Cosa è la popaganda

Un estratto dal libro "UDO - guida ai videogiochi nell'Antropocene".

Negli USA si parla di military-entertainment complex, ossia di complesso militare-ricreativo, per indicare una stretta cooperazione tra dipartimento della difesa e mondo dell’intrattenimento. Un fenomeno che fa parte di quella che io chiamo, più genericamente, popaganda, cioè la trasmissione di narrazioni egemoniche attraverso la produzione culturale di massa. Ma in fondo “tutta l’arte è almeno in parte propaganda,” come scrive George Orwell nel suo saggio dedicato al poeta Thomas S. Eliot.

Faccio qualche esempio. Il videogioco Raji: An Ancient Epic (Nodding Heads Game, 2020) racconta l’India antica e la sua mitologia, ma nel farlo ne segue la riscrittura in chiave nazionalista hindu e anti-islamica esplicitamente promossa dal governo del primo ministro Narendra Modi. La serie Call of Duty di Activision Blizzard ci mette nei panni di soldatǝ in varie epoche storiche, più o meno fedelmente replicate, dalla Seconda guerra mondiale del primo episodio del 2003 alla guerra fantascientifica di Call of Duty: Infinite Warfare del 2016. Una missione di Call of Duty: Modern Warfare del 2019 (remake del precedente Call of Duty 4: Modern Warfare del 2007) si chiama “Highway of Death,” autostrada della morte. I personaggi si riferiscono a una strada di un fittizio stato mediorientale chiamandola, appunto, l’autostrada della morte perché, secondo la storia del gioco, la Russia quando ha invaso il paese nel 1999 l’ha bombardata uccidendo la popolazione in fuga. Ma una autostrada della morte esiste davvero: è la strada che porta da Kuwait City, la capitale del Kuwait, all’Iraq, ed è chiamata così perché su quella strada durante la guerra del Golfo la coalizione occidentale (ossia USA, Canada, Regno Unito e Francia, non la Russia) bombardò le truppe irachene mentre erano in ritirata. Erano truppe in gran parte composte da minoranze oppresse dal regime iracheno e obbligate a combattere. Erano in fuga, come ho già detto. Erano accompagnate da veicoli e persone civili, anche loro in fuga dal Kuwait. La coalizione occidentale le bombardò con tutto ciò che aveva, comprese bombe al napalm. Attraverso Call of Duty: Modern Warfare gli USA prendono un evento reale, un crimine di guerra da loro stessi compiuto, e lo riscrivono addossandone la responsabilità alla rivale di sempre, la Russia. In fondo, già Napoleone Bonaparte (lo ricorda Armand-Augustin-Louis de Caulaincourt nel suo memoir) disse che “l’importante è dirigere con polso monarchico il flusso di questi ricordi, ed ecco qual è l’unica storia”. Noi potremmo dire che l’importante è dirigere con polso videoludico i ricordi.

Non è importante se la popaganda è volontaria o no. La sua forza è, anzi, la sua capacità di diffondersi senza che né le persone che la creano né le persone che ne fruiscono si rendano effettivamente conto di star creando propaganda o di stare leggendo, vedendo e giocando propaganda. Il pubblico non la nota proprio perché la popaganda rispetta il modo in cui le classi dominanti hanno plasmato le nostre idee e le nostre pratiche. Rispetta cioè quella che il politico e filosofo Antonio Gramsci chiama l’esistente “egemonia culturale.” Queste opere sono perfettamente omogenee con l’orizzonte culturale in cui il pubblico è quotidianamente immerso, e per questo possono diffondersi senza attrito nel cosiddetto mainstream. Un mainstream che è sempre manifestazione della classe dominante perché, spiegano Karl Marx e Friedrich Engels ne L’ideologia tedesca “le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante” (la traduzione è di Fausto Codino per Editori Riuniti, 1958). Sono le opere che non rispettano queste convenzioni a stonare e a essere quindi giudicate politiche.

Per lo stesso motivo, chi ha creato questi libri, questi film o questi videogiochi può non rendersi conto di star replicando false credenze e narrazioni egemoniche, perché le ha imparate a sua volta per tutta la sua vita, perché sono state interiorizzate e sono ora viste come normali, perché sono considerate semplicemente di buon senso. E non c’è niente di più politicamente conservatore di un’opera d’arte basata su quello che vien detto buon senso, ma che è soprattutto senso comune. Per esempio, lo studioso gramsciano Guido Liguori ha notato come nei Quaderni del carcere di Gramsci il senso comune, che Gramsci definisce “grettamente misoneista [contro ciò che è nuovo] e conservatore” e usa a volte come sinonimo proprio di “buon senso,” sia “una variante del concetto di ideologia.” Cioè, in un dato momento storico, il senso comune/buon senso è (scrive Liguori) “l’ideologia più diffusa e spesso implicita di un gruppo sociale, di livello minimo, anche nel senso di minimo comune denominatore”.

Il videogioco SimCity (Maxis, 1989) è una simulazione in cui posso costruire e gestire una città. Quello che ne è considerato l’autore, Will Wright, si basò sul libro del 1969 Urban Dynamics di Jay Wright Forrester, che voleva trasformare i processi che regolano crescita e declino delle città in equazioni matematiche. Per quanto Wright abbia descritto SimCity come “una caricatura di come una città funziona” il videogioco è stato promosso come strumento educativo per le scuole ed è stato persino usato durante la campagna elettorale per la nomina di sindaco di Providence per mettere alla prova lǝ candidatǝ. E comunque, nel modo in cui caricaturizza le città, l’opera mostra inevitabilmente una certa idea di come esse possano essere raccontate e sintetizzate: su The New Yorker SimCity è stato definito “forse la più influente opera di teoria della progettazione urbana mai creata”.

Titolo
UDO - guida ai videogiochi nell'Antropocene
Autore
Matteo Lupetti
Editore
Nuove Sido
Anno
2023
Tra i tanti problemi che incontro costruendo la mia città in SimCity c’è la criminalità, e per diminuire la criminalità all’interno della città simulata devo costruire caserme, cioè devo aumentare la presenza di polizia. Sembra un modo sensato di simulare la relazione tra ordine cittadino e crimine, sembra solo buon senso. Eppure nel mondo fisico non esiste un simile rapporto tra criminalità e presenza della polizia o di altre cosiddette forze dell’ordine. Già nel 1971 il primo studio statunitense sull’argomento (The cost of controlling crime: A study in economies of city life di Douglas Morris e Luther Tweeten) scoprì che nelle grandi città aumentare la presenza di poliziottǝ aumentava il crimine registrato invece di diminuirlo. Questo accade perché, come scrivono David Correia e Tyler Wall in Police: A Field Guide (Verso, 2018), “la maggior parte delle statistiche sul crimine sono basate sugli arresti della polizia, e quindi descrivono il comportamento della polizia, non il comportamento criminale”. E secondo un articolo del 2016 (Conclusions from the history of research into the effects of police force size on crime—1968 through 2013: a historical systematic review di YongJei Lee, John E. Eck e Nicholas Corsaro) che ha ripreso in mano 62 studi statunitensi realizzati dal 1971 al 2013 e dedicati alla relazione tra dimensione delle forze della polizia e criminalità, “l’effetto complessivo della dimensione della forza di polizia sul crimine è negativo, piccolo o statisticamente non significativo”. La scelta di raccontare la criminalità come assenza di polizia e la polizia come rimedio alla criminalità in SimCity rispetta però la cultura egemonica nelle nostre società occidentali. Pensate a come vi sembrerebbe al contrario strano trovarvi davanti a un videogioco in cui costruire caserme e aumentare la presenza della polizia per strada non ha, proprio come nel mondo fisico, alcun effetto sulla criminalità, o persino la aumenta. Che cosa poco di buon senso!

L’esistenza di quel particolare tipo di popaganda che nasce dal military-entertainment complex è rilevante soprattutto nel cinema, e infatti in italiano traduciamo a volte l’espressione con “complesso militare-cinematografico”. Se un film statunitense vuole la collaborazione del dipartimento della difesa, o dell’FBI, per poter usare e mostrare le sue basi, le sue armi e i suoi mezzi (con anche un importante risparmio nei costi di produzione) deve accettare la sua censura, o direttamente autocensurarsi, e deve diventare un efficace strumento di promozione del complesso militare statunitense e del reclutamento nei suoi ranghi. Questo vuol dire a volte modificare e a volte nascondere eventi storici, sminuire l’uso della tortura o, al contrario, promuoverne l’efficacia, evitare rappresentazioni sgradite delle dinamiche interne ai corpi militari e così via. In un centinaio di anni, il dipartimento della difesa statunitense ha collaborato alla realizzazione di 2500 tra film e serie televisive.

La prima opera a vincere un premio Oscar come miglior film fu, nel 1929, Ali di William A. Wellman, realizzato col supporto del dipartimento di guerra. Durante la Seconda guerra mondiale il cinema fu largamente usato sia per migliorare il morale di truppe sia per spingere la popolazione ad appoggiare il conflitto stesso. Appena dopo la Seconda guerra mondiale il dipartimento della difesa collaborò per un decennio a ogni importante film di guerra statunitense e si impegnò a ripulire l’immagine della ex-Germania nazista, almeno per quanto riguarda la Germania dell’ovest ora alleata nella Guerra fredda. Dopo la guerra del Vietnam, che segnò un momentaneo declino nel cinema militarista e in generale del militarismo, il dipartimento della difesa capì di poter usare il cinema per ricostruire la sua immagine.

Va prima di tutto sottolineato che in quegli anni anche le opere apparentemente più critiche verso la guerra del Vietnam (film come Apocalypse Now, Platoon, Il cacciatore) partecipavano alla propaganda statunitense. Il collettivo di scrittori italiani Wu Ming ha osservato che, anche se noi solitamente diciamo che la storia è scritta dallǝ vincitorǝ, grazie a queste opere sono gli USA, gli sconfitti, ad aver scritto la storia della loro sconfitta in Vietnam. Spiega Wu Ming 1: “La propaganda è quella del punto di vista americano: sì, abbiamo perso, ma solo noi possiamo raccontare che abbiamo perso, solo noi abbiamo la necessaria sensibilità, e soprattutto abbiamo mezzi più potenti, quindi possiamo stabilire un monopolio della rimembranza e del dolore. Sono pur sempre affari nostri, anche letteralmente, perché di quella rimembranza e di quel dolore facciamo mercato”. Come nota sarcasticamente il poeta vietnamita naturalizzato statunitense Ocean Vuong nella poesia Not Even (raccolta in Time Is a Mother) “Perché tuttǝ sanno che il dolore da giallo diventa oro quando lo stampi a caratteri americani./ Mida toccò il nostro sconforto. Napalm dall’arcobalenata postluminescenza”.

È proprio in questo periodo che arriva un’opera spartiacque nella storia del rapporto tra intrattenimento e mondo militare in occidente: il film del 1986 Top Gun diretto da Tony Scott, con Tom Cruise come attore protagonista. Le vicende raccontate dal film sono ambientate all’interno della United States Navy Fighter Weapons School, la scuola d’eccellenza per i piloti di combattimento statunitensi, detta appunto Top Gun. La pellicola non sarebbe stata realizzata affatto senza il supporto del dipartimento della difesa: uno solo degli aerei mostrati, l’F-14 Tomcat, costava all’epoca più dell’intero budget dell’opera (34 milioni di dollari contro 15). Invece, pagando solo 1,8 milioni di dollari al dipartimento della difesa, la produzione di Top Gun ebbe la possibilità di usare una base militare, quattro portaerei e svariati aerei da guerra, fatti volare davanti alle telecamere da piloti militari.

In alcune città statunitensi, la marina si piazzò con i suoi banchetti direttamente fuori dal cinema: con l’uscita del film si notò una effettiva crescita nell’arruolamento e aumentò la stima della popolazione verso i corpi militari. Non credo sia un caso che per girarlo fu scelto un regista come Scott, all’epoca noto soprattutto per il suo lavoro in ambito pubblicitario: Top Gun era, per la marina statunitense, proprio una pubblicità, una pubblicità praticamente a costo zero e che le persone avrebbero persino pagato per vedere. Secondo il dipartimento della difesa statunitense, “il film completò la riabilitazione dell’immagine delle forze armate, immagine che era stata brutalmente distrutta dalla guerra del Vietnam”.

Per questo motivo, in un’altra epoca di gravi difficoltà militari per gli USA e dopo venti anni di guerra permanente, Top Gun è tornato nel 2022 con un secondo film nuovamente realizzato insieme al dipartimento della difesa, Top Gun: Maverick diretto da Joseph Kosinski. L’intento promozionale è, di nuovo, chiaro: le proiezioni di Top Gun: Maverick nei cinema statunitensi erano a volte precedute da video dell’aeronautica statunitense che pubblicizzavano il reclutamento. E se il produttore cinematografico Jerry Bruckheimer faticò a convincere il dipartimento della difesa a partecipare al primo Top Gun, non c’è stato bisogno di insistere per Top Gun: Maverick perché, come ha spiegato Kosinski a The Guardian, “molte delle persone che stavolta dovevano prendere le decisioni si erano unite alla marina proprio grazie al primo film”.

Il successo di Top Gun rese centrale per Hollywood la collaborazione con il dipartimento della difesa e con i suoi mezzi. Anche se il dipartimento non può in teoria vietare che un film venga realizzato, perdere il suo appoggio può rendere un’opera economicamente insostenibile. La collaborazione non riguarda solamente più o meno seri o seriosi film di guerra: anche il film del 2012 Battleship di Peter Berg è stato realizzato insieme al dipartimento della difesa. E Battleship, per intenderci, è un film tratto dal gioco da tavolo Battaglia navale di Hasbro, con nemici alieni e la cantante Rihanna come attrice. Il dipartimento della difesa ha messo lo zampino, e i mezzi, anche in film e serie del Marvel Cinematic Universe di Disney, e il videogioco non poteva sfuggiare al suo interesse. Soprattutto dopo gli attentati dell’11 settembre, quando iniziò la ludicizzazione, la gamificazione, della guerra al terrore lanciata dagli USA.