A partire dal 2020 la parola “distanziamento sociale” è entrata prepotentemente a far parte del vocabolario di ogni cittadino mondiale. Ma al di là dell’insieme di azioni per rallentare la diffusione del coronavirus, questo fenomeno, inteso come perdita del senso di comunità, è in atto da molto prima. La gente è sempre più isolata, soprattutto nelle grandi città. Lo smartworking, la digitalizzazione di qualsiasi attività commerciale, i social network, i servizi di streaming, i videogiochi online hanno accelerato l’allontanamento dalla sfera sociale per cui le relazioni interpersonali sono diventate sempre più vaghe e flebili. Stiamo diventando piano piano tutti hikikomori, nessuno escluso? Il velo che separa il reale dal virtuale si sta squarciando, tanto che secondo Mattia Salvia “siamo sempre vissuti nel mondo reale e siamo sempre stati abituati a pensarlo diverso e separato da quello virtuale; in quella foto, invece, vediamo cadere la distinzione: il virtuale è reale e il reale è virtuale”1Interregno: Iconografie del XXI secolo, Mattia Salvia, ed. Nero.. La foto in questione è un meme in cui Mark Zuckerberg cammina in un auditorium pieno di persone con indosso un visore per la realtà virtuale.
Siamo arrivati a digitalizzare le nostre vite, chiudendoci nei nostri appartamenti da cui possiamo lavorare, ordinare il cibo, vedere un film, videochiamare le persone care. Il senso di solitudine è sempre più forte, non basta avere follower o like per colmare la socialità reale e fisica di cui l’essere umano ha bisogno. A questo punto è necessaria una precisazione e dobbiamo far ricorso all’uso dell’inglese, dove il concetto di solitudine è ben distinto in due parole. Una è loneliness, lo stato emotivo negativo contraddistinto dal senso di isolamento. L’altra è solitude, ovvero quello spazio mentale che serve per rigenerarsi, per riflettere ed è qualcosa che si sceglie. La filosofa Hanna Arendt ha riassunto molto bene la differenza in questa frase: “in solitude […] I am “by myself”, together with my self, and therefore two-in-one, whereas in loneliness I am actually one, deserted by all others”. Oggi viviamo quasi tutti in uno stato di loneliness.
Proprio da queste riflessioni prende lo spunto Madison Karrh per gettare le basi del suo Birth. Con questa sua opera ha cercato di rappresentare visivamente lo stato d’animo di chi si trova solo in una grande città e lo ha fatto con un immaginario visivo tanto affascinante quanto inquietante. L’intento di tutto il gioco, che viene anche chiaramente esplicitato nelle primissime schermate, è quello di costruirsi un compagno, un amico fatto di ossa e organi, ma soprattutto dal cuore caldo e umido. Un Frankenstein 2.0 insomma, pur di combattere la solitudine e trovare un po’ di quell’umanità tanto difficile da scovare oggi.
In un’intervista Madison dice di essersi trasferita a Chicago in un mini appartamento-studio e di non essere poi praticamente uscita di casa per quasi un anno. L’impronta autobiografica è molto forte, così come quella autoriale: il gioco è stato sviluppato in circa due anni, in completa autonomia. Ma a dispetto di produzioni molto più grandi, Birth riesce in maniera originale e poetica a veicolare molto bene il messaggio per cui è stato creato. Nonostante tutta la narrazione sia affidata alla forza delle illustrazioni come in un silent book, è proprio da piccoli dettagli che si percepisce lo spaesamento di chi si ritrova a vivere da solo in una città popolata da molta gente.
Sono nato in un piccolo paese di provincia. E ho sempre vissuto qui, nonostante abbia viaggiato abbastanza da riuscire a visitare tutte le capitali europee e città come New York, Tokyo, Los Angeles, Bangkok, San Francisco. La sensazione che provo quando torno da un viaggio in una grande città è di straniamento. Ogni volta mi ripeto che non riuscirei mai a vivere lì. Nel mio paese invece si è preservata quella dimensione comunitaria che non trovo da altre parti. Ho conosciuto in questi anni moltissime persone che si sono trasferite da grandi città nel mio paese o nei comuni limitrofi. Londinesi, francesi, canadesi, milanesi che, stanchi della vita frenetica e caotica, hanno deciso di fare un cambiamento drastico: e infatti le loro abitazioni sono quelle più isolate, spesso alla fine di strade imbrecciate di campagna. Tutti mi hanno confermato però che più del cibo e dell’aria pulita volevano trovare, venendo a vivere qui, il senso di comunità smarrito nei loro luoghi di origine.
Gli abitanti in Birth sono tutti scheletri con teschi dalle sembianze di uccelli. Solo qualche residuo di membra è rimasto attaccato alle ossa ma sono svuotati, non hanno più linfa vitale, le orbite oculari sono vuote o cucite con del filo. Persino i fiori e le piante sembrano essiccate. I loro colori sono tutti virati nelle tonalità autunnali, quando la clorofilla, alla fine del ciclo, smette di scorrere. Gli animali (ratti, uccelli, insetti, cani, serpenti, pesci) sono anch’essi scheletrici e spesso si ritrovano chiusi dentro barattoli o teche di vetro a sottolineare ancora di più l’isolamento. Al contrario la città sembra viva, i palazzi fitti fitti si susseguono uno dietro l’altro quasi senza soluzione di continuità.
Al piano strada troviamo i negozi: una caffetteria, un museo, un generi alimentari, un ristorante, una pasticceria, una lavanderia, un ufficio postale. Luoghi comunque destinati alla socialità. Al piano superiore ci sono gli appartamenti dove si può scrutare, con fare voyeuristico, dentro le finestre di perfetti sconosciuti, solo per scoprire che anche loro sono soli, ognuno perso nel proprio mondo. Sono abitati in genere da un solo inquilino impegnato a leggere un libro, guardare il cellulare, dormire sotto le coperte o restarsene seduto davanti ad un modellino di giostra da assemblare. Il distanziamento sociale di cui all’inizio è tutto qua. Ognuno è indaffarato in attività solitarie tra le quattro mura del proprio appartamento.
L’opera di Meredith mi ha riportato in mente un altro gioco piccolo piccolo disegnato anch’esso tutto a mano da una giovane illustratrice danese di nome Ida Hartmann. Anche in Stillstand si respira a pieni polmoni tutta la loneliness tipica delle grandi città. La protagonista del gioco non si costruisce però un compagno recuperando ossa e organi; fa piuttosto apparire un’ombra di junghiana memoria, con cui poter scambiare qualche pensiero pur di non restare sola. Quello che banalmente entrambe le protagoniste cercano è anche un contatto fisico, che qualsiasi digitalizzazione non potrà mai sostituire o rimpiazzare. In Birth tutti i personaggi non si toccano mai: anche in quelle pochissime situazioni in cui ci sono due individui nella stessa stanza, questi sono distanti.
Non credo sia un caso che in uno dei piccoli puzzle da risolvere (mi rendo conto solo ora che non ho mai nominato le meccaniche del gioco, ma vi basti sapere che è un punta e clicca piuttosto lineare con semplici rompicapi) bisogna avvicinare due mani fino a farle toccare. Così come non credo sia un caso che questo contatto avvenga all’interno di un museo, in una stanza al cui centro si trova un piedistallo con un cuore dentro una teca di vetro. Proprio quel cuore caldo e umido. “L’arte ha il potere di estendere le nostre capacità al di là della nostra naturale dotazione. L’arte compensa certe debolezze innate, in questo caso della mente e non del corpo, debolezze che possiamo definire fragilità psicologiche“2L’arte come terapia, Alain de Botton e John Armstrong, ed. Guanda..
Birth è un gioco esistenzialista che riflette sull’individualità, la precarietà e la solitudine. Un memento mori che si serve di un’estetica decadentista e surrealista dalle tinte autunnali color pastello. Birth ci spinge ed incoraggia a fare esperienze con altre persone ma in carne ed ossa, organi e cuore. Come uscire per un caffè o semplicemente videogiocare accoccolati su un divano per un paio d’ore.