invita ad aggirarsi tra le rovine della civiltà, cercando in cinema, teatri, biblioteche, musei e sale giochi abbandonate un rifugio alla violenza disumana delle città, collezionando fumetti, carte e monetine, vestigia della civiltà scomparsa, mentre intorno a noi c’è letteralmente l’inferno. La lettura, il libro, l’atto della scrittura, il bisogno di intrattenimento immaginifico emergono silenziosamente nel gioco. All’inizio della Parte II facciamo conoscenza con la cittadina di Jackson, dove la vita, nonostante l’apocalisse, è ripresa. Subito dopo aver superato la biblioteca, possiamo vedere una maestro intento a leggere un libro dei bambini superati i quali giocheremo a una battaglia di neve con altri della stessa età. Lo scontro serve anche come primo tutorial per i comandi di mira e fuoco; un intermezzo innocente prima che il sangue macchi quella candida neve bianca.
Il capolavoro di Naughty Dog, non fa scuola solo per la sceneggiatura, il game design e il potenziale drammatico insito nei cambi di immedesimazione con le protagoniste. Fa scuola perché è possibile leggerlo-giocarlo creando un parallelo con lo sguardo critico che ci porta a sottolineare una frase particolarmente risolutiva in un saggio sulle riconfigurazioni culturali e le dinamiche dei nuovi media, perché proietta nel nostro immaginario la stessa frequenza di seduzione immaginifica di quella particolare sensibilità di generi come il new weird e il salvage punk, manifestazioni di una narrativa che cerca di soddisfare le esigenze intellettuali della nostra contemporaneità di cacciatori di storie.
Come per i romanzi e le raccolte poetiche diventate manifesto di una generazione, l’esperienza della lettura “involontaria” e cinematografica delle decine e decine di stralci testuali macchiati di sangue, all’interno della riflessione sui meccanismi della vendetta e sugli effetti dello stato di natura hobbesiano di cui il gioco si fa portatore, diventa simbolo e metafora della nostra era, del nostro presente culturale e delle contraddizioni e i conflitti che si porta dietro. Ma non solo i testi, la dinamo poietica di questa drammaturgia dell’atto culturale viene attivata anche e soprattutto dalla chitarra di Ellie. Imparare a suonare lo strumento preferito di Ellie e soffermarsi a leggere il suo diario è un operazione cognitiva “lenta” e profonda che interrompe l’adrenalina dell’azione di gioco, e che permette una completa immersione nella trama.
Pizzicare le corde della chitarra tramite il controller regala un’immedesimazione profonda, epidermica. Ciò che per la protagonista rappresenta un nepente alla violenza del suo mondo, suonare, scrivere pensieri e poesie e disegnare, rappresenta mutatis mutandis, un bolla esperienziale entro cui riflettere e sottrarci per un attimo dalla violenza mediatica del nostro mondo che riversa giorno dopo giorno nella nostra mente tonnellate di informazioni di natura e qualità diversa dalla più alta alla più infima, dalla più dolce alla più violenta, tutte insieme senza filtri e mediazioni. E sta a noi, nella realtà, trovare il modo per sopravvivere alla grande onda, ma sarebbe il caso di chiamarla orda, di contenuti che svetta sopra di noi e minaccia di sommergerci, di morderci e di trasformarci a nostra volta in un branco indistinto di content creator, come tu che stai leggendo, come io che sto scrivendo, allo stesso tempo autori e pubblico, imprenditori e clienti della nostra vita sui social, alle prese con la nostalgia culturale e i suoi prodotti derivati fatti di reboot, remake e reunion, votati alla creazione di un intrattenimento continuo governato dall’invisibile dittatura dell’algoritmo. The Last of Us, come tutte le migliori narrazioni post apocalittiche e zombie, nel mettere in scena l’apocalisse coglie l’occasione per evocare sullo sfondo l’ecpirosi della cultura contemporanea, il mito del fuoco che attende tutte le biblioteche, tutte le dottrine e i canoni, tutti i mondi di pensiero alla fine del loro ciclo vitale.
È nella base del WLF che è possibile trovare un’ulteriore traccia del rapporto che i sopravvissuti intrattengono con la lettura. Qui troviamo diverse persone immerse in un libro, una biblioteca attiva, ed è qui, nella base dei Lupi, che avviene una delle scene più violente per ciò che concerne questa ricerca dentro i modi della rappresentazione degli artefatti culturali in un mondo apocalittico a tema zombie. Senza pensarci due volte infatti Ellie, mentre entra di soppiatto nella base, uccide “l’ultima gamer al mondo”, una ragazza che poco prima, mentre vestivamo i panni di Abbie, avevamo incontrato, in uno dei rari momenti di spensieratezza offerti da un mondo infestato dai vaganti, concentrata a giocare a Hotline Miami sulla sua PSP Vita. La console portatile Sony “uccisa” precocemente dalla casa giapponese per ragioni di mercato, già simbolo di una passata generazione videoludica.
Giocando a The Last of Us può manifestarsi quello strano piacere che proviamo nell’aggirarci tra le rovine culturali della nostra società, imparando a riciclare, ad ingegnarci per sopravvivere con quello che è rimasto; sintomo, forse, del desiderio di liberarci dal continuo flusso di dati e beni di consumo che affollano ogni secondo della nostra vita, di rompere lo specchio nero, di smettere di essere sempre intrattenuti, di invocare il silenzio dei dati. Necessaria, continua e infine logorante è la ricerca di oggetti dentro le case abbandonate, aspetto del gioco verso cui in molti hanno espresso critiche, ma è proprio grazie a questa ripetizione continua e “noiosa” che si realizza il nostro legame emotivo con la Weltanschauung del mondo di gioco. L’attuale dibattito sull’opportunità e il senso dei walking simulator, la tipologia di giochi tra i più filosofici e sperimentali del mondo del gaming, trova in The Last of Us un ulteriore modello e campo d’indagine.
Le biblioteche sono organismi che crescono, che mutano. Mutano in base alle esigenze della società. La lettura individuale sta cambiando antropologicamente, arte, gioco e istruzione si danno la mano, le scuole adottano videogame che simulano scenari bellici per insegnare la cooperazione e l’altruismo. The Last of Us, inserendosi in un momento d’evoluzione dei media come gioco simbolo del passaggio alla next-gen offre diversi spunti di riflessione sullo stato della cultura contemporanea, sia fornendo materiale per collegamenti e metafore metanarrative, sia come “libro di testo” per interrogarsi sul futuro ruolo che i videogame e il gioco avranno nell’educazione culturale e del loro rapporto simbiotico con ciò che il modernismo ha definito letteratura.
Lo spazio creativo e personale procede verso forme virtuali e cooperative dove vita privata, professionalità, intrattenimento e semplici intenti ricreativi collaborano nel creare la possibilità di una base di monetizzazione, che provveda a colmare i problemi di reddito e occupazione. Tutti i giorni compiamo azioni per non perdere la guerra di tutti, la guerra dei creativi, la guerra dei contenuti, una guerra che non può che essere logorante. Secondo uno studio citato dal New York Times, più di 50 milioni di persone hanno deciso di trasformare tutta la loro attività in rete in lavoro, un lavoro continuo. La stessa facilità con cui si generano importi per molti rappresenta, purtroppo, anche una strada breve per depressione, perdita completa di interesse nei propri contenuti e sindromi da burn-out. Il paradosso, la complessità e singolarità della content economy è il suo fiorire parallelo all’eterno ritorno della cultura pop dei decenni passati, richiamata in vita delle operazioni nostalgia che alimentano la galassia della retromania e dell’intrattenimento continuo. Lo scrive bene Francesco Guglieri, citando il critico musicale Simon Reynolds, in The Game Unplugged:
La cultura pop non è solo il veicolo della nostalgia retrò ma ne è anche l’oggetto. […] Come scrive Reynolds, è «il momento che diventa monumento»: l’effimero, il passeggero, il noioso, che viene sottratto all’oblio e messo su un piedistallo. […] La retromania, allora, vende il sogno di un digitale a misura d’uomo, la nostalgia di un tempo in cui era l’umano a dominare la macchina. […] Il digitale è il sublime contemporaneo.
Diari, poster e scritte sui muri della propria camera, pomeriggi di lettura e di gioco, i walkman con le cassette registrate da un amico e poi l’inizio degli mp3, i primi blog, le fanzine, le modifiche alla PlayStation per far girare i giochi masterizzati. Gli amici che credevano di non perdere mai, le prime esperienze fatte insieme prima che ognuno prendesse la propria strada. Modificando il famoso inizio di un famosissimo libro, si potrebbe sintetizzare così: “Ho paura di non potere più vivere l’esperienza della cultura come quando avevo sedici anni. Ma dio mio chi ci riesce?”. La mano sinistra di Ellie, le sue dita mozzate, e quella chitarra suonata sgraziatamente per l’ultima volta e poi abbandonata (per sempre?) accanto alla finestra che si apre sulle colline infiammate dal giallo del grano, diventa metafora dell’addio a tutto quel gomitolo di passioni culturali che, una volta cresciuti, non si possono più “giocare” come un tempo. È l’onda che si è infranta ed è tornata indietro. È la violenza della realtà che impone definitivamente sui territori dell’immaginazione unica e irripetibile dell’adolescenza il suo impero di adulte consapevolezze, frutto di tutti i rimorsi, di tutte le amarezze, di tutti quegli errori indispensabili a risolvere una volta per tutte la nostra personalità.
The Last of Us parla anche di tutto questo, in mondo virtuale che avvertiamo vicino, reso quasi tattile dai dettagli maniacali della resa cinematografica dell’esperienza di gioco. Dentro questo mondo diventa facile ritrovare la nostra stessa nostalgia nella passione di Ellie per i fumetti e le carte collezionabili, in quella di Abby per le monetine, nei momenti di dolcezza e ricerca di esperienze umane all’interno dell’acquario. E così nelle case abbandonate di Seattle, nelle baracche tempio dedicate alla Madre, in chiese, biblioteche, musei, teatri, negozi di musica, abitazioni, ci imbattiamo in foglietti, pagine strappate, spesso macchiati di sangue e fango, con storie tagliate a metà, ultime riflessioni, pensieri, confidenze, informazioni su ciò che è appena accaduto e di cui possiamo trovare le lugubri tracce nell’ambiente circostante che diventa così esso stesso un libro, un diario, dell’abbandono.
Tornando al gioco non si può fare a meno di notare come, nel racconto parallelo del passato della città e dei suoi luoghi la biblioteca, i teatri e i musei svolgano un ruolo da protagonisti. È una biblioteca a fare da cornice a uno dei momenti più intensi e importanti della vita di Ellie, prima che tutto rovini nel gorgo della vendetta. Una biblioteca, organismo che cresce, che si trasforma, come recita la quinta legge della biblioteconomia di Ranganathan, e che troviamo infatti completamente modificata nella sua destinazione d’uso libraria, ma non da quella di proteggere, di rappresentare un bonfire dove ripararci. All’inizio dell’avventura, durante la prima vera missione del gioco “Ricognizione”, una bufera coglie Ellie e Dina di sorpresa, e le due ragazze troveranno riparo in una biblioteca, già rifugio di Eugene, amico di Tom e soldato delle Luci. Qui scopriranno che Eugene l’ha trasformata in un vero e proprio fab-lab, pieno di componenti elettrici e elettronici, tra cui una PlayStation 3.
Ma non è tutto:, continuando a esplorare le due ragazze scopriranno che il loro amico non si è limitato all’elettronica ma ha allestito nel deposito della biblioteca una sbalorditiva grow room con centinaia di piante di cannabis. Rotto un barattolo con delle canne già rollate, le due ragazze appena ventenni si godranno il joint facendo discorsi stupidi e seri, baciandosi e facendo infine l’amore su un divano, per un attimo dimentiche della morte che le circonda e del ruolo che avranno nella sete di vendetta generalizzata che permea le strade. Nel 1985 un altro divano, in un’altra biblioteca diventata riparo nella reclusione e trasformata dall’energia di chi vi si trovava a viverla, un altro vetro rotto (il vetro degli schemi, il vetro degli schermi) e un altro joint, davano a milioni di ventenni in tutto il mondo la proiezione artistica del loro coming of age, la celebrazione della loro vitalità creativa e della loro sete d’amore e di magia che si ergeva e sopravviveva contro la violenza di ogni giorno. Era quello di The Breakfast Club o, come avrebbe dovuto chiamarsi nella prima idea del regista John Hughes, Library Revolution.
Un videogame come livre de chevet, su cui ritornare, che non si smette di leggere all’interno della biblioteca “notturna” composta da tutti i fantasmi delle nostre letture da tenere vicino come arma immaginifica, da attraversare in un picnic semiotico sul ciglio, o meglio il dirupo, che interrompe e modifica la forma della strada della cultura occidentale.
Un’esperienza di gioco in cui è possibile trovare traccia di alcune tensioni contemporanee come ad esempio i movimenti prepper, dentro il quale trovano terreno fertile le riflessioni sulla fragilità della cultura digitale, che può quindi diventare metafora della guerriglia dei contenuti e delle tensioni culturali, etico e religiose della società. Uno spaziotempo virtuale fatto di scritture marcescenti vergate oltre i limiti dell’esperienza umana che raccontano il passato immediato dei loro autori e che contengono informazioni per sopravvivere. Questo passaggio tratto dal romanzo Annientamento del critico e scrittore new weird Jeff Vandermeer condivide con The Last of Us questa particolare eeriness diaristica.
La mia torcia elettrica, insieme alla luce naturale proveniente dalla botola aperta, rivelò che le pareti delle stanza erano tutte striate di muffa, muffa che in certi punti formava opache venature rosse e verdi. Da sotto si vedevano meglio i rivoli e le collinette di quel mucchio di letame. Pagine strappate, pagine accartocciate, copertine di diario umide e deformate. Si poteva dire che la storia delle esplorazioni dell’Area X si stesse lentamente trasformando nell’Area X.
Il rapporto che i personaggi di un mondo distopico intrattengono con la cultura è un aspetto centrale delle narrazioni contemporanee. Il lirismo che contraddistingue la formazione intellettuale dell’adolescenza si fonde ai dubbi e all’entusiasmo figli della percezione del cambiamento che attraversa il mondo culturale, dell’arte e dell’intrattenimento ma, soprattutto, il cambiamento che attraversa il nostro pianeta. The Last of Us trova il suo posto accanto a romanzi come La Strada di Cormac McCarthy o Anna di Ammaniti e si staglia come un punto di riferimento per lo storytelling del prossimo futuro che dovrà vedersela con la tempesta entropica che non smette di soffiare sul mondo della comunicazione e che ci porta a scoprire e ricercare nuovi modi per sopravvivere e convivere con i media elettronici di massa e le insidie della content economy al fine di trovare in questo scenario, dominato all’orizzonte dal maelstrom dell’estinzione e dall’imperativo categorico della necessità di azioni drastiche per scongiurarlo, un punto di contatto tra la letteratura e i nuovi media, tra le future comunità di lettori-giocatori e la trasformazione dell’atto culturale in azioni di sopravvivenza. Ma non è poi sempre stato così?