Cocoon, il videogioco come puro linguaggio

Un dialogo solitario intorno all'opera prima di Geometric Interactive.

Spegne la console.

«E così hai finito Cocoon

«E così ho finito Cocoon. Cinque ore e mezza, forse sei.»

«Corto?»

«Se mi è sembrato corto? No, mi è sembrato giusto.»

«Tu non sei quello che si spara 200 ore su Zelda o The Witcher 3

«Ah, ma anche su Ghost Recon, se è per questo. Sì, sono sempre io, ma col tempo inizio a preferire esperienze più contenute, diciamo.»

«Più contenute? Forse il punto è la giusta durata. La durata onesta. La durata coerente. Troppi videogiochi durano troppo solo per tenerti prigioniero di quel mondo di gioco. Per tenerti attaccato al brand. Al franchise. Per sottrarti ad altri giochi, alla concorrenza.»

«D’accordo, mi va bene messa giù così. Però poi in giro si leggono lamentazioni di ogni sorta quando un gioco dura poco.»

«Come se si comprasse un gioco a peso, e quindi a tempo. Immagina un discorso simile col cinema. O con la musica.»

«Be’, sì, ma se è per questo c’è anche gente che si lamenta della mancata traduzione in italiano di questo o quel titolo. “Niente italiano? Scaffale!”»

«Per fortuna Cocoon non ha una sola linea di dialogo. Tanto per tornare a noi.»

«Ed è bellissimo anche per questo.»

«Non ti piacciono i dialoghi, nei videogiochi?»

«No, non è che non mi piacciono. Ma l’ideale è non averne, non avere alcun testo. Come non avere una storia, una trama. Il gameplay è la storia. Le meccaniche di gioco, la trama.»

«Potrei essere d’accordo.»

«Cosa non ti convince?»

«Direi il fatto che anche Cocoon ha una trama. Una storia.»

«Forse ha una lore, questo sì.»

«Ma anche una storia, pensaci. Al di là della quest dello scarabeo, o qualsiasi cosa sia il suo piccolo protagonista.»

«Ma sì, in fondo sì. Ho avuto l’impressione di partecipare a un rituale alieno che si svolge uguale da un’eternità, di farne parte.»

«Ecco, quella è la storia di Cocoon. La storia di un generatore/manipolatore di mondi, di una preda che diventa cacciatore, ma in senso assoluto, appunto rituale. O almeno così mi è parso.»

«Forse è nell’impossibilità di definire del tutto ogni dettaglio di questa storia, la vera storia di Cocoon. Mentre invece il gameplay è precisissimo, pulito e rifinito fino all’ossessione.»

«La cosa più impressionante è che al giocatore non arriva nemmeno un grammo di tutta la complessità che c’è dietro alla costruzione degli enigmi del gioco, delle sue architetture.»

«Quella è l’arte: la disinvoltura dell’attore navigato, la perfetta adesione della messinscena alla storia che si sta rappresentando.»

«L’arte è nascondere la fatica e l’esperienza agli occhi del pubblico.»

«Se è per questo, Cocoon si gioca quasi da solo, praticamente. Il modo in cui suggerisce la soluzione dei suoi enigmi è sublime: come se la comunicasse direttamente alla mente del giocatore. Per non parlare delle boss fight: creative, da ripetere tre o quattro volte al massimo, senza stanchezza né frustrazione. Per giunta con un solo tasto.»

«Puro ingegno.»

«Ci pensi mai che in inglese ingegno si può tradurre con ingenuity

«Oh, ecco: è tutto lì. Ingegno e ingenuità, purezza. Falsi amici.»

«Chi, io e te?»

«No, è un modo per dire… Ah, mi prendi in giro. Ma tu chi sei?»

«Potrei farti la stessa domanda. Ma lo sai chi sono.»

«Sì. Sei la persona ideale con cui parlare di videogiochi. Visto che gioco sempre in singolo, ne parlo anche da solo. Perché poi alla fine oltre a giocarli, è bello parlare, di videogiochi.»

«Sì. Solo che non c’è molta gente con cui parlarne, in giro.»

«Gli aficionados sono tutti drogati dalle riviste di settore con i loro titoli clickbait. I puristi sono tutti un po’ gatekeeper. I giocatori occasionali della mia età, quelli che hanno iniziato da piccoli come me… semplicemente non giocano più.»

«Hanno cose più serie a cui dedicarsi.»

«Hanno delle vite.»

«Sono incompatibili, vita e videogiochi?»

«I videogiochi sono un’altra vita.»

Cocoon (Fonte: screenshot)

«Ecco: per la prima volta con Cocoon ho avuto l’impressione di essere davvero altrove, in un altro mondo, in un’altra vita.»

«Per la prima volta?»

«D’accordo, esagero. Ma il mondo di Cocoon era davvero vivo per gli affari suoi, ai miei occhi. Non sembrava messo lì apposta per intrattenermi. Sì, gli ingranaggi e i marchingegni e i bottoni da premere ci sono, ma sembrano disposti secondo una logica precisa da una volontà aliena, altra, incomprensibile, indecifrabile.»

«È vero. Non ti capitava da Another World, una cosa così. Dico bene?»

«Sì. Quel senso di completo straniamento, purissimo, che all’epoca in cui ho giocato Another World era dovuto anche al fatto che ero un bambino e non ci capivo granché. Però quell’idea lì—l’idea di non appartenere del tutto al mondo di gioco, che ha regole e una complessità organica tutta sua, che vive e pulsa a prescindere dalla tua partecipazione al gioco…»

«E nonostante questo la sensazione di immergertici completamente… Questo in Cocoon l’hai provato più che in altri giochi.»

«Decisamente.»

«Hai avuto la sensazione di comunicare, con Cocoon. Di parlarci. Con l’inorganico digitale che diventa organico nella tua mente, nel momento in cui fa scattare una connessione così viva con te, col giocatore.»

«Esatto.»

«Hai avuto l’impressione di finirci davvero, in quelle sfere, in quelle biglie-mondo.»

«Cosa c’è di più irresistibile di una biglia?»

«Niente.»

«La biglia di vetro, la sfera di cristallo, ma anche la palla di vetro con il paesaggio innevato da rovesciare… sono specchi deformanti di superficie infinita. Hanno come condizione primaria l’idea che dentro sia contenuto un mondo intero. Solo che quegli affari sono infrangibili, quindi il mondo al loro interno è inaccessibile. Con Cocoon puoi davvero entrarci dentro, invece.»

«E portarti dietro altre biglie-mondi.»

«Verso il finale del gioco la cosa sfugge un po’ di mano.»

«Avrei voluto che durasse per sempre, quella parte lì.»

«Sì, è molto divertente.»

«E poi si scopre che nell’infinitamente piccolo della sfera più piccola si cela un’altra sfera che è un universo intero. A quel punto la metafisica si fa fisica, e poi ancora metafisica. Archeologia dello spazio profondo: il divoratore di mondi viene sconfitto e il suo successore riparte daccapo, stavolta come un generatore di mondi.»

«Una storia sferica, di pieni e vuoti, ma anche ricorsiva, circolare, di eterni ritorni, di cornici nelle cornici. È praticamente Borges. O Calvino.»

«O Ricardo Piglia. Hai mai visto quelle foto di Piglia e Calvino con una sfera di cristallo tra le mani?»

«Sì, ho presente. Nelle foto si intravede il volto degli scrittori a rovescio, all’interno della sfera. È come se stessero presentando ai lettori un mondo, un mondo che sta tra le dita di una mano e sembra perfettamente noto a loro, ma ignoto a noi, con altre regole, del tutto inconoscibili.»

«Il demiurgo. Come lo scrittore, anche il piccolo scarabeo si allena nel plasmare e manipolare mondi per tutta la durata di Cocoon, fino a riuscirci nell’ultima parte.»

«Comunque è un maggiolino.»

«Facciamo coleottero, per non sbagliare.»

Cocoon (Fonte: screenshot)

«A proposito, ecco una differenza tra un testo letterario e un videogioco: il videogioco, come qualsiasi medium visivo, potrebbe non sentire l’obbligo di nominare le cose, ma solo di mostrarle e farle accadere.»

«Ma deve essere ugualmente preciso nel dargli il peso giusto, nell’interazione.»

«Molta dell’interazione di Cocoon passa dal sound design, non solo dall’aspetto visivo. Hai un solo tasto a disposizione, ma gli effetti sonori danno l’impressione che tu stia davvero toccando il mondo di gioco quando cammini, quando sposti qualcosa o la sfiori passandoci accanto, come le piante negli stagni del mondo all’interno della sfera verde. Questo è dare un nome alle cose senza nominarle, solo attraverso l’interazione.»

«E la sinestesia.»

«Sì, anche se non capisco perché continuare ad applicare categorie letterarie al videogioco. Anche prima, con Borges e Calvino, siamo arrivati a tanto così dal…»

«Se ha un nome—sinestesia—in che altro modo vorresti chiamarla?»

«…dall’usare la letteratura per legittimare, per nobilitare il videogioco.»

«Ah, eccoci.»

«Dovremmo trovare categorie nuove. Definizioni inedite. Parole nuove. Anche inventate. Un linguaggio tutto nuovo per parlare di videogiochi.»

«Ma se i videogiochi a loro volta attingono da romanzi, film, musica, perfino dal teatro…»

«Ma le sensazioni che restituiscono sono nuove, nella storia dell’umanità. Le possibilità che schiudono sono infinite, per certi versi inedite. Probabilmente siamo ancora solo all’inizio. Tra mille anni cosa saranno i videogiochi? Perché la letteratura, grossomodo, è sempre la stessa cosa.»

«Ed è quello il bello.»

«Tra mille anni non esisteranno più i videogiochi, allora.»

«Perché?»

«Perché dipendono troppo dalla tecnologia. Il libro è una tecnologia imbattibile, per questo è rimasto uguale nel corso dei millenni, e la letteratura è ancora qua. Chi lo diceva? Ah, no, non dirmelo, lo so: Umberto Eco.»

«Parlava di design.»

«Di nuovo la letteratura, comunque.»

«Letteratura: tecnologia stabile, linguaggio costante—ed è quello il bello, come dici tu. Videogioco: tecnologia instabile, linguaggio altrettanto, evoluzione imprevedibile. Per questo scomparirà.»

«Dovremmo preservarlo?»

«Santo cielo. No.»

«Godiamocelo finché dura, allora.»

«Fin qui abbiamo osservato ciò che succedeva all’interno della singola sfera: i videogiochi all’interno della macchina. Console, computer, telefoni, in ogni caso schermi. Adesso guardiamo fuori dalla sfera.»

«Il videogioco è dappertutto, attorno a noi.»

«Siamo all’interno del videogioco. In questa sfera. E fuori da questa sfera…»

«Un altro videogioco. È chiaro. E così via.»

«Il videogioco ha solo questa sfida davanti a sé: perdere le pinne, le squame, le piume, i peli, i residui di letteratura e altre forme culturali, e diventare puro linguaggio, che avvolge e cela anche la tecnologia che ne permette l’esistenza. E a quel punto potrà disperdersi, permeare tutto, ovunque.»

«Puro linguaggio, pura energia.»

«Purissima.»

«Vita.»

«Altra vita.»

«Vita vera.»

«Più vera della vita vera.»

«Più vita della vita vera.»