John Romero si sedette alla scrivania del suo ufficio. Era l’anno 1990, e lui e John Carmack—futuri fondatori della gloriosa Id Software—sviluppavano videogiochi per Softdisk, una software house di Shreverport, Louisiana. Trovò sulla tastiera un floppy, assieme ad un post-it che suggeriva semplicemente di lanciare il file ‘DAVE2’: quello che vide avrebbe cambiato per sempre la sua vita e la storia del gaming.
A quel tempo, la piattaforma PC non era in grado di rivaleggiare con le console in quanto a velocità e fluidità d’azione, basta ripensare ai giochi per DOS dell’epoca per ridestare ricordi di schermate che magari oggi possono rappresentare affascinanti esempi di pixel art, ma che erano caratterizzate oggettivamente da una certa staticità. Questo perché l’hardware dei PC, che certo non erano pensati per essere macchine da gioco, non eccelleva in quello che invece alle console riusciva molto bene: sul NES i giocatori potevano godere di Super Mario Bros. 3, gustare la spettacolare fluidità con cui scorrevano le schermate dei livelli, senza soluzione di continuità.
Quando Romero avviò ‘DAVE2’, si materializzò sullo schermo il risultato delle fatiche dell’amico e collega John Carmack, che aveva dedicato la notte precedente ad un’impresa che—a guardarla oggi—è estremamente rappresentativa della sua filosofia, dell’etica hacker che avrebbe poi sempre caratterizzato le sue scelte. Tramite l’innovativa tecnica dell’adaptive tile refresh, Carmack era riuscito ad aggirare i limiti tecnici del PC in modo da ottenere un risultato perfettamente sovrapponibile a quello della console: in pratica, piuttosto che costringere—com’era ordinario—il computer a calcolare e renderizzare ogni pixel della schermata che andava via via scorrendo con l’avanzare del giocatore, lo aveva programmato per far sì che elaborasse solamente quel che effettivamente variava.
Non dovendo ricalcolare, ad esempio, grandi porzioni di cielo—che restavano invariate all’incedere del giocatore—venivano risparmiate preziosa potenza di calcolo e memoria. Il risultato era un platform in cui finalmente il protagonista poteva correre lungo il livello che ‘scrollava’ fluidamente da una schermata all’altra, senza interruzioni. “Engineering is figuring out how to do what you want with what you’ve actually got“: la definizione di Carmack di cosa voglia dire essere un ingegnere mette in prosa quel che lui aveva fatto, ed avrebbe sempre fatto nella ricerca lunga una vita ed ancora in atto ad Oculus VR: cercare di ottenere quel che si vuol ottenere, sfruttando i mezzi che si hanno a disposizione.
Carmack aveva applicato questa tecnica proprio a Super Mario Bros. 3, o meglio al suo personale porting su PC del classico platform per NES: era una cosa mai vista, e infatti quando Romero—totalmente impreparato ad uno spettacolo simile—si trovò a muovere con le frecce direzionali della sua tastiera Mario sullo schermo del suo PC… anzi, non Mario. Perché Carmack aveva sì copiato insieme a Tom Hall (altro futuro fondatore di id Software) ogni dettaglio del capolavoro di Nintendo, ogni pixel di quel colorato e scorrevole mondo, inserendo però come protagonista un personaggio dei loro videogiochi, non di Nintendo: si trattava di Dangerous Dave, già protagonista di un loro titolo del 1988 per Apple II e MS-DOS. Il nome di questo porting-pirata era infatti Dangerous Dave in copyright infringement, traducibile maccheronicamente in “Dangerous Dave e la violazione del copyright“.
Una trovata tecnica geniale era stata messa al servizio dell’infrazione di un copyright, in particolare proprio di Nintendo, che già allora era particolarmente allergica a operazioni simili, e la cui attitudine come sappiamo non è mai andata addolcendosi… anzi, ad oggi il colosso di Kyoto rappresenta l’opposto della mentalità che poco sopra ascrivevo a John Carmack, quella hacker ethic che va a braccetto con l’open source, ovvero con la pratica di rilasciare sempre il codice sorgente dei propri software, di non registrare brevetti per il proprio operato: in sostanza il substrato fondamentale che ha reso possibili miracoli corali come il World Wide Web, ma più in generale lo sviluppo del patrimonio tecnologico informatico così come lo conosciamo oggi.
L’americano David Kushner ha pubblicato nel 2003 Masters of Doom, un reportage romanzato su come Carmack e Romero—i due John—siano stati in grado di rivoluzionare lo scenario videoludico e la cultura pop: reperibile al momento solo in lingua originale (essendo esaurita e non in ristampa l’edizione nostrana pubblicata da Multiplayer Edizioni), il volume rappresenta un mattoncino imprescindibile per chi volesse ripercorrere queste fasi della storia del gaming, ed è servito al sottoscritto come ispirazione e traccia di fondo per quel che state leggendo.
Kushner osserva con acume che per Carmack tutti i traguardi, i risultati che scienza e tecnologia avevano raggiunto fino ad allora, erano dovuti anche e soprattutto al lavoro pregresso di tutti coloro che vi si erano dedicati prima di lui: era impensabile privare il progresso della libertà di poter attingere a questo patrimonio, registrando brevetti e bloccando così di fatto l’accesso alla conoscenza. Quando a Softdisk si resero conto di cosa il loro dipendente era riuscito a fare, suggerirono subito di depositare un brevetto, ma la reazione di Carmack fu perentoria e non lasciava spazio alla discussione: «Se mai mi imporrete di brevettare qualcosa, mi licenzio». Per lui programmare voleva dire risolvere problemi, e trovava che sarebbe stato davvero brutto vivere in un mondo in cui non potesse risolvere problemi senza rischiare di incappare continuamente in brevetti registrati.
Questa tecnologia divenne poi la base per lo sviluppo della serie Commander Keen, il celebre platform che id Software sviluppò per conto di Apogee: grazie anche alla distribuzione shareware (specialità del distributore, Apogee) il gioco fu un grande successo e permise a Carmack e Romero di lasciare Softdisk—non senza qualche dissapore—e mettersi in proprio. Usarono il denaro ottenuto grazie a Keen per acquistare dei moderni PC 386, e li piazzarono nella loro nuova sede, una casa sulle rive di un lago che sarebbe poi divenuta il tempio del deathmatch. Il resto è storia: Carmack realizza che l’unico modo per ottenere il suo obiettivo, ovvero un fast action 3D game, è far calcolare al PC solo quello che serve, solo quello che il giocatore vede in un preciso momento, senza sprecare potenza di calcolo per la totalità del livello.
Questo mantra diviene possibile grazie al ray casting, la tecnica di rendering che consente ad id di sviluppare Hovertank, di fatto il primo FPS della storia. Il fascino di Hovertank sta più che altro in questo suo ruolo storico, basta un’occhiata per rendersi conto di come quei muri monocromatici non potessero esercitare grande presa, nemmeno nel 1991. Intanto, un altro genio come Richard Garriott regalava al mondo Ultima Underworld: per quanto Carmack apprezzasse gli RPG, quel che davvero lo tocca dell’ultima fatica di Origin è l’utilizzo del texture mapping; e proprio sfruttando questa tecnologia id supera la monotonia delle pareti di Hovertank dando vita a Catacomb 3-D, vero precursore del titolo destinato ad affondare il piede sull’acceleratore: Wolfenstein 3D.
Wolfenstein 3D incarna la filosofia che avrebbe caratterizzato tutti i titoli di id Software, ovvero la velocità combinata ad una sempre più marcata brutalità. Oggi il primo ci sembra un fattore scontato, ma in un’epoca in cui le potenze delle CPU si misuravano con due cifre, e così i megabyte di RAM a disposizione, ottenere un gameplay fluido e in grado di rivaleggiare con le console era—come abbiamo visto—una sfida non da poco. E sono esattamente queste le sfide che stuzzicano John Carmack: laddove la tecnologia sembra essere stata spremuta fino all’ultima goccia e l’obiettivo prefissato appare utopia, le sue trovate riescono a fare la differenza. Proprio da un lapsus di Carmack in una sua recente lezione alla UMKC School of Computing and Engineering emerge questa sua attitudine, quando affrontando una complicata questione tecnica si pronuncia dapprima con «So the problem is…», per correggersi subito con «the challenge becomes…». Non esistono problemi, ma solo sfide.
Come tutti sappiamo, Wolfenstein 3D si rivela un successo di pubblico e critica—per quanto questa si dividesse sugli aspetti relativi alla violenza—ma soprattutto inventa un genere: era il perfetto fast action FPS cui anelavano gli sviluppatori di Id, ed era stato possibile grazie alla sinergia dei due John. Da una parte Carmack, definito nel libro di Kushner the ultimate programmer, dall’altra Romero, the ultimate gamer. E proprio il rapporto tra i due risulta centrale nella storia che andiamo ripercorrendo, perché è impossibile pensare di comprendere cosa sia stata id Software—e con essa il divenire degli FPS—prescindendo dalla dialettica tra queste due figure così fondamentali. Un po’ come Lennon e McCartney, i due co-autori sono arrivati ad essere come due galli in un pollaio, personalità troppo ingombranti per non cozzare una contro l’altra, alla fine, decretando anche così importanti accadimenti per l’industria videoludica.
Ma, dapprima, i due John andavano d’amore e d’accordo. Carmack spingeva Romero ad essere un game designer migliore, mentre Romero faceva lo stesso con Carmack, aiutandolo a diventare un programmatore sempre più capace. Per citare un passaggio molto azzeccato dal libro, «Carmack creò una tavolozza con cui Romero dipinse il futuro»1«Carmack created a palette that Romero used to paint future».. Metodo e applicazione, teoria e pratica. Non che Romero non fosse in grado di programmare, anzi era sempre stato uno sviluppatore autonomo e capace, ma quando la speciale alchimia con Carmack era entrata in funzione, questa lo portò ad esprimersi soprattutto con il design del videogioco, lasciando all’altro John gli aspetti legati alla compilazione del motore grafico, al codice puro. Niente rendeva più felice Carmack di potersene stare al PC per dodici ore filate a scrivere un nuovo motore grafico, e lo stesso valeva quando si trattava di Romero davanti all’editor di mappe.
La rivoluzione portata avanti da Wolfenstein 3D non era fatta solamente di texture mapping, o di ray casting, o di altre trovate legate alla pura tecnica: così fosse, il titolo non sarebbe diverso da un qualsiasi benchmark per schede video. L’impatto del primo vero FPS è stato soprattutto culturale, era qualcosa di mai visto prima: l’eterna ricerca da parte di Carmack dell’immersività aveva compiuto il primo importante passo, e forse non ce n’è ancora stato uno tanto rilevante. Il giocatore si aggirava per questi sotterranei labirintici scaricando quintali di piombo sui soldati nazisti, sbudellandoli e sentendone i gemiti, in uno dei primi davvero influenti fenomeni gore. I giochi di successo erano titoli come Civilization o SimCity, i ritmi e i contenuti dell’FPS parlavano davvero una lingua totalmente nuova: finalmente i desideri di Adrian Carmack (art director di Id, non parente di John) di passare dalle atmosfere infantili di Commander Keen a qualcosa di più maturo e scabrosamente violento erano stati esauditi. Erano gli anni in cui il pop diventava grunge, con Nevermind dei Nirvana che surclassava l’ultimo singolo di Michael Jackson: anche i videogiochi avevano vissuto fino ad allora nel regno del pop, con Keen, Pac-Man, Mario. Era il momento della ribellione, era il momento di Wolfenstein 3D.
Nel manuale scritto da Tom Hall per Wolfenstein 3D, Romero veniva definito “Surgeon John” (ovvero il chirurgo) grazie al suo talento di giocatore, e Carmack “Engine John”, ovviamente per la genialità che dimostrava nel risolvere gli inghippi del delicato mestiere del programmare un motore grafico 3D. Seguono i consigli del chirurgo John, che suggerisce profeticamente di giocare con la combo di mouse + tastiera, quando anche negli anni immediatamente successivi i giocatori erano spesso legati ancora al controllo tramite la sola tastiera, senza free look con il mouse. Proseguendo nella lettura di questa sorta di documento storico, testimone di una così remota era del gaming—ragionando con le sproporzioni tipiche del fulmineo scorrere del tempo nel tech—troviamo che Tom Hall racconta di un Carmack «già nauseato da questa tecnologia. Non vede l’ora di mettere in pratica le sue nuove idee sul rendering di mondi olografici»2«already disgusted with the technology. He’s excited about his new ideas on rendering holographic worlds».. Engine John insomma, dopo aver rivoluzionato la grafica tridimensionale con Wolfenstein 3D, ne è già stufo, disgustato addirittura, e non vede l’ora di passare al prossimo progetto. Che, ovviamente, si chiama Doom.
In Doom l’alchimia Carmack-Romero si espresse ai massimi livelli, apice di una parabola che in poco tempo avrebbe finito la sua sfavillante corsa. L’imperativo restava il medesimo: velocità d’azione e violenza. Siamo nel 1993, lo stesso anno in cui Myst stava rappresentando la punta di diamante dell’esperienza videoludica su PC: i ragazzi di id lo detestavano. Come nota Kushner in Masters of Doom, Myst era tutto ciò che loro non potevano soffrire in un videogioco. Mancava di ritmo, non era incalzante, men che meno violento, il giocatore non si trovava ad avere paura. Se Myst era Shakespeare, Doom sarebbe stato come Stephen King.
Il futuro degli FPS avrebbe raccontato una storia diversa, questo è certo, ma gli albori del genere poco si prestavano ai compromessi: sarà necessario aspettare il 1998, anno dai contenuti videoludici più che memorabili, quando Half-Life darà il benvenuto al giocatore con una interminabile escursione su un trenino aziendale, in un’apparentemente ordinarissima giornata di lavoro a Black Mesa. Forse, se il Romero del 1993 fosse venuto a conoscenza di questa trovata, non avrebbe scommesso un centesimo sul successo di un simile videogioco: ma né Half-Life, né Unreal, né Deus Ex sarebbero stati possibili senza le premesse di Doom. Sarebbe sbagliato però visualizzare id come una sorta di entità monolitica che procedeva implacabile verso un titolo dal gameplay pressoché sovrapponibile a quello di Wolfenstein 3D, senza una dialettica interna: al contrario, Doom fu la prima occasione per veder emergere le dinamiche di conflitto tra gli sviluppatori di Id, e per veder delineata la gerarchia che, pian piano, avrebbe trasformato la società in un’estensione della prevaricante personalità di John Carmack.
Tom Hall infatti esprimeva il desiderio di dar vita ad un’esperienza videoludica che si smarcasse almeno un poco da quella di Wolfenstein 3D, che fosse più character driven, ovvero che prevedesse un protagonista più rilevante e influente sulla trama, altro elemento che era nel titolo precedente più pretestuale che altro. Se ci sembrano concetti prematuri per un medium così giovane com’era il videogioco nei primi anni ’90, è il caso di ricordare che Hideo Kojima nel 1987 aveva dato il via alla saga di Metal Gear, che fa della trama colonna portante attorno a cui scolpire il gameplay. A questo riguardo è esemplare la citazione di Carmack, per quanto possa suonare ridondante a chi abbia seguito negli anni la storia di id e degli FPS: «La trama in un gioco è come la trama in un porno; ti aspetti che ci sia, ma non è molto importante»3«Story in a game is like story in a porn movie; it’s expected to be there, but it’s not that important»..
Non che Carmack fosse del tutto insensibile all’idea di innovare lo schema vincente di Wolfenstein 3D, ma le sue scelte si orientavano più al puro gameplay—oltre che ovviamente all’evoluzione del motore grafico, in grado stavolta di dar vita a stanze di altezze variabili, e ad angoli diversi da quelli a 90° che caratterizzavano l’esperienza “labirintica” di Wolfenstein 3D. La sua idea iniziale era di realizzare per Doom un mondo continuo, non suddiviso per livelli: così Tom Hall dedicò vagonate di ore ad un concept che rispondesse a questo diktat, pur non trovandolo troppo ispirato.
Di nuovo viene da pensare al poco distante futuro degli FPS, con Half-Life che—a tutto vantaggio di quella stessa immersività che Carmack andava inseguendo da principio—offrì nel 1998 un mondo in cui l’unica interruzione erano i brevi caricamenti tra un corridoio e l’altro… certo, all’epoca non erano così brevi come nell’era Steam, ma è comunque una struttura che metteva in pratica l’intuizione di Carmack. Intuizione che, però, John abbandona dopo poco, lasciando Tom Hall deluso a sguazzare tra le ormai inutili bozze di un concept naufragato: è da un po’ che Tom si sente fuori posto in Id, sente di non poter esprimere appieno la sua creatività, e decide così di lasciare i due John. Migrerà in Apogee/3D Realms, dove dirigerà lo sviluppo di un FPS che meriterà un buon successo di pubblico e critica, Rise of the Triad, ma che non sarà certo l’incarnazione della ricerca innovativa che lo avevano motivato a lasciare Id.
Ad ogni modo, Doom riesce ad essere innovativo senza variare il gameplay collaudato in Wolfenstein 3D, che effettivamente non aveva ancora avuto modo di invecchiare davvero. Il nuovo Doom Engine, o id Tech 1, rimane un 3D “a metà” (è definito infatti 2.5D), con la visuale che è in grado di spostarsi sull’asse X ma non sull’Y, e con i nemici in veste di sprite 2D e non poligonali; dovremo attendere Quake per superare questi limiti ed entrare nel 3D propriamente detto. Ma l’engine è finalmente in grado di vestire con il texture mapping anche pavimenti e soffitti, e soprattutto di mimare in maniera eccellente l’illuminazione in tempo reale grazie ad espedienti basati sulla posizione del giocatore in relazione all’ambiente circostante. Di nuovo, Carmack ottiene i risultati prefissati sfruttando con astuzia quel che la tecnologia dell’epoca poteva fornire.
Ma è ovviamente Romero l’ingrediente complementare alla tecnologia di Carmack, è lui il designer in grado di farla cantare. È lui che progetta i livelli più brutali, spaventosi e coinvolgenti, con quelle masse di nemici che caratterizzano il brand e che—allargando il focus sul futuro imminente—lo distinguono da Quake che, con i suoi nemici tridimensionali, non sarebbe riuscito a far sopportare ai PC dell’epoca una simile indigestione di poligoni. Quelle del level design non sono dinamiche che Romero lascia al caso, al contrario le riassume in alcune regole ben precise, tra cui le più interessanti prescrivono di far sì che il giocatore debba sempre ritornare sui suoi passi, in modo che possa avere un’idea realistica e precisa della struttura 3D della mappa; o che quando egli intravveda un’area da un varco possa effettivamente raggiungerla, fino a regole più strettamente legate al design e meno al gameplay, come quella che gli fa cambiare sempre l’altezza di una stanza quando vuole cambiare la texture del pavimento. Possono sembrare dettagli di second’ordine, ma sono quelli che donano l’immortalità al gameplay: al di là del fattore nostalgia—che ci porta ad installare tanti vecchi giochi per poi riaprirli un paio di volte al massimo lasciandoli poi sguazzare comodi e indisturbati nel terabyte dei nostri moderni SSD—titoli come Doom e Quake risultano oggi ancora piacevoli da giocare, in virtù anche di quel valore aggiunto che costituisce l’ingrediente principale della formula rivoluzionaria inventata dai due John.
Si tratta del deathmatch. Il termine è considerato invenzione di Romero, sebbene è giusto ricordare che era già comparso in precedenza nel picchiaduro World Heroes 2, per quanto con peso e significato differenti. Sta di fatto che è con Doom che il deathmatch diventa quella modalità che oggi ben conosciamo, categoria imprescindibile degli FPS e poi degli e-sports: da quando per la prima volta John fraggò l’altro John (sarebbe più al passo coi tempi la più triste espressione killò), molte cose sono cambiate nel gaming, ma il deathmatch resta l’essenziale tutti-contro-tutti che ha poi dato vita a titoli dedicati esclusivamente a tale modalità. La portata di una simile innovazione non era ovviamente passata inosservata a un gamer come Romero: non appena Carmack gli ebbe dato la prima dimostrazione del multiplayer in Doom, Surgeon John strabuzzò gli occhi gridando «We can kill each other! [Possiamo ammazzarci a vicenda!]».
L’epoca del World Wide Web stava per iniziare, e in quest’epoca che oggi appare così remota le possibilità del multiplayer erano unicamente la connessione diretta via cavo o LAN, anche se dopo l’uscita di Doom 2—grazie al software DWANGO—divenne possibile giocare anche tramite connessioni remote. Tutto divenne poi molto più semplice grazie all’Internet moderno, a Gamespy, Microsoft Zone, NGI e via dicendo. Certo è che in Italia la percezione degli albori di questo fenomeno—che è giusto considerare pop—appare un poco smorzata, a causa del digital divide che condannava la stragrande maggioranza degli utenti a connessioni lentissime e con latenze decisamente inadatte a FPS come Doom o Quake. Ad ogni modo sbocciava la gloriosa era dei LAN party, situazioni decisamente più sociali e folkoristiche rispetto ad una fredda scrollata al browser dei server, con pesanti PC sfacchinati di qua e di là in un intreccio di cavi di mouse seriali e voluminosi schermi CRT.
Per capire le proporzioni che ebbe oltreoceano la Doom-mania, basti pensare che in molte aziende ed università gli amministratori si trovarono costretti a vietare Doom, perché i deathmatch sovraccaricavano le reti locali impedendo di fatto il lavoro e il traffico ordinario. Si trattava di una vera rivoluzione, e la dipendenza da deathmatch venne paragonata alle droghe, con l’espressione cyberopiate. A contribuire a questo implacabile fermento, così nelle corde della hacker ethic tanto cara a Carmack, c’era poi l’altro grande fenomeno che prese il via grazie a Id, quello delle mod.
Sebbene alcuni colleghi in id sposassero linee di pensiero più conservatrici, Carmack non esitò a diffondere gratuitamente il codice di Doom, avendo l’accortezza di separarlo dai dati di gioco (mappe, suono, texture…) contenuti in appositi file con estensione .wad, acronimo di “where’s all the datas? [dove sono tutti i dati?]”. Così facendo permise alle orde di fan più smanettoni e creativi di dar vita al proprio Doom, o quantomeno a quello che la propria fantasia e abilità riuscivano a far fare al glorioso Doom Engine. E più semplicemente, chi non ambiva ad opere così complesse da essere definite total conversion, poteva vestire i panni del mapper. Era il trionfo dell’hacker ethic, con una miriade di mod che venivano scambiate tramite la Rete. Di nuovo, per apprezzare l’influenza che id e la relativa filosofia sono stati in grado di esercitare, è interessante pensare a quel che sarebbe avvenuto nel futuro prossimo: le mod diventeranno rapidamente colonna portante del panorama FPS, e successivamente anche degli RPG.
Gli esempi celebri sono parecchi: il primo è rappresentato da Team Fortress, mod per Quake che inseriva per la prima volta il gioco di squadra, premessa prima di Team Fortress Classic—gloriosa mod di Half-Life—e poi di Team Fortress 2, titolo stand-alone che è stato in grado di replicare il successo degno del suo retaggio. Proprio questo sguardo trasversale verso Valve, la software house di Half-Life, ci permette di apprezzare la produttiva dialettica che sembra attraversare queste due realtà, che—pur con le dovute differenze in termine di gameplay e intenti—hanno caratterizzato il meglio degli FPS. Il motore stesso di Half-Life deriva da quello di Quake, e non tutti ricordano che il titolo nacque originariamente come mod per lo sparatutto di id Software. La filosofia basata sulle mod diventerà cardine del capolavoro di Valve, regalando—oltre ad innumerevoli lavori amatoriali di pregio—successi commerciali come l’ottimo Half-Life: Opposing Force e Counter-Strike: quest’ultimo rappresenterà un contributo determinante ad una certa evoluzione del genere, nonché degli e-sports o più in generale del gaming pro.
Ma quel che più può essere preso a indice dell’immortalità di questo trend e del fil rouge che lo lega a Doom, è il fatto che ancora oggi continuino ad uscire mappe e mod per l’FPS del 1993: addirittura, nel maggio del 2019 lo stesso John Romero ha rilasciato Sigil, pack di 9 mappe single player + 9 mappe deathmatch. Oltretutto, esistono un portale estremamente attivo, Doom Repository, ed un gruppo Facebook omonimo altrettanto frequentato che fungono da raccoglitore per le innumerevoli mod del gioco, nonché da punto d’incontro per i tantissimi gamer e modder ancora affezionati ad esso. In un’intervista a PC Gamer del 2006, Carmack osserverà che la Quake era aveva rappresentato l’età dell’oro per le mod; al contempo aggiunge con tristezza che più il gaming è andato evolvendosi, più le piattaforme si sono rese in grado di fornire una complessità prima inarrivabile, e ciò ha avuto l’effetto collaterale di rendere lo sviluppo di mod sempre più difficoltoso e meno invitante. Il commento di Carmack è in risposta ad una domanda sull’impatto generale dell’impegno di id a sviluppare per Xbox 360, situazione che gli permette di aggiungere che secondo lui il PC resterà il “porto sicuro” delle mod (una realtà su tutte, Steam Workshop), e di garantire che il suo impegno nei riguardi dell’open source non andrà appassendo: infatti nel 2011 rilascia il codice di Doom 3, come da tradizione Id.
Il successo di Doom spinse subito id a progettarne il seguito, sebbene Doom 2 avrebbe rappresentato più una sorta di grande pack di livelli che una vera evoluzione: come sappiamo infatti, il seguito sfrutta lo stesso engine e lo stesso gameplay del predecessore. L’idea era quella di cavalcare il successo del brand, mentre Carmack lavorava sul motore grafico di Quake. Il concetto di sfruttare il potente engine per dar vita a progetti alternativi all’originale divenne un’attitudine intrinseca di Id—e in seguito anche di altri importanti realtà, come è avvenuto per l’Unreal Engine. Infatti, mentre Doom continuava a fruttare milioni su milioni, Romero vendeva a terze parti il suo engine, seguendo personalmente la produzione di titoli come Heretic ed Hexen presso Raven Software, casa che sarebbe poi divenuta protagonista dello scenario FPS. La scelta si rivelò sicuramente vincente, con i due John che sfrecciavano ognuno sulla propria Ferrari Testarossa, ma l’ombra della crisi cominciava ad indugiare su quell’alchimia che pareva così perfetta.
Abbiamo visto che nel pieno della Doom-mania Carmack era già a testa bassa sullo sviluppo dell’engine del prossimo titolo, Quake, mentre Romero… beh, Romero faceva la star. Già in Doom 2 il suo impegno come mapper era stato di secondo piano rispetto a quello di American McGee, il nuovo talento appena entrato nel team. Come il deathmatch era diventato causa di crolli di produttività sui posti di lavoro, ironicamente il fenomeno aveva avuto gli stessi effetti su chi lo aveva originato: Romero dedicava sempre meno tempo allo sviluppo, preferendo darsi al deathmatch, magari sfoggiando la sua amata maglietta col logo di Doom e la scritta “wrote it“, fiera affermazione traducibile come “l’ho scritto io”. Carmack cominciava a risentire della mancanza del solido collaboratore che conosceva, che ai tempi di Wolfenstein 3D passava con lui le notti a sperimentare, e durante lo sviluppo di Quake non ci volle molto perché accusasse il collega di battere la fiacca.
Ma il conflitto aveva radici profonde, ed è riconducibile alle già citate differenti visioni del gameplay da adottare: l’idea—dopo Doom—era di sviluppare con Quake qualcosa di davvero nuovo, con elementi di combattimento corpo a corpo, ambientazione fantasy, trama più preponderante… insomma, l’intento di superare il modello Wolfenstein–Doom c’era, stavolta anche Carmack ci credeva. Ma lo sviluppo del Quake Engine, noto anche come id Tech 1.5, aveva richiesto più tempo del previsto; d’altronde stavolta si trattava di vero 3D, con i nemici poligonali, la possibilità di guardare in ogni direzione e di saltare, unitamente ad una resa grafica che lasciava davvero di stucco, e che rese subito quella di Doom evidentemente obsoleta.
I tre designer lavoravano sul nucleo che Carmack aveva fornito loro, e i risultati erano stavolta frutto delle personali concezioni di ognuno, cosa che si osserva anche oggi rigiocando Quake: le mappe di Romero erano medievaleggianti, quelle di American McGee ammiccavano ad uno stile più industriale-futuristico, mentre quelle di Sandy Petersen (entrato in squadra da poco ma con già alle spalle una solidissima esperienza nella Microprose di Sid Meier) andavano più verso il gothic. Il concept innovativo con elementi RPG a cui puntavano era evidentemente un’utopia, dopo un così travagliato sviluppo pensare di dar vita ad un gameplay tanto impegnativo era fuori discussione. Si concretizzava così la critica che Romero, insieme a chi avrebbe poi lasciato con lui la società, faceva al modus operandi di Id: ovvero che quando il sofisticato motore grafico era pronto non c’erano più tempo né risorse per occuparsi del gameplay. McGee avanzò l’ipotesi che forse era il caso di tornare sui passi di Doom, e fare quello che a id riusciva meglio: un classico FPS veloce, violento, e dai contenuti tecnici rivoluzionari.
Per Romero fu come un pugno in pancia. Si trattava, per lui, della prova che in id ormai il gameplay era subordinato allo sviluppo tecnico del gioco, che avevano perso di vista il vero focus di tutta la questione relativa al creare videogiochi. David Kusher riporta le parole con cui Romero cercava di far valere le proprie ragioni: «Già in quest’azienda siamo schiavi della tecnologia, almeno dovremmo fare il massimo per realizzare con essa un gioco grandioso, come abbiamo fatto con Doom. Ora volete mettere assieme un gioco riciclando il materiale di Doom? Possiamo ancora fare un grande gioco se ci prendiamo il tempo per farlo»4«We’re already slaves to technology in this company and at least we can do what we can to make a great game on top of it like we did with Doom. Now these guys just want to slap out a game using the Doom stuff? We can still make a great game if we take the time to program it».. Ma per Carmack, Romero aveva già avuto tutto il modo e il tempo per giocare le proprie carte. Invece aveva mollato, e alla stessa maniera con cui quest’ultimo accusava l’altro di aver perso di vista cosa volesse dire essere un giocatore, il primo accusava Romero di aver perso di vista cosa volesse dire essere un programmatore. Peraltro, se ci fosse stato un livello disegnato da Romero che si fosse fatto bandiera dell’ambientazione fantasy-medievale, con elementi diversi da quelli già rodati, il team avrebbe potuto soppesare davvero quest’alternativa e valutarne la realizzabilità. Ma a quel punto, le uniche mappe giocabili erano quelle di McGee, con la loro ambientazione futuristica.
L’alchimia era spezzata, e terminato lo sviluppo di Quake Romero avrebbe dovuto lasciare id Software. Il clima era inevitabilmente cambiato, la competizione tra i designer era ai massimi livelli—tra l’altro con l’emergere di Tim Willits rispetto all’enfant prodige McGee—e l’atmosfera cameratesca dei tempi dello sviluppo di Doom era divenuta un pallido ricordo. Le differenti visioni dei due John erano arrivate allo strappo finale, ed erano incarnate da una parte dal già citato dissidio tra tecnologia e gameplay, o più specificatamente da come questi costituenti del videogioco potessero intrecciarsi per dar vita a un grande titolo. La filosofia di Romero era “design is law”, ovvero che il design dovesse essere la legge, la priorità da inseguire ad ogni costo. Carmack faceva invece del motore grafico l’imprescindibile colonna portante, e così sarebbe poi stato per id nell’epoca post-Romero: la società divenne a tutti gli effetti un’estensione del portentoso talento di Carmack, e i titoli a venire, coi loro pregi e difetti (Quake 2, Quake 3 Arena, Doom 3), avrebbero rappresentato la chiarissima incarnazione della filosofia di Engine John.
“Design is law” sarebbe divenuto il motto della nuova software house fondata da Romero subito dopo l’addio a Id, Ion Storm. John contattò il vecchio amico Tom Hall, che aveva lasciato id per divergenze simili a quelle dietro l’addio di Romero: in 3D Realms stava incontrando gli stessi ostacoli che lo avevano spinto fuori da Id, pur avendo avuto un ruolo importante nello sviluppo di Duke Nukem 3D, capolavoro definito l’ammazza Quake… sebbene Carmack ritenesse che il suo motore fosse tenuto assieme col chewing-gum. Insieme fondarono Ion Storm, la cui storia sarebbe stata legata a doppio filo con il distributore Eidos e con il più che travagliato sviluppo di Daikatana. Ma lo scisma tra i due John non era legato solo a questi aspetti di sviluppo del videogioco, quanto anche ad una differente visione della software house, di come essa dovesse svilupparsi e porsi sul mercato.
Romero puntava a dar vita con Ion Storm ad una compagnia gigantesca, con innumerevoli dipendenti al lavoro su più progetti contemporaneamente. Carmack invece riteneva che id dovesse dedicarsi unicamente allo sviluppo di un videogioco—compito che certo non lasciava spazio ad altre impellenze, e lo spiegò con parole sue: «Ritengo che tre programmatori, tre artisti, e tre level designer possano ancora realizzare i migliori giochi del mondo. Stiamo riducendo il nostro impegno come distributore, in modo da essere in massima parte sviluppatori. Questo è stato sempre un grosso punto di contrasto con Romero—lui vuole un impero, io voglio solamente creare buon software»5«I believe that three programmers, three artists, and three level designers can still create the best games in the world… we are scaling back our publishing biz so that we are mostly just a developer. This was always a major point of conflict with Romero—he wants an empire, I just want to create good programs»..
Così, il 1996 vedeva da una parte id Software, regno di John Carmack, e dall’altra Ion Storm, espressione delle aspirazioni di Romero. Come osserva Kushner, il deathmatch a cui avevano giocato i due John era finito. Ora, ne iniziava uno nuovo.