Non deve essere difficile fare il musical videoludico migliore di sempre, perché è un genere che in pratica non esiste. Immagino che lo sviluppatore canadese Greg Lebanov, quando ha iniziato a lavorare a Wandersong, possa avere avuto un’intuizione di questo tipo. Oppure, intendendola come sfida, potrebbe al contrario aver pensato che fosse una cosa difficilissima da fare, ed ecco spiegato perché nessuno l’avesse ancora fatta. In realtà la cosa più difficile in assoluto potrebbe essere proprio capire per quale motivo il musical sia un genere sostanzialmente assente nel panorama videoludico: io, per dire, credo che non giocherei ad altro.
La domanda, poco meno di due anni fa, se la erano posta su Eurogamer, in un articolo in cui però fatico a trovare una risposta convincente; né credo di averne altre da proporre. Fedele all’idea che uno dei più grandi ostacoli per il genere umano sia l’abitudine, potrei giusto avanzare l’ipotesi che, nel settore, la musica sia legata in modo troppo esclusivo all’idea dei giochi ritmici.
Le sale giochi giapponesi sono piene di titoli del genere—estremamente popolari da quelle parti—anche se mi viene il sospetto che la musica non vi rivesta affatto un ruolo centrale, dato che, considerato il frastuono generato dalle varie macchine poste una accanto all’altra, ai giocatori, per tenere il tempo, conviene probabilmente restare concentrati soprattutto sulla traccia visiva. In ogni caso, ritroviamo lo stesso principio in tutti i giochi musicali; in quelli che richiedono un’intensa prestazione fisica da parte del giocatore, in stile Guitar Hero, a cui si gioca con un controller a forma di chitarra elettrica, così come in quelli più tradizionali, ad esempio 140 o Crypt Of The NecroDancer.
Se ho ragione, insomma, non si fanno musical videoludici per il semplice fatto che non se ne sono mai fatti, e che l’idea stessa di un videogioco musicale è ormai abbinata a un preciso tipo di gameplay. Un musical, così, diventa difficile anche solo immaginarlo e, senza avere a disposizione nessun punto di riferimento consolidato, si rischia di non sapere nemmeno da dove iniziare.
Il regista Damien Chazelle, qualche anno fa, si è trovato di fronte al problema opposto: come si fa a fare un musical cinematografico moderno, in che modo si può dare freschezza a un genere così logoro e fuori moda? Non ricordo di aver atteso con particolare impazienza l’uscita nelle sale di La La Land, ma il caso ha voluto che trovassi molto presto un link per guardarlo in streaming. Al termine della visione non potevo fare altro: ho aperto Whatsapp e ho scritto alla mia ragazza, domani andiamo al cinema, devi assolutamente vedere una cosa; e io la devo rivedere, per bene, sul grande schermo.
Dopo aver lasciato sedimentare altre visioni di quel film, posso credere di aver indovinato quale sia il suo segreto: pur facendolo, non è nato per omaggiare o per modernizzare classici come Grease, West Wide Story o Singin’ In The Rain; è stato pensato e scritto per essere un classico. Ha di conseguenza quell’avventata leggerezza necessaria a citare e insieme a ignorare i grandi musical del passato, a usare ogni abusata convenzione del genere pretendendo di starla inventando in quel momento; e tutto riesce così bene che anche lo spettatore finisce con lo stare al gioco, e se ne convince, in un singolare capovolgimento dell’adorabile frase di Robert Bresson, contenuta in Note sul cinematografo, secondo la quale “in ciò che è inaspettato non c’è niente che tu segretamente non abbia atteso”. In questo caso potremmo dire che in ciò che è atteso non c’è niente da cui non siamo in fondo pronti a farci sorprendere; basta trovare il modo.
Giocando a Wandersong, e godendomelo davvero tanto, ho ritrovato proprio quel senso di avventata leggerezza. È un gioco che usa i classici e ne ignora le convenzioni; che adotta ogni cliché come se fosse la prima volta, adattando tutti gli elementi a un’idea di gioco in cui qualsiasi azione è uguale al cantare. La storia, del resto, è quella di un bardo con l’enorme ambizione di salvare il mondo intonando una canzone, la sola che ne può impedire la distruzione.
Nel corso della sua impresa, che prevede di far visita a diversi esseri dalla natura semi-divina per imparare da loro le varie parti della canzone, il bardo si ritrova in varie situazioni tipiche delle storie di fantasmi, delle avventure piratesche, persino dei romanzi distopici e dickensiani. A questi generi narrativi tanto diversi tra loro va aggiunta un’altrettanto abbondante varietà di generi videoludici, tra cui l’avventura, il platform, il puzzle game. Può sembrare un pasticcio, invece è la soluzione che stavamo cercando per un’idea di musical videoludico. Stando a Wandersong, si tratta di un gioco in cui la musica è la risposta a qualsiasi problema di game design; e se l’intuizione è giusta, siamo a ben vedere di fronte all’antitesi dell’antinaturalismo del musical cinematografico. Ciò che nei film spezza qui unisce e funge da collante, e la narrazione in Wandersong tiene meravigliosamente, infatti, grazie all’idea anticipata poco fa: tutto avviene cantando.
Il bardo per parlare canta, e per superare le sezioni platform muove le piante, o cambia la direzione in cui soffiano i venti, sempre con le sue melodie; e naturalmente, combatte cantando, sconfiggendo nemici che non sono davvero nemici, e nemmeno cattivi, senza mai ucciderli, come in una run pacifista di Undertale. Tutto questo dà anche l’idea dell’enorme carica positiva di Wandersong; il bardo è capace di stabilire una connessione con qualsiasi essere vivente, si preoccupa costantemente di aiutare chiunque e di non far male a nessuno, e poi fonda un gruppo musicale, colora i fiori, salta sui letti, impara nuovi balli, e molte di queste cose nemmeno hanno uno scopo, se non trasmettere sensazioni di stupore e di meraviglia.
Questo non vuol dire che il protagonista, così come Miriam, la sua compagna di viaggio per larga parte dell’avventura, non vivano momenti di crisi e di sconforto. Il bardo ha però questa incrollabile forza di volontà e resta sempre focalizzato sulla sua missione. D’altra parte quando si ha intenzione di salvare il mondo non si può aver timore dei propri stessi desideri, come accade allo Scrittore e al Professore in Stalker—ma il bardo nemmeno può evitare riflessioni di questo tipo, perché in Wandersong salvare l’esistente vuol dire anche impedire la creazione di un mondo nuovo, e forse migliore; né si può pensare di desistere solamente per evitare di fallire, come suggerisce Homer a Bart e Lisa in una puntata dei Simpson—perciò sia il bardo che Miriam non si lasceranno mai scoraggiare dalle difficoltà, o condizionare dai dubbi, nemmeno quando crollerà ogni loro certezza.
Così Wandersong non solo fonda il genere del musical videoludico, ma riesce a narrare una bella storia di amicizia, e a essere un racconto di formazione divertente, imprevedibilmente profondo e pervaso da uno strano misticismo. Subito dopo averlo finito ho contattato Greg Lebanov per fargli qualche domanda.
Come hai iniziato a lavorare nel mondo dei videogiochi?
Mi è sempre piaciuto creare cose! Quando ero bambino realizzavo fumetti e giochi da tavolo con carta e forbici. Ho scoperto Game Maker cercando di capire come fare un gioco di combattimento per un webcomic al quale stavo lavorando, e una volta imparato a usarlo mi sono reso conto che mi piaceva di più produrre videogiochi che fumetti.
Wandersong è diviso in sette capitoli che compongono un’avventura picaresca, in cui mescoli diversi generi usandoli sempre in modo originale. Come li hai scelti, e che relazione hanno con il gioco?
Ogni capitolo è nato a partire da una piccola idea chiave, e poi è cresciuto a partire da quella. Le principali tracce che ho seguito sono state le necessità dei personaggi e i principali temi e conflitti che volevo andare a esplorare. Perciò tutto è stato scelto e utilizzato con un’attenzione a questi elementi. Tranne la parte sui pirati. È solo che mi piacciono i pirati. Ma credo di averla fatta funzionare. Molti dei temi principali di Wandersong riguardano la decostruzione della tipica storia dell’eroe. Il bardo esplicitamente non è un eroe, e non può risolvere i problemi nel modo in cui lo fanno solitamente gli eroi. Così ogni riconoscibile convenzione venuta fuori scrivendo la storia è stata un’opportunità per esplorarla in una nuova maniera.
Una cosa che mi è sembrata molto riuscita è la costruzione di un mondo vivo, pieno di personaggi, tutti caratterizzati in qualche modo, persino nel font a loro associato, dai PNG più semplici ai coprotagonisti della storia. Alcune scene hanno un’elevata qualità di scrittura (quella con Miriam durante il concerto al The Crater è eccezionale). Cosa mi puoi raccontare della creazione dei personaggi di Wandersong?
Sono molto contento che ti sia piaciuta quella scena. I miei personaggi nascono in maniera abbastanza semplice, di solito con una bozza sul mio notebook e una vaga idea del loro carattere e dei loro sentimenti. Poi li getto nel mondo di gioco e ci parlo, cerco di vedere cosa sembrano voler dire. Anche i personaggi che i giocatori trovano più profondi e complicati, come Miriam, sono nati nello stesso modo, ma più un personaggio diventa centrale più il giocatore ci passa del tempo insieme, e quindi io ho la possibilità di andare più a fondo.
Se penso a Doraemon, posso dire che è destinato a un pubblico di bambini, mentre se penso a Bojack Horsemen, lo trovo sicuramente rivolto agli adulti. Ma di fronte ad Adventure Time non credo di avere una risposta, e penso che Wandersong in questo sia simile. È un titolo coloratissimo, molto positivo, ma appena la mia ragazza lo ha visto ha detto che era chiaramente un gioco sulle droghe.
Non credo di aver pensato molto a una determinata fascia di età per il pubblico di questa storia. I bambini sono davvero svegli. Non mi piace sottovalutarli. Mi sono concentrato solamente sulla narrazione di una buona storia, e penso sia venuta fuori una cosa con cui è possibile relazionarsi a qualsiasi età. Mi sono assicurato di renderlo adatto ai bambini in termini di linguaggio e di contenuti, ma non penso che il gioco ci abbia perso qualcosa.
So che è sempre facile pensare a influenze che poi non erano nella mente del creatore di un’opera, ma in Wandersong mi sembra di riconoscere il cerchio dei colori dell’interfaccia di Hue, e meccaniche “memorizza e ripeti” simili a quelle dei puzzle musicali di Toki Tori. Cosa è stato di ispirazione per il tuo gioco?
Non ho giocato nessuno dei due! Ho solo sentito di Hue dopo aver lanciato la campagna su Kickstarter, perché molte persone hanno iniziato a chiedere se mi fossi ispirato a quel gioco. Mi hanno influenzato molto la storia di EarthBound e la narrazione di Undertale e Hamilton. E una grande ispirazione sono stati i colori, i personaggi e il tono di Steven Universe, di Cucumber Quest e di Over the Garden Wall. Molti di questi non sono nemmeno giochi! Il mio approccio con Wandersong è sempre stato quello di partire dalla storia, e di progettare l’esperienza di gioco per comunicare quella. Di sicuro una fonte di ispirazione è stata il modo in cui piccoli giochi artistici, o realizzati durante le game jam, riescono a trasmettere una precisa emozione, o un’esperienza. Wandersong fa qualcosa del genere, ma unisce anche queste piccole esperienze per andare a comporre un quadro più grande. La cosa più simile che mi viene in mente è Night In The Woods, ma quando l’ho giocato Wandersong era già in una fase di sviluppo avanzata (e i due giochi restano comunque abbastanza diversi).
Per un gioco del genere credo sia stato fondamentale lavorare a stretto contatto con chi si è occupato della musica: come è nata e come si è svolta la collaborazione con A Shell in the Pit e Em Halberstadt?
Ho parlato con moltissimi musicisti prima di trovare il collaboratore giusto. Gord (A Shell in the Pit) aveva realizzato la colonna sonora di Parkitect, che mi era piaciuta molto. Abitava anche dalle mie parti, perciò ha finito con l’essere un’ottima scelta per una collaborazione—abbiamo lavorato a stretto contatto, vedendoci di persona, e siamo riusciti a sviluppare molte idee in questo modo. Em è stata la prima persona che abbia mai assunto per occuparsi del sound design; prima aveva sempre fatto tutto da solo. Em è entrata nel mondo di Wandersong forse più a fondo di chiunque altro, e ha messo molto di sé nel lavoro che ha fatto. Io andavo a casa sua e a casa di Gord in giorni diversi e abbiamo lavorato e passato bei momenti insieme.
In particolare, come è avvenuta la creazione dei suoni e delle meccaniche di gioco a essi associate? Ci sono cose che avete provato e che poi non sono finite nel gioco? A me sarebbe piaciuto un set di suoni più infallibile, che permettesse di stare sempre a tempo. Qualcosa tipo Mikutap.
Non lo avevo mai visto prima! È davvero divertente! Non c’è molto che sia stato estromesso dal gioco. La ruota dei suoni con otto note è stata la primissima cosa progettata per Wandersong, ed è stato un caposaldo al quale abbiamo sempre fatto riferimento. Era utile per me come designer e anche per il giocatore, perché l’interfaccia resta sempre la stessa e hai sempre un’idea di cosa fare. Io prima scrivevo la storia e progettavo il gameplay di una certa area, poi Em e Gord potevano aggiungere le musiche e i suoni. Abbiamo fatto spesso un po’ di brainstorming sulle interazioni che volevamo sperimentare insieme, ma la cosa più importante era sempre fare in modo che si inserissero con naturalezza nella storia.
C’è qualche differenza significativa tra le versioni per Windows e Mac e quella per Nintendo Switch che un giocatore indeciso dovrebbe conoscere?
Non credo che a qualcuno importi, ma la versione per Switch non ha achievement, e i giocatori trovano molto divertenti gli achievement di Wandersong perché sono una specie di scherzo integrato nella storia. Li ho aggiunti verso la fine dello sviluppo, poco prima che il gioco uscisse, perciò non li considero una caratteristica importante. Comunque, la versione per Switch è portatile, e questo è un grande vantaggio. Onestamente consiglierei solamente di prendere il gioco sulla piattaforma con cui si preferisce giocare.