Il 31 gennaio 1997 uscì nei negozi Final Fantasy VII. Inizialmente il gioco era previsto per Nintendo 64, ma Hironobu Sakaguchi preferì traslocare il franchise su una console che funzionava con i CD-ROM, come la PlayStation. Sakaguchi non voleva essere limitato dalla capienza delle cartucce (FFVII infatti conta tre dischi), mentre Sony, che già possedeva il 70 per cento del mercato delle console casalinghe, sperava di essersi accaparrata la killer application che avrebbe sbaragliato la concorrenza di Nintendo e Sega. Ma il Dreamcast aveva ancora un asso nella manica, un gioco dalla storia travagliata che era cambiato innumerevoli volte inghiottendo milioni e milioni di dollari. Inizialmente doveva essere un RPG basato sul primo picchiaduro 3D della storia, Virtua Fighter.
Alla cabina di comando c’era appunto Yu Suzuki, il creatore di Virtua Fighter, Out Run e di alcuni arcade che incastonavano lo schermo nella postazione, che riproduceva una moto, oppure la cabina di un jet. Quando il progetto di Yu fu spostato sulla nuova console di Sega, la Dreamcast, la connessione con Virtua Fighter venne interrotta e Shenmue cominciò a crescere come un universo inedito. Ecco perché il giorno, o pochi giorni dopo l’uscita di Final Fantasy VII, Suzuki e lo stato maggiore del suo team di sviluppo, AM2 di Sega, erano nella stanzetta dei meeting settimanali e osservavano l’incredibile filmato di apertura. Quando la cut scene lasciò spazio al gameplay vero e proprio, Suzuki, fino a quel momento immerso nei suoi pensieri chiese: “Non parlano?”. Non è casuale che la sua attenzione sia caduta sul fatto che la voce dei personaggi di Final Fantasy era stata rimpiazzata da didascalie mute, perché il gioco che stava sviluppando non si sarebbe mai allontanato dalla realtà in quel modo.
Per chi non lo sapesse, Shenmue è un’avventura grafica con innesti dal genere dei picchiaduro e degli RPG. Il giocatore veste i panni di Ryo, che viaggia a Yokosuka e poi in Cina (nel secondo capitolo) per vendicare la morte del padre. La prima è una città realmente esistente, situata al centro del Giappone, riprodotta dagli sviluppatori di AM2 tramite indagini sul campo. C’è chi si è messo alla ricerca degli stessi scorci osservati nel videogioco e ci è riuscito. I personaggi non giocanti, 250 in tutto, sono unici: sia perché ognuno ha un aspetto diverso da tutti gli altri, sia perché hanno una routine che ne scandisce le giornate. Tutte le mattine la tabaccaia spazza il marciapiede davanti al negozio, quindi torna dietro al bancone, serve i clienti e a ora di cena va a casa. Il giorno lascia spazio alla notte, il sole alla pioggia e alla neve, mentre tutto, proprio tutto contribuisce ad imitare la vita. Credo che la chiave per interpretare le scelte di Suzuki sia proprio l’ambizione di tenere testa alla realtà, anche nei suoi tempi morti, nei suoi momenti di noia.
Che fare se uno dei personaggi con cui abbiamo appena parlato ci dà un appuntamento per il giorno dopo? Andiamo a dormire? Sì, ma solo se è notte. Contrariamente, dovremmo trovare qualcosa da fare, magari cimentarci in uno dei minigiochi (tra cui gli storici arcade creati da Yu), andarcene al bar per chiacchierare con i clienti o passeggiare alla ricerca di qualche scorcio evocativo. Shenmue viene ricordato anche per essere stato uno dei primi giochi a introdurre i quick time event (che consistono nel premere un pulsante al momento giusto durante un filmato) e per il sistema di combattimento mutuato da Virtua Fighter, che il giocatore deve padroneggiare per tenere testa a più avversari contemporaneamente. Tuttavia ciò che lo ha consegnato alla storia è l’incredibile profondità, per il tempo, dell’universo di gioco. Lo stesso Suzuki ha detto che per contenere tutte le informazioni sui personaggi non basterebbero quaranta film da due ore ciascuno: una tale mole di informazioni è stata stipata nei supporti fisici grazie a un algoritmo di compressione creato ad hoc. Cos’è questo se non l’ennesimo disperato tentativo di trasferire in un universo poligonale quanto più possibile della ricchezza del mondo?
Ci sono due stime riguardanti i costi di produzione di Shenmue. La prima è 70 milioni di dollari, la seconda, ridimensionata dallo stesso Suzuki, è 47. Entrambe le possibilità rendono il primo capitolo della saga di Ryo il videogioco più dispendioso del tempo, quando il mercato era meno grande e accessibile. Per avere un’idea delle dimensioni dell’investimento, pensate che ognuno dei possessori di Dreamcast avrebbe dovuto acquistare due copie per consentire a Sega di andare in pari, la qual cosa, non c’è bisogno di dirlo, non è mai avvenuta. Al contrario, Shenmue è stato un flop inaspettato, soprattutto considerando quanto bello e innovativo e profondo fosse.
Il seguito fu anche l’ultimo episodio della serie, e la storia di Ryo è rimasta in sospeso fino al crowdfunding del 2015, quello che ha fatto di Shenmue III (in uscita nel 2019) il videogioco più finanziato della storia di Kickstarter. Anche in questo caso quella di Yu è stata una vittoria monca, in bilico tra record e delusioni. Perché il vero obiettivo, cioè i dieci milioni che avrebbero dovuto rendere Shenmue III un vero open world, non sono stati raccolti. Forse qualsiasi altro grande classico sarebbe arrivato a quella somma, ma sembra che Shenmue davvero non riesca a elevarsi da una nicchia di appassionati che ne ha compreso la portata rivoluzionaria. Perché?
Provo a rispondere da una prospettiva personale. Sicuramente avrà influito la scarsa diffusione di Dreamcast e, più tardi, una distribuzione non adeguata su Xbox del secondo capitolo. Ero l’unico ragazzino a possedere Shenmue II tra tutti quelli che, come me, erano passati a Microsoft nell’era delle console a 128 bit. A pensarci bene, ero anche l’unico ad averne soltanto sentito parlare. Quando inserii il disco nella grande X mi ritrovai davanti a qualcosa di assolutamente affascinante. La grafica così piena di rifiniture aveva un carattere unico che mi è rimasto impresso negli anni, ma il gameplay era qualcosa che semplicemente non stavo cercando. Era come se l’azione vera e propria fosse rimandata all’infinito, per cui tutto si risolveva nel giocare d’azzardo, trovare un posto dove dormire e un lavoro per mettere insieme un po’ di soldi e seguire i personaggi per le strade affollate della città, camminando lentamente (d’altra parte nessuno corre sui marciapiedi, a meno che non sia in ritardo).
La principale caratteristica di Shenmue si era rivelata un limite: a quell’età cercavo esperienze fantastiche (nel senso letterale del termine) nei videogiochi, per cui passai ad altro. Ora al capolavoro di Suzuki è stata data una seconda possibilità. Oggi è in uscita una remastered con i primi due capitoli su Xbox One, PS4 e PC. A differenza di adesso, nel 1999 pochi utenti erano abbastanza maturi da poter apprezzare un’impresa così eccentrica. Tutti gli altri erano troppo affezionati ai fondamentali: spara, salta, corri, risolvi quell’enigma. Ma Tomb Raider: The Last Revelation, System Shock 2, Resident Evil 3: Nemesis, Final Fantasy VIII, che pure sono ottimi titoli, non sono in grado di tenere testa a Shenmue in termini di ricchezza dell’universo di gioco. Perché se i primi tentavano di aggirare le limitazioni degli hardware stilizzando i personaggi e gli ambienti e spogliando il gioco di texture e poligoni non indispensabili, Suzuki è stato l’unico a prendere la questione della verosimiglianza di petto, tentando di non perdere alcun dettaglio della vita vera nel processo di transizione verso il videogioco.