Durante il sedicesimo secolo, nella Spagna cattolica, si diffuse una peculiare forma di dramma, caratterizzata da una spiccata connotazione religiosa, che prese il nome di auto sacramental. La struttura di questa forma teatrale, presentata attraverso le scenografiche processioni del Corpus Christi, era composta da un singolo atto detto appunto sacramentale, per via del suo contenuto religioso. Tale tipo di rappresentazione, contraddistinta da un approccio fortemente allegorico, aveva per protagoniste le personificazioni di concetti provenienti dalla tradizione cristiana, come la grazia o la colpa. Fra gli scrittori che hanno contribuito a diffondere questa forma teatrale occorre citare, tra gli altri, l’autore Pedro Calderon De la Barca, celebre per il dramma La vida es sueño e per l’auto sacramental El gran teatro del mundo.
Il videogioco Blasphemous, realizzato dallo studio spagnolo The Game Kitchen, sembra portare sulla sua scena bidimensionale proprio l’immaginario tipico degli autos sacramentales. Selezionando la voce “pellegrinaggio” dal menù principale ha così inizio il cammino del protagonista, noto semplicemente come The penitent one. Dare una connotazione narrativa anche alle altre due voci del menù, “opzioni” ed “extra”, avrebbe garantito una suggestione simile a quella offerta dal menù principale di Planescape: Torment. Nel visionario gioco di ruolo di Black Isle Studios, a una nuova partita corrispondeva l’ennesima vita dell’immortale protagonista mentre, all’uscita dal gioco, coincideva l’abisso del mondo reale.
D’altronde, esistere è esso stesso un fenomeno straordinario, abissale, direbbe Emil Cioran, alludendo all’assurdo che serpeggia fra ciascuno dei nostri respiri. Peraltro anche The nameless one, il protagonista del capolavoro scritto da Chris Avellone, affrontava un pellegrinaggio alla ricerca però di se stesso. Visitando le molteplici dimensioni dell’esistenza, il personaggio senza nome scandagliava così quell’abisso che è la natura dell’uomo. “L’ignoto (…) è forse tutto quel che ti rimane da conoscere di quel che già conosci”, tale era l’abisso per il poeta francese Edmond Jabès. In Planescape: Torment, la fede, l’atto del credere, era considerata come una forza capace di intervenire attivamente sulla realtà, trasformandola.
Nel mondo di Blasphemous, il credere sembra invece un atto vano, non già per l’assenza d’una dimensione trascendente, ma a causa dell’arbitrarietà perversa attraverso la quale quest’ultima si manifesta. Contrariamente a Planescape: Torment, nel quale il verbo valeva più della spada, il pellegrinaggio di Blasphemous è, irrimediabilmente, un cammino di morte. Lo strumento principale del gioco, potenziabile attraverso specifici altari, è infatti una spada di nome Mea Culpa. Anche la preghiera diviene uno strumento d’offesa, rappresentando, di fatto, il sistema di incantesimi. Il penitente, con il suo elmo simile al capirote, il copricapo dei penitenti della Settimana Santa di Siviglia, lascia che a parlare sia l’effetto sonoro della violenza.
The penitent one, non a caso, fa parte della Fratellanza del dolore silenzioso. La terra di Cvstodia, Orthodoxia per come era nota l’ambientazione del gioco pre-release, essendo irta di pericoli non si predispone certo ad alternative. Tra di essi vi sono abomini d’ogni risma, fanatici religiosi e trappole. Sinteticamente occorre dire che, nel complesso, il gameplay di Blasphemous è soltanto discreto. Gli attacchi disponibili, pur ampliabili, tendono a essere fortemente opzionali. Nell’ultimo videogioco di The Game Kitchen, meno hardcore di quanto possa inizialmente sembrare, a fare davvero la differenza è soprattutto il tempismo, la coordinazione tipicamente richiesta dagli action game.
L’etichetta-feticcio soulslike, pure adeguata a segnalare la discendenza di qualche scelta di design, risulta troppo specifica. Inoltre, anche la struttura ludica potrebbe essere, almeno parzialmente, fraintesa. Quella che è una componente metroidvania di Blasphemous, ovvero l’acquisizione di skills aggiuntive, associate al possesso di determinate reliquie, è sostanzialmente relegata a una fase accessoria dell’avventura. Blasphemous allora è, più semplicemente, un action adventure che fa di una peculiare direzione artistica il suo tratto distintivo.
L’art direction è, pressappoco, la commistione visiva fra riti come quello calabrese dei vattienti e un dark fantasy a tema cristiano. Cvstodia è tempestata da una piaga oscura e sovrannaturale che trasfigura la carne, generando mostri: etimologicamente prodigi, ossia segni di un volere trascendente chiamato Il miracolo. Melquiades l’arcivescovo, una salma enorme sorretta dalle mani dei fedeli, o Nostra signora dal volto sfigurato, una gigantesca faccia deturpata, sono soltanto due delle grottesche deformità, a tema ecclesiastico, che il penitente deve affrontare nel corso del suo pellegrinaggio.
L’arte cristiana, essenzialmente romantica per Hegel, è già di per se stessa intrisa del senso della sproporzione, come di un sangue, quello del Cristo redentore, che la forma umana stenta a contenere. Il videogioco spagnolo accentua fortemente quanto già v’è di body horror, di weird, nell’estetica cristiana, portandola sulla scena mediante il pixel, l’ostia-corpo dell’immagine digitale. Il segno della passione diventa così la stigmate sul palmo di chi gioca, cioè di chi crede. Sul palco a scorrimento laterale di Blasphemous, l’acting, la recitazione del giocatore, vale la declamazione d’un canovaccio antico, quello dei boss e delle aree segrete. Per quanto non sia particolarmente ostico, il titolo spagnolo si presta talvolta a facili battute sui santi.
Blasphemous è allora un nuovo antico testamento videoludico, attorno al quale viene sussurrato un pittoresco racconto di penitenze e apostasie. Una storia che, per l’appunto, sembra recuperare parte dello stile allegorico dell’auto sacramental. Il rapporto fra teatro, gioco e videogioco, è costantemente oggetto di studio: il verbo to play, è noto, esibisce questa vicinanza. Nel videogioco di The Game Kitchen, esattamente come nelle avventure più esoteriche, alla Hidetaka Miyazaki, l’atto sacramentale equivale anche all’avere fede nell’esistenza di un sistema superiore, ossia una relazione fra azioni, da chiamare gioco. Heideggerianamente gettati nel mondo, senza tutorial, ci chiediamo cosa possiamo e cosa dobbiamo fare.
I Grandi Esseri di Bloodborne hanno scrutato dall’alto molti giocatori disorientati, durante le loro prime ore nell’eterna notte di Yharnam. Anche il sogno, centrale nell’opera lovecraftiana di Miyazaki, non è un concetto estraneo a Blasphemous. In generale, l’atto del giocare può essere inteso come un’agnizione, il topos drammatico dell’eroe che scopre la sua vera identità, ovvero quella dell’utente che si riconosce nel giocatore. L’interprete, sprovvisto di un copione lineare, esplora allora il gioco, il sistema interattivo, per riconoscere il suo ruolo di interattore.
Un fortunato quanto dibattuto concetto di game design, il cerchio magico di Zimmerman e Sales, riguarda “l’emergere di significati come cause ed effetti del giocare”. Quando il player entra nel cerchio magico della rappresentazione videoludica, l’interazione diventa drammaturgica, ossia significativa da un punto di vista non primariamente meccanico. Nei videogiochi, quasi fossero mystery plays, altre forme teatrali a carattere religioso, il miracolo della credulità porta a espandere la dimensione dell’ignoto videoludico: resta sempre un mistero da svelare, anche quando di fatto non c’è, come Mew ad Aranciopoli. In tal senso, e senza voler anticipare nulla, The Witness di Jonathan Blow spinge il mistero aldilà del gioco stesso, andando ben oltre al solito trucco metareferenziale.
Nel cerchio magico, anche l’interfaccia cessa di essere percepita come estranea, divenendo qualcosa di simile a un dáimōn, una guida divina per il nostro avatar. L’esperienza del giocatore rappresenta anche una bussola nella foresta del non detto, laddove le corrispondenze baudelairiane vanno ricercate oltre il valore simbolico delle interfacce. Per esempio, l’apparizione della barra di energia di un boss, il più delle volte, comunica indirettamente al giocatore di trovarsi sulla strada giusta. Allo stesso modo, la richiesta di salvare la partita lo avverte che qualcosa sta per accadere. Tuttavia, anche avendo sotto agli occhi la macchinazione del sistema informatico, non viene meno la sospensione dell’incredulità.
Meister Eckhart sosteneva che “l’occhio nel quale io vedo Dio è lo stesso occhio in cui Dio mi vede”. Secondo il mistico tedesco, Dio è il nulla nel quale il fedele sprofonda quando crede, un po’ come avviene nel celebre monologo dei cretini di Carmelo Bene, nel film Nostra Signora dei Turchi. Proprio come a teatro, chi crede assiste al miracolo, mentre gli ingranaggi della finzione diventano invisibili. Per dirla con le parole del filosofo Giuseppe Rensi, “il miracolo non è che l’assurdo scorto dal punto di vista di chi crede”. Per attraversare l’abisso, occorre credere: in una quest di Pillars of Eternity, chiamata Corte dei penitenti, serve allora il favore di un dio per sopravvivere al salto nell’abisso. Anche Dark Souls propone una sua versione del balzo della fede: per saltare nell’abisso senza morire, occorre equipaggiarsi con l’Anello del Patto di Artorias.
Da Lev Šestov a Benjamin Fondane, l’autore di Baudelaire e l’esperienza dell’abisso, passando per Emil Cioran, Thomas Ligotti ed Eugene Thacker, l’abisso appare come il pedice dell’esistenza, la profondità senza fondo nella quale gli enti si specchiano nel nulla. Rust Cohle, il protagonista della prima stagione di True Detective, divenuto l’araldo pop di un certo pessimismo, sostiene che la consapevolezza di se stessi sia stata un errore evolutivo della razza umana, qualcosa che ci impedisce di credere, di prendere parte al teatro del mondo.
Sovrastimare la ragione, secondo Blaise Pascal, è però un errore. Il pensatore e matematico francese, che l’abisso l’aveva frequentato, ripudiava quanto oggi potremmo chiamare intrattenimento, ritenendolo una distrazione dalla condizione umana che, proprio perché miserabile, permetteva l’incontro con il divino. Esplorato dallo stesso Šestov, nel saggio La notte del Getsemani, il pensiero di Pascal considera la fede come qualcosa che, seguendo sistematicamente la ritualità dei sacramenti, può essere indotta meccanicamente. Una specie di farming dello spirito, dove l’azione ripetitiva restituisce la fede come un loot ultra raro. Uno scettico pessimista potrebbe dire che anche quella del filosofo francese era soltanto una rappresentazione, un devertere, un divertissement con una messa in scena a tema spirituale.
In Blasphemous si fa talvolta menzione di una dimensione, l’altro lato del sogno, alla quale il penitente non può avere accesso. Il miracolo, onnipotente, vincola perennemente la terra di Cvstodia alla sua piaga mutevole ed eterna: forse, l’altro lato del sogno è la nostra realtà mentre la dimensione del miracolo è la rappresentazione che, ciclicamente, si rinnova. In sanscrito, il termine Līlā indica l’idea che il cosmo non sia altro che una simulazione, un gioco, una rappresentazione. Lo storico olandese Johan Huizinga, nel suo celebre libro Homo Ludens, descrive come alla violazione delle regole di un gioco corrisponda la sua perdita di senso. Non c’è differenza, aggiunge, tra un luogo consacrato e il luogo del gioco.
Il sentimento del sacro, allora, sembra proprio la violazione di una regola che pertiene a un mistero. Se davvero il mondo è soltanto una rappresentazione, il riduzionismo nichilista di Rust Cohle diventa una violazione delle regole del gioco sociale. Un po’ come un glitch che rivela il pattern predeterminato delle nostre intelligenze artificiali, come programmate da una voluntas.exe schopenhaueriana. La vita, in quanto gioco, viene così spogliata del suo senso ultimo, una volta esibita la macchina scenica del mondo. Ecco perché Blaise Pascal consigliava di scommettere sull’esistenza di Dio, oppure Yamamoto Tsunetomo, l’autore dell’Hagakure, parlava del mondo come di uno spettacolo di burattini, pur esortando i samurai a vivere come se esistesse il libero arbitrio. Forse, l’abisso non è altro che la sala macchine dell’esistenza, il non luogo che visitiamo quando cessiamo di credere a una qualunque messa in scena dell’esistenza.